mercoledì 30 giugno 2010

O Fabuloso

Luis Fabiano fa il più bel mestiere del mondo: il centravanti del Brasile. Il centravanti del Brasile è quella cosa che ti arriva il pallone e tu fai gol. Il pallone ti arriva sempre perfetto, e tu sei altrettanto perfetto perché sei il centravanti del Brasile. Se invece fossi sbilenco, o svirgolato, o abulico, o sempre spalle alla porta, allora saresti il centravanti dell'Italia, o magari la riserva del centravanti dell'Italia.
Luis Fabiano, per chi se lo ricorda, assomiglia un po' a Careca: nel fisico, nei movimenti e anche un po' di faccia (solo un po'). Careca aveva Maradona come compagno, Luis Fabiano vuole battere Maradona in finale.
Contro il Cile, colui che fa il più bel mestiere del mondo ha segnato il gol numero 28 in 42 partite in nazionale, che è proprio un numero gigantesco, tipo i chilometri dalla terra alla luna e ritorno. (I giocatori del Brasile, però, sembrano sempre appartenere alla luna, senza ritorno. Altri pianeti, altri satelliti, altre galassie).
Il Milan cerca di comprare Luis Fabiano, che gioca nel Siviglia, da un bel po' di tempo e magari prima o poi ci riesce: non sarebbe una cattiva idea. Servono però un sacco di soldi e molta convinzione. Si tenga comunque presente che non stiamo parlando di un ragazzino ma un giocatore che a novembre, per la precisione il giorno 8, compirà trent'anni: gliene restano tre o quattro ad alto livello, poi può diventare Luca Toni o Gilardino da vecchio.
Nelle qualificazioni verso il Sudafrica, Luis Fabiano ha segnato 9 gol, più di tutti i suoi compagni e del resto quello è il suo mestiere. Se facesse un mestiere diverso, molto diverso, come abbiamo visto sarebbe il centravanti dell'Italia.

Quando il pallone arriva a Luis Fabiano, ci sono possibilità diverse per un unico epilogo, il gol. E cioè: stangata, colpo morbido, colpo di testa, zampata, inserimento improvviso, tiro in corsa, chiusura del geometrico triangolo, destro o sinistro a piacere. L'unica cosa che non può accadere è il gollonzo, perché Luis Fabiano è un campione e non segna mai per caso. Nei primi minuti della partita contro gli sventurati cileni, colui che fa il più bel mestiere del mondo aveva sbagliato qualche passaggio, e quelli del Cile pensavano: okay, Luis Fabiano stavolta non c'è. Dopo tre secondi Robinho passa a Kakà, Kakà passa a Luis Fabiano, Luis Fabiano la mette dentro. Se l'avesse messa fuori, secondo voi di quale squadra sarebbe il centravanti?

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

El Guaje

Se Messi vuole la corona che gli ha promesso Maradona dovrà toglierla dalla testa di David Villa, da ieri padrone del Mondiale. Quattro gol, uno più pesante dell’altro. Ha tirato fuori la Spagna da un girone dove stava per sprofondare dopo la batosta al debutto con la Svizzera, l’ha qualificata con la rete contro il Cile e ora la porta ai quarti. Non da solo, ma quasi. «Siamo tornati? Non ci siamo mai persi, la fiducia non è mai mancata». La Spagna del gruppo che trascina e disorienta non c’è più, non è la Roja che ha vinto gli Europei, veloce, compatta e imprevedibile, è la squadra di un bambino cresciuto. Il Guaje (bimbo in asturiano appunto) è pronto fare la differenza perché non solo segna, scardina. Ha fregato anche Eduardo, portiere del Portogallo che non aveva ancora preso un gol in questo torneo e che in totale ne ha incassati solo tre da quando Queiroz lo ha scelto come titolare. Villa ha iniziato a tirare al quinto minuto e non ha mai smesso, anche nell’azione del vantaggio ha insistito fino a che la palla non è entrata.

Era in fuorigioco ma stavolta non sarà la moviola a lasciare il segno, l’eroe è ancora lui, «Villamaravilla» anche se non gli piace essere chiamato così. È ossessivo, ostinato e rognosissimo perché non solo prova da ogni angolo ma non molla mai un’azione, crede ai miracoli e sente di essere arrivato qui al suo meglio. Ne era tanto certo che ha obbligato il Barcellona a fare in fretta, a chiudere il suo contratto prima di partire perché «non potevo stare in bilico e rischiare distrazioni». A 28 anni, ti capita l’ingaggio della vita (40 milioni più premi) nella squadra che hai sempre sognato («non esiste un altro posto dove sarei voluto andare») e l’uomo chiamato bambino è così maturo da dettare il tempo. Proprio come fa in campo. Quattro gol come i quattro che ha segnato all’Europeo vinto nel 2008 con il titolo di miglior realizzatore (giusto ieri, due anni fa). Allora era uno del gruppo.

Adesso è la faccia della Spagna. Testa piena di gel, passione per i giubbotti di pelle e per il pizzetto e una timidezza cacciata indietro a forza di risultati. Al Valencia dicono che parlava poco, che era uno noioso, abitudinario, IPod nelle orecchie e poca vita sociale. Qui però ci è arrivato diverso, spavaldo e dopo la sconfitta con la Svizzera ha avuto coraggio: «Garantisco, questa è la miglior Spagna di sempre». Era quello che serviva, uno scossone o un atto di fede. Poteva sembrare un pazzo, ma con questa fiducia ha svegliato l’ambiente. 42 reti in nazionale, gliene mancano solo due per raggiungere Raul. «Le voglio fare tutte qui», ha detto ieri sera dopo aver distribuito complimenti ai compagni rimasti sul campo a festeggiare. Per motivarsi ascolta la musica, «come Bolt ma non mi piace il rap, solo pop spagnolo anni e Ottanta e Novanta».

