mercoledì 2 giugno 2010

Tarcisio

Burgnich, ma lei si rese conto di quell'Italia-Germania 4-3?
"Di giocare una semifinale mondiale sì, del resto no. Eravamo un gruppo di amici, si dava quello che si poteva. E il dottor Franchi non ci aveva fatto pressioni, anzi ci aveva detto che dal '38 l'Italia non andava così avanti. Eravamo sereni".

Davvero?
"Davvero. Era il '70, mica l'Italia isterica di oggi con i politici che vanno in tv a sbraitare sul calcio e a mettere altri problemi ad un Paese già nei guai. La federazione ci passava solo l'acqua, le altre bibite ce la dovevamo pagare noi. Si telefonava a casa una o due volte a settimana".

Però la Germania non vi stava proprio simpatica?
"Diciamo che Beckenbauer era una prima donna, uno che dirigeva l'orchestra, il pallone doveva sempre passare da lui. Si comportava da eroe: scorrazzava, ordinava, distribuiva. Anche con il braccio incerottato. Tutti a dire: poverino, con quella fasciatura. A molti faceva pena".

Brera scrisse: "A mì nanca un po'".
"Concordo. Dopo l'1-0 di Boninsegna la Germania ci mise sotto di brutto, anzi ci dominò, ma noi cercammo di sfruttare ogni piccola occasione. Si sa, l'italiano ha estro, fantasia, furbizia. C'erano 103 mila spettatori, 50 gradi di caldo, i loro tifosi erano delusi, Beckenbauer ci guardava e non capiva. Perché per i tedeschi noi italiani siamo sempre stati molli, deboli, fannulloni. Mezze cartucce. Non era un luogo comune, loro ci vedevano proprio così, senza attributi".

Ma se lei è nato a Ruda e il suo soprannome era Roccia.
"Infatti a me giravano, anche se mio padre la guerra l'ha fatta con gli austro-ungarici. Venivo da una vita di fatica, a 20 anni ero l'unico giocatore di serie A che giocava e lavorava. Alle sette di mattina ero in cantiere, poi con la bici e con il pullman andavo ad allenarmi nell'Udinese. Allora il difensore doveva soprattutto essere umile ed annullarsi. Ce l'avevamo quasi fatta, mancava una manciata di secondi".

Al 90', erano le due del mattino in Italia, la tv era in bianconero.
"Schnellinger si avvia verso lo spogliatoio che era proprio dietro alla porta dell'Italia. Voleva risparmiarsi un po' dei fischi dei tifosi tedeschi. L'ha detto lui e ci credo. Intercetta un pallone e segna. Colpa nostra che l'abbiamo lasciato libero, visto che non era un attaccante".

Lui ha detto che quella partita è stata la croce della sua vita.
"Credo anche a questo. Per noi fu un Risorgimento. Ma io l'ho capito due anni dopo, dopo la targa all'Atzeca, dopo che quella partita smise di essere solo un gioco a pallone per diventare altro, una rivincita di carattere, una prova di unità e d'identità. Finalmente un'Italia che le suonava ai tedeschi. Anche se, al rientro, venimmo insultati: contava più la sconfitta con il Brasile, i tifosi si erano già dimenticati della Germania".

Sette gol segnati, tre su azione, gli altri rimediati.
"E io, terzino, che a un minuto dalla fine del primo supplementare faccio il gol del 2 a 2, del momentaneo pareggio. In tutta la mia vita ho segnato solo due gol con la nazionale, quello fu l'ultimo"

Di sinistro, su un rimpallo.
"Sì. Mi presero tutti in giro. Riva soprattutto, mi disse: "Ma dove vai con quegli zoccoli". Mi chiamava "il montanaro". Niente baci, pochi abbracci. Io non gradivo. Le sceneggiate di oggi non le capisco. Segni? Accontentati. Ma non mancare di rispetto ai tuoi avversari con gesti e scritte. Perché ci sono i ragazzini che ti guardano e che poi sui campetti ti imitano. Io darei un cazzotto a chi mi si mette a ballare davanti dopo una rete".

Il 3-2 lo fece proprio Riva.
"Ripetendo lo stesso gol che aveva fatto al Messico. Ma al minuto 110, angolo per la Germania, Muller colpisce di testa, Albertosi grida tua a Rivera che è sul secondo palo, ma c'è un malinteso".

Bè, Albertosi ebbe una mezza crisi isterica.
"Cose che capitano. Ma eravamo un gruppo, chi andava in panchina non faceva la vittima. I terzini stavano lì, a marcare, una volta che con l'Inter a San Siro contro il Benfica, io e Bolchi ci scambiammo l'uomo, che purtroppo segnò, Herrera mi chiese: lei dov'era? E aggiunse: lei ci deve andare anche al gabinetto con quello. E mi mise fuori squadra. Altra mentalità. Adesso piacciono quelli che escono dalla difesa con eleganza e vanno avanti: ma dove vai, stai lì, a fare il tuo lavoro. Cannavaro ha ritrovato qualità alla Juve quando Capello gli ha imposto di non superare la riga. Lo stesso Facchetti avanzava perché imponeva il suo gioco, ma tornava sempre a marcare".

Poi Rivera si fece perdonare. Chissà che feste.
"Mica un granché. Nella piscina dell'albergo a mangiare bistecche alla brace. E sempre pagando le bibite. Poi tutti in camera mia, che era sempre la più affollata, a fare scherzi".

Nessun segnale dall'Italia?
"No. Era l'alba. Non c'erano né fax né stampa. Anche se i giornalisti che vennero a trovarci dissero che in Italia c'era un clima euforico. Io, ripeto, non mi sarei mai immaginato che quarant'anni dopo sarei stato ricordato per quella partita. Mi hanno chiamato ad un bel festival a Pavia il 18-19 giugno, se mi vogliono è perché abbiamo significato qualcosa".

Anche perché nella foto sotto Pelè che salta di testa, c'è lei, Tarcisio.
"Una finale senza storia quel 4-1 con il Brasile. Eravamo cotti. Venne Franchi a chiederci come stavamo. Risposi sinceramente: le gambe sono molli. Bisognava avere coraggio e cambiare squadra, buttarci tutti fuori. Ma su quella foto voglio dire una cosa: Pelè mi prese in controtempo. Ero in ritardo, non l'ho nemmeno ostacolato. Pelè valeva Di Stefano. Maradona lo metto più in basso".

Per via dell'orecchino e dei tatuaggi?
"Perché non è stato un buon esempio. Prendete Materazzi, è un padre, ha tre bambini, ma può mettersi quelle magliette e quelle scritte? No. Oggi ci sono giocatori che non firmano autografi ai bambini, lo dico perché quando porto qualche pallone non li firmano nemmeno a me. Vergogna".

Però Beckenbauer ha continuato a fare strada.
"Noi no. Ho 71 anni, dal 2001 non alleno più. Quarant'anni dopo continuo a non leccare il sedere ai presidenti. Quando ero al Como il dottor Berlusconi mi chiamava per lamentarsi che non facevo giocare Borghi. Gli risposi: io devo salvare la squadra. Nel Bologna ho fatto debuttare Mancini in serie A a 16 anni, oggi chi li vede più i giovani? La verità è che dopo quell'Italiagermania il calcio non è più finito ai calciatori".

di Emanuela Audisio; la Repubblica

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