"Più lontano possibile da Beckham". Da cinque anni una squadra di pensatori dell'immagine sta lavorando per preservare l'ultimo calciatore di strada: Wayne Rooney. Un look perfetto, scarno, che non lascia spazio ad alcuna improvvisazione. Vedete un muro rosso? E' pensato. Quella maglietta sdrucita? Un calcolo programmato. Il suo urlare allo specchio a torso nudo? Vuole colpire. Il futuro da barbone? Un colpo di genio per non dare certezze. E così le altre identità del ribelle, del semplice, del pelato precoce. Il "brand" Rooney, in apparenza così elementare e di così poca sostanza, è in realtà una meraviglia del moderno marketing. Per i costruttori di look, stanchi di gigantismo e forse anche dei troppi colori, Wayne si è rivelato un pozzo di idee travestito da centravanti: "Ne valutiamo cento al giorno, novantacinque le scartiamo, cinque sono perfette", dice l'instancabile e ben remunerato staff del "Team Rooney". Sull'ultimo numero di "Esquire" c'è una foto in b/n del 2005, ritoccata, in cui Wayne è in piedi nel "backyard" di una casa inglese qualunque, pura oleografia, il piede destro su un pallone d'annata a esagoni (ma con lo "swoosh" della Nike). Un signore e una signora anziani lo guardano sorridenti come fosse il nipote che esce per andare a giocare a pallone. Un "mod", uno che viene dalla terra, dai giardini dietro casa, che impara a giocare a calcio col battimuro, uno che appartiene alle radici dello sport più bello del mondo, quando i calciatori, almeno in Inghilterra, si chiamavano Stan o Jimmy, guadagnavano 10 sterline a settimana, mangiavano fagioli tutti i giorni, imparavano a calciare solo di piatto e se facevano i difensori o gli attaccanti chiudevano la carriera sdentati.
In quel ritratto da copertina discografica (gli Who di "Quadrophenia"?) è come se Rooney dicesse: io vengo da qui, dalla tetra malinconia di una stradina di Liverpool, dove i mattoni puzzano ancora di lardo e dove non batte mai il sole (perché piove sempre). Una stradina come quella da cui Tom Finney usciva molto presto di mattina, negli anni Cinquanta, più o meno vestito come il Rooney virato antico. Andava ad allenarsi col Preston North End dal quale riceveva due sterline al giorno.
Dietro questo andare a ritroso, dietro questo restituire al calcio la sua natura proletaria, incombe il peso di una lucida strategia commerciale. Si parla di accordi pesanti: per tanta ricerca iconografica, la Nike suole versale a Rooney quasi 1,5 mln di sterline l'anno, parte delle quali va nelle casse del Team. Una cifra sufficiente per acquistare una decina di stradine secondarie di Liverpool e rimetterle in sesto. Dunque Rooney come star degli eterni bassofondi: "Ho preso da Paul Scholes, non da Beckham", scrive nella sua autobiografia "My story so far". Un altro Paul, Stretford, il suo controverso agente, lo avvertì: "Non cedere i diritti per la gestione della tua immagine finché non capisci cosa vuoi diventare". E' diventato l'opposto di Beckham. Li unisce soltanto il guadagno. Rooney però è stato più precoce. A soli 17 anni, il "boy next door" si metteva in tasca già 13 mila sterline a settimana (ora sono 90 mila). Ma dove Beckham è stato la progressiva negazione delle origini, Rooney le ribadisce di continuo, fra spontaneità a programmazione. Nella stanza 44 della Manchester Mercantile Court il "Team Rooney" aveva deciso: più lontano possibile da Beckham e dalle sensazioni di ricchezza che lo spice boy trasmette. Una manipolazione intelligente e diabolica che sta portando bene e soprattutto lontano. A un altro calcio, al calcio che una volta giocavano per strada soltanto i ragazzi di strada, poveri e non troppo belli. Se gli andava bene diventavano ricchi e famosi e ogni settimana avrebbero portato a casa 10 sterline a settimana. Come Rooney.
di Enrico Sisti; la Repubblica
Nessun commento:
Posta un commento