Perché l’attaccante del momento non è proprio un raffinato e in Spagna lo prendono un po’ in giro per lo stile da Dan Arrow. Nella moda è un reduce, gli piacciono gli stivaloni, le frange, i jeans strappati e non importa se la movida spagnola esporta modelli più raffinati. È fermo a un poster di 20 anni fa e se ne vanta. Quelli all’ultimo grido, alla Cristiano Ronaldo, tanto elegante da essere uomo immagine per Armani, non gli sono mai piaciuti. Ha preparato questa Coppa del Mondo con attenzione maniacale e il solo dettaglio che lo sorprende è di fare ombra a Messi, suo futuro compagno al Barça, predestinato, idolo e arrivato in Sudafrica per essere consacrato erede di Maradona. Al momento non ha mai segnato e contro il Messico si è perso dopo un tempo. Villa invece c’è sempre, Xavi dice che «ha il gol nella testa» e che «ricorda Stoichkov, uno che era sempre sicuro che esistesse una strada per fregare le difese».

Villa è diventato un leader senza bisogno di parole perché non è uno da grandi discorsi, non è il tipo da frasi decisive, convince perché è costante, presente. Del Bosque sostiene che «solo chi è cresciuto sempre, a ogni partita della sua vita, può mostrare tanta determinazione. Ci sono i talenti e poi ci sono quelli bravi che migliorano perché lo vogliono, come David».

di Giulia Zonca; LA STAMPA

lunedì 28 giugno 2010

Via!

Il processo all'Italia presa a schiaffi a Johannesburg ha preso una furbissima e ingannevole piega giustificazionista, scaricando così la maggior parte delle proprie colpe.
1) è colpa dei troppi stranieri che ci sono ormai in Italia;
2) è colpa dei vivai che i club non alimentano più;
3) è colpa dei tecnici che non lanciano nuovi giovani in squadra;
4) è colpa della cultura del risultato per cui si punta su giocatori sicuri e già affermati magari anche logori, piuttosto che puntare sulla crescita di nuovi talenti;
5) è colpa della crisi economica per cui il calcio italiano è oggettivamente mediocre e non più di alto livello;
6) è colpa dell'ostinazione a non voler portare in nazionale giocatori nati in altri paesi o nati da famiglie straniere e che sarebbero perfettamente "azzurrabili";
7) è colpa della bulimia dei campionati troppo grandi, con troppe squadre e che logorano i giocatori.
E così via. Tutto ciò è assolutamente vero e credibile, sicuramente tutti questi sono fardelli che pesano sulla nazionale, sicuramente bisogna fare il punto sul calcio italiano e ricominciare praticamente da capo. Sicuramente tutto questo è ciò che diciamo da almeno dieci anni... Quello che non posso fare a meno di constatare pertanto è questo: 4 anni fa la situazione non era poi molto diversa - anzi, veniva dallo scandalo di Calciopoli e quindi la destabilizzazione era ancora più forte - eppure l'Italia vinse il campionato del mondo. Per cui io penso che al momento tutti questi motivi, pur apprezzabilissimi, vengano usati come un comodissimo e allo stesso tempo furbissimo "scaricabarile". Si vuole cioè sostenere che la disfatta del calcio italiano non è colpa per la massima parte di chi quella spedizione ha organizzato e di chi vi ha partecipato, quanto del sistema sportivo e del calcio italiano in generale. Il sistema, il calcio: niente nomi e cognomi. No, troppo comodo così.
Io penso che una nazionale italiana ben organizzata, ben strutturata e ben guidata il mondiale non lo avrebbe rivinto certamente, ma comunque sarebbe arrivata molto più in là. Ai quarti insomma sarebbe dovuta arrivare, senza dover addurre attenuanti di alcun tipo. Al contrario posso scommettere che una nazionale nata in un campionato e in un calcio più o meno perfetto, senza tutti quei difetti di cui dicevamo sopra, se mal organizzata e mal condotta otterrebbe comunque un risultato pessimo se ripetesse gli stessi errori di Sudafrica 2010.
Insomma no allo "scaricabarile" e dimissioni (Giancarlo Abete & C.) per coloro cui questa disfatta va in conto. Chiaro no?

di Fabrizio Bocca; la Repubblica

sabato 26 giugno 2010

Rivoluzione

Abete ha pronto un piano per rilanciare il calcio italiano: si occuperà di ippica.

da "IL ROMPIPALLONE", di Gene Gnocchi; La Gazzetta dello Sport

venerdì 25 giugno 2010

Domani

È da mesi che in tutti i tinelli d’Italia stiamo scrivendo questo articolo. La vita non è quasi mai un romanzo, ma un concatenarsi di eventi prevedibili.

Persino in una scienza inesatta come il calcio. Se giochi contro squadre più scarse che ti costringono a fare gioco, tu che un gioco non lo hai mai avuto, perdi (parola di Gianni Brera, nei secoli dei secoli). Se hai vinto un campionato del mondo e ne affronti un altro con lo stesso gruppo, perdi (Pozzo rivinse perché cambiò 9 giocatori su 11 e dei due sopravvissuti uno si chiamava Peppin Meazza). Se lasci a casa i pochi artisti che ti passa il convento perché sono impegnativi da gestire e tu invece trovi più comodo far marciare in riga dei soldatini, perdi. Se mandi in campo uno stopper di trentasette anni che è stato una diga in gioventù, ma adesso verrebbe saltato in velocità anche da una lumaca obesa, perdi. Se là dove giocavano i Baggio e i Vieri - ma anche solo i Toni e i Totti di quattro anni fa - metti Iaquinta e Di Natale, con tutto il rispetto, perdi. Se chiami Pepe invece di Balotelli e poi ti arrabbi in mondovisione perché non riesce a saltare l’avversario, perdi e ti fai anche ridere dietro. Se nelle amichevoli prima dei Mondiali l’unico attaccante che ti fa gol è Quagliarella e tu non lo fai giocare. Se negli allenamenti l’unico attaccante che ti fa gol è Quagliarella e tu continui a non farlo giocare. Se metti in campo Quagliarella nel secondo tempo dell’ultima partita per disperazione e lui ti fa un gol, forse due, più un altro salvato sulla linea, perdi: ed è pure giusto. Perché il dovere di un condottiero durante una battaglia (scusate il linguaggio bellico, ma il calcio ha sostituito le guerre fra i popoli cosiddetti evoluti) è comprendere quale dei suoi uomini sia baciato in quel momento dalla grazia e lanciarlo nella mischia sovvertendo le gerarchie e le simpatie. Come Totò Schillaci a Italia 90, che pure finì male, ma non così male. Così male - ultimi in classifica nel girone eliminatorio - non era finita mai.

