giovedì 10 giugno 2010

Stringiamci a coorte!

L'azzurro Savoia della Nazionale è uno dei colori indelebili dell'infanzia. In quanto tale, prescinde dai colori che la vita di ciascuno di noi ha via via sovrapposto: l'infanzia è un ricatto che ci accompagna fino all'ultimo respiro. Sulle tribune di pietra del vecchio stadio di Novara mio padre mi indicò un signore anziano, alto e secco, e mi disse: "È Silvio Piola. È stato un grande azzurro". Dal basso dei miei sette anni scrutai il Grande Azzurro ad occhi sgranati, cercando tracce di quel colore nel decoroso vestito grigio. Di azzurro non aveva nemmeno la camicia, ne dedussi che quel colore era una specie di qualità morale, un colore al merito.
Quando calciatori troppo tatuati e troppo pettinati, abbastanza tronisti, oggi dichiarano alle telecamere che la maglia azzurra ha un fascino speciale, nella vieta formula da ciancia sportiva si sente balenare, ancora intatta, la qualità non contingente, non comparabile, di una maglia che ha vestito italiani baffuti e impomatati di un secolo fa, ventenni che nelle fotografie ci appaiono adulti già segnati dalla trincea di guerra e dalle rughe della povertà; poi i figli del dopoguerra, non molto difformi dal precedente tipo antropologico, ancora con i capelli cortissimi e le facce contadine e operaie; poi i capelloni degli anni Sessanta e Settanta, ragazzoni ricciuti con i denti finalmente in ordine, i volti lisciati e ringiovaniti dal benessere, e una patina di nuova libertà che fa assomigliare le foto di gruppo non più a un plotone disciplinato, ma a un'adunata di amiconi; infine i calciatori moderni, selezione di testimonial pubblicitari, di fidanzati di starlette, di figli unici con mamme ancora giovanili, bei figlioli più alti, più certi di sé, nipoti irriconoscibili di quei nonni soldati che facevano gol senza il bene di una telecamera, e avevano mogli massaie, fidanzate timorate, e a casa eserciti di fratelli e sorelle che dormivano nella stessa camera.
L'azzurro più che celeste è carsico (come l'inconscio), è un fluido che scorre senza trovare ostacoli sotto le ormai tante generazioni di corpi italiani che l'hanno indossato mutando di stazza, di complessione, di spirito, sostituendo una inedita vanità maschile alla schiva virilità degli antenati. È così antico, l'azzurro, che costringe a fare i conti con lui anche i più strutturati tra gli scettici. Tra i tipografi comunisti dell'Unità, negli anni Settanta, ad ogni Italia-Urss scoppiavano vigorose discussioni tra filosovietici (minoranza bolscevica) e filoazzurri (maggioranza menscevica).

I più spiritosi tra i bolscevichi facevano notare che il Cccp sulle maglie rosse dei sovietici (guai chiamarli banalmente russi) stava per "Col Cazzo Che Perdiamo". Alcuni, dilaniati dal dubbio come chi viva un derby tra i due emisferi del suo cerebro, promettevano tifo equanime per entrambe le Nazionali. Alla fine quasi tutti tifavano Italia, fedeli a una linea che prescindeva in toto dai dibattiti di sezione. La faticosa politica cedeva di schianto di fronte ai colpi subdoli, suadenti di quel mistero più materiale che culturale che sono le radici: ognuno di quei militanti aveva un padre che gli aveva mostrato un Piola, un Meazza, e poi tutti amavamo indiscriminatamente Gigi Riva, un italiano di tipo acheo (rarissimo) che per giunta fumava come un turco, era di sinistra e aveva mandato a quel paese gli Agnelli, rimanendo a Cagliari a guadagnare la metà e godere il doppio.
Sono troppi i legacci sentimentali con l'azzurro per avere la voglia e la forza di rinnegarlo. Memorabili sere si sono accumulate negli anni, le voci di Carosio, Martellini, Pizzul, la tivù in bianco e nero che impasta i palloni di cuoio (i primi palloni "optical", candidi a scacchi neri, furono, per i nervi ottici dell'umanità, un sollievo pari alla scoperta delle penicillina per i feriti di guerra), i titoli della Gazzetta, la prosa di Brera, i primi fotocolor sul Guerin Sportivo, ovviamente le figurine dei calciatori che sono state moneta corrente per milioni di infanzie.
Nemmeno adesso, che molte circostanze congiurano per rendere meno empatica l'avventura africana degli azzurri, è facile far finta di niente. Le circostanze sono note: l'esagerata e stucchevole invadenza mediatica del calcio; l'aura piuttosto narcisa di calciatori ricalcati sul maschio televisivo e pubblicitario, permaloso e fragile quanto più il talento è incerto; i festeggiamenti popolari (qualora ci fossero) che sono diventati via via più grevi e sguaiati, così come il tifo che ha conservato ben poco della sua intima smania, ed è diventato estroverso fino al trucido.

Al netto di tutto questo, hanno ragione i ragazzi in tuta e belletto che, guardando nella telecamera come sanno che si deve fare, dicono che l'azzurro è speciale. Nel traballante edificio (tutto culturale, tutto sovrastrutturale) che cerca di rappresentare la cosiddetta identità nazionale, l'azzurro della Nazionale è per ciascuno un pezzo di vita. Non di pensiero o di politica o di convincimento intellettuale: di vita. Per questo, in fin dei conti, ci sgomenta la ribalderia impostata di quei postitaliani (come il povero Trota, che più che altro pare un pre-italiano) che, a vario titolo e più spesso senza alcun titolo, vengono a dirci che loro non tifano azzurro: perché ci chiediamo dove diavolo abbiano vissuto, fin qui, guardando cosa, ascoltando cosa, patendo o godendo per cosa. Oppure: se siamo stati noi a vivere altrove.

di Michele Serra; la Repubblica

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