Lippi presuntuoso, Lippi confuso, Lippi logoro: il tiro al bersaglio è fitto ma durerà poco. Gli abitanti della città delle emozioni (noi) hanno l’indignazione facile, però a smaltimento rapido. Il fantasma della Corea inseguì il c.t. Mondino Fabbri fino alla tomba. Quello della Slovacchia svanirà dopo il primo gol della nuova Nazionale di Prandelli. Non portare Balotelli in Sudafrica è servito almeno ai giornali per poter titolare speranzosi nei prossimi giorni: l’Italia riparte da Balotelli. In realtà bisognerebbe ripartire dal rafforzamento dei settori giovanili e dalla ristrutturazione degli stadi, mostri polverosi e semivuoti, abbandonati dalla piccola borghesia che non se li può più permettere. Investire sugli uomini e sulle strutture. Sembra una delle tante prediche inutili intorno all’economia italiana. I problemi sono gli stessi e si riducono a uno: assenza di visione del futuro. In questa Italia alla deriva, dove nessuno ha tempo e voglia di programmare, si prediligono le soluzioni spicce. La Corea fu uno choc profondo in un Paese ancora parzialmente serio e portò all’autarchia calcistica, con l’esclusione di oriundi e stranieri dal campionato. La Slovacchia è uno choc evaporabile e in un mondo senza più frontiere condurrà semmai alla decisione opposta: far passare per italiano anche chi non lo è. Possibile che Messi e Milito non abbiano nemmeno una nonna di Castel Volturno?

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Responsabilità

Egregio Presidente della Figc Giancarlo Abete,

non torno sull'analisi della disfatta azzurra più grave della storia della nazionale. Se è assodato che quanto avvenuto in Sudafrica è peggio della Corea 1966 - il che è tutto dire - vorrei sapere semplicemente quali saranno le conseguenze di quanto avvenuto. Perché non mi è chiaro. Il commissario tecnico Marcello Lippi infatti non ha nemmeno bisogno di dimettersi perché tanto è arrivato al Mondiale alla scadenza del mandato, tanto che lei ha già messo ufficialmente sotto contratto il suo successore Cesare Prandelli addirittura prima della partenza per il Sudafrica. Buona parte dei giocatori che hanno contribuito a questa disfatta non devono nemmeno dire addio alla nazionale per sopraggiunti limiti di età. Insomma in un paese che si rispetti al termine di storie del genere c'è sempre qualcuno che deve rassegnare le dimissioni. E credo fortemente che questo sia sua preciso dovere, quale responsabile della più disastrosa spedizione azzurra della storia.

Ho saputo che lei stamani terrà una conferenza stampa prima di tornare in Italia, e non essendo in Sudafrica non ho possibilità di alzare il dito e di parlarle di persona. Cerco pertanto di spiegarmi via Repubblica.it.

A evitare una situazione tipo quella di ieri in cui il commissario tecnico Marcello Lippi ha cominciato dicendo "Mi assumo tutte le responsabilità", così da evitare le due o tremila domande che davvero, e non solo formalmente, lo inchiodassero alle sue responsabilità - ricordo sempre l'arrogante e maleducato "Io non debbo spiegazioni a nessuno" - vorrei almeno fare una mozione di servizio. Lei secondo me deve cominciare così: "Mi assumo tutte le responsabilità di Sudafrica 2010 (che da oggi, nell'immaginario collettivo a simulare il senso di una disfatta, prenderà il posto di Corea 1966 ndr) e pertanto ho deciso di rassegnare le dimissioni quale presidente della Federcalcio".

Dopo, stia tranquillo, parliamo di tutto il resto.

Cordiali saluti,

Fabrizio Bocca (la Repubblica)

giovedì 24 giugno 2010

Eutanasia (II)

Nicolas Mahut non ce l'ha fatta, cedendo alle lusinghe di John Isner, dopo circa 11 ore e 5 minuti complessivi di duro e onesto gioco, ha detto addio all'erba di Wimbledon. L'americano dunque si è aggiudicato l'incontro vincendo il quinto set col punteggio di 70-68 ai danni del disperato tennista francese. Che sollievo...

Perché

Trovare i colpevoli questa volta è facilissimo: tutti. Lippi e la sua presunzione, i giocatori che hanno dimostrato di non essere adeguati ad una manifestazione di questo livello e anche noi commentatori che ci eravamo illusi che questa Italia potesse valere le nazionali migliori.

Ci siamo fidati di Lippi e abbiamo sbagliato. Ci siamo fidati quando ha impostato la squadra su giocatori che avevano deluso in campionato, come quelli del blocco juventino: con Cannavaro, Chiellini e Marchisio i bianconeri sono arrivati settimi. Un fallimento che doveva far riflettere. Ma il ct ha insistito. E poi anche Gattuso e Iaquinta che quest'anno hanno giocato male e poco. Era evidente che non poteva funzionare: è stato detto, ma alla fine ci siamo fidati di Lippi. Pensavamo che potesse rigenerare questi giocatori, ci parlava della forza del gruppo e ci avevamo creduto. Io per primo che avevo pronosticato l'Italia in semifinale e che ora invece sono contento che sia uscita subito perchè questa squadra contro avversari più forti come Olanda o Argentina avrebbe subìto una dura e indimenticabile umiliazione.

E' proprio l'idea di gruppo che è mancata: in queste tre partirte abbiamo visto un' Italia terrorizzata con dei limiti psicologici incredibili. Non riuscivano a fare le cose più semplici, passaggi di un metro. Simbolica una immagine televisiva durante la partita con la Slovacchia. Quagliarella urla a Pepe: "Stai tranquillo, gioca come sai...". Evidentemente era chiaro anche in panchina che in campo c'erano giocatori bloccati, incapaci di giocare. Questo è stato il vero fallimento di Lippi: non essere riuscito a creare il gruppo, a dare un'identita forte a giocatori bravi ma non fenomeni. E la squadra lo ha avvertito, ha perso sicurezza partita dopo partita.
Lippi ha pagato anche la sua presunzione, il voler insistere su scelte e moduli evidentemente sbagliati. E nello sport non c'è cosa peggiore di essere presuntuosi quando non puoi permetterlo. Lippi come Domenech, stessa presunzione, stessa brutta storica figuraccia.

da "VISTI DALL'ALA", di Massimo Mauro; la Repubblica

Fine della corsa

Tanti altri come te, Marcello, è bene che scendano dalla giostra,
altrimenti si faranno ancora più male cadendo...
In bocca al lupo a chi, come Prandelli,
dovrà salirci.

Lippiana miopia

10 perché

1) Richiamare Lippi è stato un errore: non aveva alcuna intenzione, dopo 2 anni di inattività, di lavorare alla costruzione di una Nazionale nuova, quanto semplicemente di conservare e allungare la vita a quella che aveva vinto il campionato del mondo con lui.

2) La gestione della Nazionale da parte di Lippi con un piglio spesso arrogante - il famoso "non debbo spiegazioni a nessuno" - ha colto di sorpresa la stessa Federcalcio che si è ritrovata nella sostanza esautorata dallo stesso ct che negli ultimi 2 anni si è isolato, diventando una specie di uomo forte senza controllo. Le indiscrezioni e le voci sulla Juventus, la testimonianza imbarazzante e più clamorosa.

3) Siamo arrivati in Sudafrica con un ct a scadenza, e un nuovo ct, Cesare Prandelli, già incaricato. Un'altra situazione di incertezza e di debolezza da parte di Lippi nei confronti della squadra.

4) L'errore grave è stato puntare su due "blocchi" assolutamente sbagliati: quello dei campioni del mondo, invecchiato di 4 anni, e quello della Juventus, crollato miseramente in campionato. Nel momento in cui ha dovuto rimettere mano alla rosa Lippi ha sbagliato tutto e ha lasciato fuori i pochi giocatori di qualità disponibili. Pur avendo portato solo nove giocatori del mondiale 2006, in realtà l'ossatura titolare è rimasta quella.

5) Pur con l'attenuante di un materiale umano non eccelso, Lippi ha sbagliato tre formazioni su tre. Per l'esordio ha scelto un modulo mai praticato (4-2-3-1) e ha insistito su Marchisio trequartista, non accorgendosi non solo che Marchisio non era in grado di fare il trequartista ma non era proprio in grado di fare il titolare. Per tre volte nel secondo tempo ha stravolto la formazione cercando gol alla disperata senza riuscirvi.

6) Già lo scorso anno la Confederation Cup era stata un disastro, avevamo tutti i segnali di questo fallimento, Lippi aveva anche detto alla fine che la lezione sarebbe stata salutare e che avrebbe provveduto a innovare la squadra. Nella sostanza il cammino poi è ripreso con il solito tran tran. Il concetto dell'Italia campione del mondo è stato uno specchietto per le allodole: la stessa Italia andò male agli Europei (e comunque Donadoni fece meglio del Lippi bis) e un anno fa sbagliò tutto in Sudafrica. Le avvisaglie del disastro insomma c'erano state e sono state trascurate.

7) Dare tanta importanza al gruppo è stato un altro errore, il ct ha dato la sensazione di non guidarlo e di non averlo sotto controllo. Non è stato certo uno spogliatoio diviso, spaccato e ribelle come quello francese, anzi tutto il contrario: abulico, spento e senza personalità.

8) Lasciare fuori non solo Cassano e Balotelli, ma anche Miccoli (mai preso in considerazione), Perrotta, Ambrosini e forse anche Totti non è stato un errore. E' stata una scelta deliberata fatta per non disturbare il gruppo, e per questo ancora più grave di un semplice errore tecnico.

9) La storia non ci ha insegnato nulla. Dopo Spagna '82 Bearzot naufragò con i vecchi mundiales a Mexico '86. Abbiamo rifatto lo stesso percorso. Anzi abbiamo fatto peggio: almeno lì il primo turno lo passammo. Peggio pure della Corea del '66.

10) Nel girone più facile dei mondiali sudafricani abbiamo ottenuto due pareggi con Paraguay e Nuova Zelanda e perso con la Slovacchia. Chiudiamo dunque ultimi in classifica. Non è un fallimento, è uno sprofondo azzurro imputabile a tanti. In questi casi non deve pagare una sola persona, il ct nella fattispecie, devono dimettersi tutti. Una delle più brutte nazionali di sempre. Anzi la più brutta.

di Fabrizio Bocca; la Repubblica

A casa

Giusto così: e che nessuno parli della palla dentro, del gol annullato.
"Prenderne tre dalla Slovacchia. Ma quale scuola italiana, non sappiamo piu' difendere. Ai Mondiali abbiamo sempre vinto così, con Gentile, con Buffon".

Non basta il tifo, non bastano le macumbe: se sei scarso come nel primo tempo, è finita.
"E invece la parabola del tramonto è quel terzo gol preso su fallo laterale. Kopunek ne aveva quattro intorno, ha lasciato dietro De Rossi che doveva marcarlo. Una scena del genere non l'ho mai vista nemmeno in Promozione, con rispetto parlando".

Consoliamoci con Quagliarella.
"Premesso che col senno di poi è piu' facile parlare, pero' dico: ma un Quagliarella così in forma, Lippi non l'aveva notato in allenamento?".

E dire che si è fatto costruire una barriera, per tenere lontani gli intrusi e le spie degli avversari, magari travestite da tifosi con vuvuzela.
"Beh, io e te certamente ne sappiamo meno di Lippi. E quindi fra i suoi errori metto anche la sua incapacità di sfruttare lo stato di forma di Quagliarella".

Quante volte ha cambiato modulo, in tre partite? Cinque, sei?
"Il problema è che lo ha sempre fatto dopo il gol. Ma mi spieghi anche l'impiego di Gattuso?

Gli serviva il guerriero, e lo ha tolto dopo il primo tempo. Era meglio sostituire De Rossi.
"Non capisco nemmeno questo, so solo che noi non avevamo idee, e loro poche ma chiarissime".

Peggio della Corea, peggio del '74.
"Sicuramente, se consideri il girone. Nel '74 eravamo con Polonia e Argentina, c'era solo Haiti come squadra materasso, E in Sudafrica con le squadre materasso abbiamo perso e pareggiato".

Incapacità di intervenire sugli errori. meglio col Paraguay, poi la discesa. Da chi ricominciare?
"Per Prandelli vedo molte difficoltà: tengo Marchetti, Chiellini, De Rossi, Quagliarella. Diciamo che dobbiamo avviare quell'opera di svecchiamento della Nazionale che abbiamo purtroppo rinviato".

L'unica consolazione: c'è giustizia.
"E' vero: non ho visto porcate, nè arbitraggi ballerini. E si sa che al Mondiale gli arbitri sono tesi e fiscali".

Non ci sono furti.
"E non ci sono combine, almeno fino a oggi, e dubito che possa accadere negli ottavi. E' perfino uscito il Sudafrica, che non ha beneficiato di arbitraggi compiacenti, nè di aiutini".

Anche gli States meritavano di passare.
"Sì, potevano farne dieci, un gol buono è stato annullato. Converrai che l'avevo previsto".

Sono i primi frutti del soccer nelle scuole, della diffusione del calcio a livello giovanile.
"E loro possono contare su un bacino piu' ampio: abituiamoci a considerarli protagonisti della scena mondiale. Donovan naturalmente, ma anche il loro centravantone Altidore, un Amauri piu' giovane".

Vuoi vedere che Usa-Ghana è piu' bella di Germania-Inghilterra?
"Fra l'altro si sono già incontrare nel 2006, hanno vinto gli africani 2-1"

E' giusto che l'Inghilterra sia seconda, e si giochi subito tutto con la Germania.
"Per tutto quello che ha fatto vedere: Capello, peraltro molto simile a Lippi e con un ricco palmarès anche lui, ha messo in campo una squadra irriconoscibile, a cui manca ancora il miglior Rooney".

Ma gli altri stanno crescendo.
"Sì, a differenza dell'Italia che è crollata: il centrocampo inglese è piu' solido, va migliorando".

Mosci e mogi, diamo il premio Waka Waka di oggi.
"A tutti quelli che ci hanno creduto, contro ogni evidenza e hanno sofferto fino alla fine".

Da domani scegliamo un'altra squadra da tifare. O forse da dopodomani, perché di Italia si parlerà ancora tanto.

da "PUNTO E SVIRGOLA", di Gianni Mura e Giuseppe Smorto; la Repubblica

Storica pazzia

Non sono bastate dieci ore perché terminasse il più lungo match della storia del tennis tra l'americano John Isner e il francese Nicolas Mahut.

Alle dieci e dodici della sera, l'arbitro Layani e il direttore di torneo Friemel sono stati costretti ad interrompere per l'oscurità una partita in cui i due attori, estenuati, non erano riusciti a svincolarsi da una incredibile parità di 59 games nel quinto set, nonostante quattro match point in favore dell'americano. I due riprenderanno, in caso di sopravvivenza, domani, sul punteggio di 4-6, 6-3, 7-6, 6-7 e 59 pari, un totale di 163 games.

Simile vicenda ha battuto un precedente primato wimbledoniano del 1969, quando il grande Pancho Gonzales aveva sconfitto il giovane Charlie Pasarell, americano nato in Portorico, in una partitona di due giorni, di 112 games, durata cinque ore e dodici minuti, terminata 22-24, 1-6, 16-14, 6-3, 11-9: salvando, di passaggio, sette match point, dei quali due da 0-40. Mentre, nel resto del mondo, eravamo tutti stregati dalle sei ore e trentatrè, e dal 6-4, 6-3, 6-7, 3-6, 6-4 (solo 51 games) durante il quale il vincitore francese, Santoro, aveva trattenuto su un campo del Roland Garros il suo concittadino Clement.

Per quanto mi riguarda, non avevo creduto sino ad oggi alla affermazione di Andy Warhol , il quale nel 1968 - guarda caso, il primo anno del professionismo tennistico - affermò che ad ogni essere umano sarebbe toccato un quarto d'ora di notorietà. E' infatti avvenuto che, insieme a un dirupato cronista britannico e al mio collega Hall of Famer Bud Collins, io fossi il solo sopravvissuto ad aver assistito a quella storica partita. La coincidenza ha fatto sì che, privo del mio articolo di allora, fossi costretto a ricordare pubblicamente un match che avevo quasi del tutto dimenticato. Eccettuata forse la sua mediocre qualità, l'incapacità di Pasarell di fronte alla personalità di Gonzales, uno che ebbe a definirsi "il più forte tennista di tutti i tempi, se non fosse esistito un Lewis Hoad in gran giornata". Bontà sua.

L'incontro odierno è stato, tecnicamente, ancora più modesto, tra un americano che già tendeva al record causa la statura, due metri e sei centimetri, la più alta nella storia del gioco. A nome John Isner, sfuggito al basket ma non a una laurea in economia nell'università della Georgia. Evidentemente noto per la sua battuta, Isner, n. 19 del mondo, contava certamente di venire a capo con minor fatica del francese Nicolas Mahut, un ex ragazzo prodigio, vincitore di Wimbledon Junior dieci anni fa, e poi smarritosi, sino a scivolare all'attuale n. 148, ed essere costretto a qualificarsi. Ma il talento sciupato doveva aver lasciato qualche briciola nel francese, meno imponente di Isner col suo metro e novanta, e tuttavia in grado di tenere botta, e addirittura rifiutarsi, alla fine, di lasciare il campo.

Paradossalmente un risultato come quello odierno è giunto quarantacinque anni dopo la nascita del tie-break, il sistema inventato dal mio povero amico Jimmy Van Alen onde abbreviare partite interminabili, soprattutto sull'erba, la superficie sulla quale, in quei tempi, si giocavano tutti gli Slam eccettuato il Roland Garros. Il VASSS, e cioè Val Alen Simplified Scoring System, fu adottato nel '65 per il torneo di Newport, e poi applicato nello US Open, anche per il quinto set. Gli altri Slam, e cioè Australia, Francia e Wimbledon, continuarono invece ad evitarne l'attuazione nel set finale, favorendo quindi un risultato apocalittico come quello odierno.

Un risultato che resterà negli annali, così come quello tra Gonzales e Pasarell, nonostante la mediocrità della partita. Ma spesso la storia è noiosa.
 
di Gianni Clerici; la Repubblica

Eutanasia

Il tennista francese Nicolas Mahut, numero 148 del mondo, e lo statunitense John Isner, numero 19, non vogliono farla finita: 4-6, 6-3, 7-6, 6-7, e 59-59 al quinto set, dopo poco più di 10 ore di gioco, l'incontro è stato sospeso per oscurità ieri sera.
Oggi chi la spunterà?

Cardiopalma

Ecco la rete di Landon Donovan contro l'Algeria al 91° minuto
 che regala una strameritata qualificazione agli USA
ai danni della Slovenia.
Gli Americani così si ritrovano, da eliminati, primi del girone,
e affronteranno agli ottavi il Ghana.

martedì 22 giugno 2010

Dignità

Domenech ha concluso degnamente il suo ottimo Mondiale rifiutandosi di stringere la mano al tecnico del Sud Africa Parreira dopo il fischio finale dell'incontro perso dalla Francia 2 a 1.
Raymond, non ti è rimasto proprio nulla.
 

Gossip... di qualità

Reminiscenze

Gianni, cambia il vento, cambiano gli umori. Sarà dura arrivare fino a giovedì.
"Ci restano le macumbe".

In effetti, le analogie con l'82 si fermano ai cattivi risultati.
"Allora c'erano Gentile, Cabrini, Tardelli, Bruno Conti. Poi esplose Paolo Rossi. Ma non dimenticare che al ritorno a casa, a Coppa calda, Pablito disse: "Io sono quello che la merita di meno".

Non vedo nemmeno tutti questi toni feroci: rassegnazione.
"In verità, questa è la fine della squadra che vinse nel 2006. Ma visto il precedente di Bearzot, c'è un filo di paura a dire che sono tutti cialtroni, non si sa mai".

Il Corriere dello Sport ha pubblicato lo stesso titolo di Italia-Perù, di 28 anni fa. E ha spiegato: magari serve anche questo.
"E noi rispondiamo con il pezzo di Brera. (Leggetelo in pdf). Ma trattasi, come avrebbe scritto lui, di masturbatio grillorum".

Sparare a Cannavaro mi sembra ingeneroso. Vista la sua reazione puntuta - si processa la squadra, non il singolo - mi viene da dire: mai uno che dicesse 'ho sbagliato'.
"Mi meraviglia che uno come lui non ci arrivi, quattro anni sono tanti. Ed è stato tutto già scritto. Affidarsi alla difesa della settima in classifica è stato un errore, Lippi lo ammetta. E lui - come ti ho già detto - dovrebbe chiedersi: come mai la squadra non mi segue? Ha detto che dovevano giocare basso, hanno fatto decine di cross".

E poco pressing.
"Come se avessero smarrito l'Abc: se hai di fronte un avversario che non sa fare tre passaggi consecutivi, devi indurlo all'errore, no?".

Lippi le ha provate tutte, fino a tre punte piu' due mezze, che fanno quattro attaccanti.
"Non si puo' arrivare alla prima partita facendo esperimenti. Il povero Marchisio si becca un 4 che dovrebbe andare al ct".

Sottraiamoci anche al coro "doveva portare Cassano".
"L'abbiamo detto il primo giorno e lo ripetiamo oggi: forse serviva Totti, che poteva partire dalla panchina e dare una mezz'ora da campione. Per il resto, gli uomini sono questi. Ritengo sorprendente il comportamento di Montolivo, bravo Zambrotta".

Manca un leader.
"Cannavaro mi sembra piu' attento ai suoi problemi. De Rossi è a intermittenza, l'ho visto poco dentro la partita".

Consigli per la Slovacchia.
"Dentro cagnacci come Gattuso e Palombo. Confermiamo Iaquinta. Teniamoci Pirlo per l'Olanda: un errore impiegarlo giovedì: non è al meglio. Sarebbe un bersaglio facile. Mi consolo pensando che anche la Slovacchia è scarsa, il Paraguay l'ha presa a pallate, poteva farne cinque. Ma se l'Italia non vince è giusto che vada a casa. vedo un lavoro duro per Prandelli".

C'è chi sta peggio di noi, consolati.
"La Francia deraglia. Indifendibili anche i giocatori. Caro capitano Evra, se non vuoi allenarti, se non rispetti la scelta dell'allenatore, per solidarietà con lo spogliatoio, torna a Parigi, magari con sei mesi di squalifica".

Premio Waka Waka dalle parti del Brasile
"Quello al contrario andrebbe a Kakà: è comunque stupido arrivare a una seconda ammonizione, per quanto causata da un simulatore. Lo merita tutto Elano, il meno brasiliano dei suoi: gioca in Turchia, essenziale, ha già fatto due gol. Lo consiglio ai nostri club".

E si è anche preso una scarpata assassina.
"Quelli della Costa d'Avorio picchiano come fabbri".

Il Mondiale del rimescolamento e della scarsa qualità.
"L'unico modo per goderci questi giorni,vedere che fine fanno Spagna e Inghilterra e Francia. Loro brutti, sporchi, cattivi e insubordinati. Noi bravi, disciplinati e ligi".

Riusciranno i nostri eroi etc. etc.?
"Se cambiano faccia, sì".

da "PUNTO E SVIRGOLA", di Gianni Mura e Giuseppe Smorto; la Repubblica

lunedì 21 giugno 2010

Buonanotte

E’successo davvero qualcosa di incredibile. Non c’è livellamento globale che possa prevedere il risultato di Italia-Nuova Zelanda. Perfino le incertezze di un Mondiale diverso hanno sempre mantenuto una piccola logica. L’Inghilterra ha pareggiato con l’Algeria che resta comunque la seconda squadra africana. La Nuova Zelanda no, non ha passato e non ha presente.

La Nuova Zelanda è nettamente l’ultima squadra del torneo. È arrivata al Mondiale vincendo uno spareggio con il Barhein. Su 23 giocatori tre giocano con dignità in Inghilterra, uno in Danimarca. Gli altri sono tutti dilettanti locali. Sono grandi, grossi e primitivi, picchiano e giocano il calcio semplice dei buoni oratori. Ripeto, è un risultato incredibile. E il bello è che è stato anche evidente. Non c’è stata la scoperta di un avversario segreto. La Nuova Zelanda è rimasta quella che sapevamo, una specie di Heidi del calcio, genuina e remota. Siamo noi che siamo caduti precipitosamente all’indietro. Il dato più inquietante è la confusione di Lippi. Ha cambiato tre moduli di gioco in quattro mezze partite. Sempre credendo fosse arrivata la soluzione giusta. Con la Nuova Zelanda ha cominciato con quattro centrocampisti puri, due dei quali sulle fasce.

Perché tanta copertura di campo in una partita da vincere bene e in fretta? Non è corretto chiedere a Pepe di puntare l’uomo, perché quello è un gioco che Pepe non sa fare. E a che serve Marchisio in una partita in cui bisogna puntare l’uomo e saltarlo? Il problema dell’Italia è in questa distanza tra i propositi di Lippi e le possibilità della squadra. Temo che Lippi cambi continuamente l’Italia perché ha capito che la squadra non può dargli quello che cerca. Ho paura sia eternamente dentro un viaggio casuale e stia cercando di volta in volta un jolly che salvi partita e spedizione. Forse ha preteso troppo dalle sue scelte. Ha negato ci fosse qualità nel campionato italiano fuori da quella che gli serviva. Ha puntato sulla pigrizia dei nostri grandi giocatori, sulla loro indisciplina, sulla loro vecchiaia. Ma oggi che la strada diventa salita è ingiusto dire che nessuno tra quelli rimasti a casa non avrebbe saputo fare meglio. In Italia sono rimasti Totti, Balotelli, Cassano e perfino Del Piero.

Può davvero dire Lippi che Camoranesi, fermo da un anno, è capace di fare meglio nel ruolo di questi giocatori? Nessuno ha veramente voglia di rimproverare niente a un grande tecnico, ma nessuno ha nemmeno voglia di ridiscutere l’evidenza. Lippi ha fatto le proprie scelte, non può pretendere siano le scelte di tutti. L’Italia non segna mai, è raramente pericolosa. Tutti gli attaccanti sono di volta in volta deludenti. Lippi dice che manca lucidità, ma cos’è la lucidità se non quel tasso di bravura, di personalità che porta oltre il problema? Torna d’attualità il giudizio del primo giorno: è un’Italia che può battere tutti ma può perdere al Mondiale contro una decina di avversari. Siamo sempre prevedibili. Lippi non ha più carte, ha giocato tutti gli uomini in appena due partite. Questo è il problema. Si aspettava molto di più e ha sbagliato. Ha scelto la semplicità, ma il gruppo non diventa gruppo solo perché tutti dicono le stesse cose e hanno le stesse abitudini. Anche le differenze fanno la forza. Questo è un gruppo che vota il grigio, considera un successo stare insieme. Manca dialettica. Lotta ma non riesce ad avere qualità. Allora resta solo un grido: buona fortuna.

di Mario Sconcerti; CORRIERE DELLA SERA

Zerbinocrazia

Fra coloro che ieri davanti alla tv imputavano a Marcello Lippi di aver assemblato la sua mestissima Nazionale privilegiando i sudditi ai condottieri c’erano molti italiani che nella vita di tutti i giorni purtroppo si comportano allo stesso modo.

Dirigenti d’azienda, titolari di negozi e responsabili di «risorse umane» che sul lavoro privilegiano la fedeltà al talento, l’affidabilità all’estro e il passo del pedone alla mossa del cavallo. Intervistati, risponderebbero anche loro come Lippi: «Non abbiamo lasciato a casa nessun fenomeno». Ma è una bugia autoassolutoria che accomuna quasi tutti coloro che in Italia gestiscono uno spicchio di potere e lo usano per segare qualsiasi albero possa fargli ombra: è così rassicurante passeggiare splendidi e solitari in mezzo ai cespugli, lodandone l’ordine perfetto e la silente graziosità.

L’abbattimento di ogni personalità dissonante viene chiamato «spirito di squadra». Ma è zerbinocrazia. Tutti proni al servizio del capo, è così che si vince. Eppure la storia insegna che il capo viene tradito dai mediocri, mai dai talenti. I quali sono più difficili da gestire, ma se motivati nel modo giusto, metteranno a disposizione del leader la propria energia. La Nazionale di Lippi assomiglia alla Nazione non perché è vecchia, ma perché privilegia, appunto, i mediocri. Averli avuti ieri in panchina, certi vecchi! Contro i goffi neozelandesi sarebbe servito più un quarto d’ora di Totti o di Del Piero che una vita intera di Iaquinta, Pepe e Di Natale, tre bravi figli che, con tutto il rispetto, se hanno giocato anni e anni nell’Udinese, una ragione ci dovrà pur essere. I pochi campioni veri, da Buffon a Pirlo, sono zoppi. Oppure vecchie glorie che si rifiutano di andare in pensione, come l’imbarazzante Cannavaro che ha più o meno l’età di Altafini e forse avrebbe fatto meglio a presentarsi in Sudafrica anche lui nelle vesti di commentatore.

C’è, naturalmente, anche la questione dei giovani. La follia antistorica di questa Nazionale e di questa Nazione non consiste tanto nel continuare a lasciar fuori i Cassano, ma i Balotelli. Non i talenti troppo a lungo incompresi o compresi solo a metà, ma quelli ancora acerbi che chiedono solo un’occasione per sfondare e, non ricevendola, spesso emigrano in cerca di fortuna. Balotelli è il loro simbolo e non solo per via del colore della pelle, che ne fa l’italiano di domani. Lo è perché a vent’anni ha già vinto Champions e scudetti, e ha un fisico e un talento che ne fanno un predestinato, imparagonabile agli smunti replicanti dell’attacco azzurro. Eppure per lui non si è trovato un posto neppure nel retrobottega. Mi rifiuto di credere che un capufficio dell’esperienza di Lippi non sappia riconoscere la differenza fra un fuoriclasse potenziale come Balotelli e i bravi mestieranti che si è portato appresso. Ma il successo rende sordi al buonsenso. Ci si illude di poter vincere meglio da soli, muovendo pedine inerti sulla scacchiera. Poi quelle pedine si rivelano di burro e alla fine ci si ritrova soli, con un po’ di unto fra le dita.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

ITALIA-Nuova Zelanda 1-1

Che pena...

sabato 19 giugno 2010

Rivalité

I francesi sono italiani di cattivo umore»: lo diceva Jean Cocteau, poeta, romanziere e drammaturgo (francese). La traccia porta al sommo godimento che gli italiani provano quando «lormessieurs» ci lasciano le penne. Come giovedì sera, in un posto sperduto del Sudafrica. Loro e noi, un derby infinito, che Paolo Conte ha cantato in onore di Bartali, una rivalità che esula dal mero commercio sportivo e abbraccia cinema, letteratura, cibo.

A noi il Mondiale 2006 sul campo, a loro l’Europeo 2016 a tavolino. Proprio per questo non dovremmo essere tanto ossessivi e ossessionati dal fatto che abbiano inventato tutto, dall’Olimpiade in giù. Noi abbiamo bisogno fisico e storico di un nemico già nella culla, figuriamoci appena mettiamo il naso fuori. La Francia è un regalo della geografia, così vicina e comoda, così gonfia di sé, al contrario di noi, attendisti e versatili (nelle guerre, anche troppo). Questione d’accento, che noi abbiamo e loro mettono. Fra Carla e Carlà non c’è di mezzo solo l’Eliseo, c’è Ventimiglia. Hanno fatto la rivoluzione e poi hanno avuto Napoleone; ce lo fanno pesare, sempre. Ecco allora che l’italiano, appena può, passa alla cassa. Di sicuro, la superbia di Raymond Domenech ha contribuito a tenerci svegli e vigili attorno al loro tempio, pronti a celebrare i mercanti capaci di profanarlo (sono stati i messicani? per dirla con Henry, qua la mano). «Les imposteurs», titolava L’Equipe. Gli impostori. E mica si riferiva a noi. Il massimo.

di Roberto Beccantini; LA STAMPA

venerdì 18 giugno 2010

Argentina-Corea del Sud 4-1

Così in allenamento:
Così in partita:
...Funziona!!!

Finalmente...

Adieu, monsieur Raymond, quasi mandato a casa da un rigore. Non li hai mai digeriti. Proprio come noi italiani con te.
Adieu al tuo cappottino felpato: cos'era, velluto? O pelo di stomaco?
Adieu a quella faccia da schiaffi che non hai mai preso veramente, se no non l'avresti, non così.
Adieu alle tue conferenze stampa che erano distillato di bile in botti di rovere.
Adieu dai giocatori che non hai mai chiamato o non hai chiamato più (Zebina: "Con Domenech il calcio francese ha buttato due anni nel cestino". Proprio quello che pensano i tifosi juventini di Zebina).
Adieu a uno schema che non ha prodotto lo straccio di un gol in tre ore di gioco (beh, insomma, gioco è una parola enorme).
Adieu a quelle cose bizzarre che t'inventavi, tipo l'annuncio di matrimonio durante le interviste di Germania 2006.
Adieu ai sogni di gloria: eppure, credici, ora saresti campione del mondo se Materazzi non fosse mai nato e se non avesse parlato a Zidane della di lui mamma, facendo diventare così triste la tua.
Adieu, già che ci siamo, anche all'ultima notizia fresca fresca che riguarda proprio la tua mamma: ci dicono che tu e lei aveste inventato un linguaggio di segni segreto, per comunicare quando ti inquadravano in panchina. Ma noi, questa cosa qui non la crediamo vera. Perché pensiamo che la tua mamma sia andata al cinema, piuttosto. Secondo noi, Raymond, tu stai sulle balle persino a lei.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

Francia-Messico 0-2

giovedì 17 giugno 2010

Ultimi arrivi

Il fantasista Coutinho, brasiliano classe 1992, era un affare chiuso già da tempo, ma bisogna vedere se verrà inserito da subito in prima squadra; il laterale destro uruguagio (ma nato in Brasile) Aguirregaray è dato per fatto dal suo stesso procuratore, e nello stesso ruolo abbiamo preso anche il giovanissimo spagnolo Jaime Serrano; con il Parma si è trattato il riscatto di Mariga e Biabiany per una cifra attorno ai 10 milioni; mentre era noto da tempo l'ingaggio del portiere Luca Castellazzi. In uscita è molto probabile la cessione di Quaresma al Besiktas, invece sono da chiarire il futuro di Muntari e, soprattutto, di Maicon.

Buona fortuna a tutti!!!

1970

Diciassette giugno 1970. Italia-Germania quattro a tre. La madre di tutte le partite. Mondiali messicani, semifinale. Da Boninsegna a Schnellinger, poi i supplementari, una mitragliata di gol - Muller, Burgnich, Riva, ancora Muller - fino al piatto destro di Gianni Rivera. Sono passati quarant’anni e ce la portiamo nel cuore, sempre. Tutta una parola: italiagermaniaquattroatre. È diventata un film, una mostra, romanzi, piéce teatrali, dibatti, seminari, tavole rotonde; ha accompagnato la riscossa del Paese non solo in campo sportivo. Vero, nel ’68 ci eravamo laureati campioni d’Europa, ma in casa, con l’aiuto di una moneta (per battere l’Unione Sovietica) e dopo aver ripetuto la finale (con la Jugoslavia). Due anni prima, c’era stata la «tragedia» di Middlesbrough, ai Mondiali inglesi, Corea del Nord uno Italia zero.

Gli stranieri, e non solo i tedeschi, capirono di che pasta eravamo fatti. Fu una sorta di partita simbolo, a cominciare dalla staffetta fra Mazzola e Rivera, il compromesso pratico in leggero anticipo su quello, storico, di Enrico Berlinguer. Commissario tecnico, Ferruccio Valcareggi. Tutore, Walter Mandelli. Quante polemiche, già allora, e quanti veleni. L’avremmo poi pagata in finale, contro il Brasile, e il ritorno a casa, per questo, fu una caccia agli spacciatori della grande illusione. Siamo fatti così. Il tempo, galantuomo, avrebbe ristabilito le giuste proporzioni e i legittimi meriti.

Resta il ricordo dell’impresa, resiste e persiste il profumo della volta che fu soprattutto una svolta. Neppure il 3-1 del Bernabeu, che pure l’11 luglio del 1982 ci avrebbe dato il titolo mondiale, sempre contro i tedeschi, ha cancellato, o semplicemente attenuato, il valore di quella straordinaria altalena, la scenografia di quel prestigioso scalpo. Gli italianuzzi capaci di battere l’opulenta Germania con le armi della fedeltà e della resistenza: in pratica, le sue.

Allo stadio Azteca c’è una targa che aiuta ad allenare la memoria. Per molti, fu la partita del secolo. Italia-Germania 4-3. Ancora oggi, mi vengono i brividi.

di Roberto Beccantini; LA STAMPA

mercoledì 16 giugno 2010

Spagna-Svizzera 0-1

Questa è cattiva

Oltre 21 milioni di italiani davanti alla tv per gli azzurri. Si conferma vincente per l'audience la formula X Factor, dilettanti allo sbaraglio. Mandate i vostri provini a Lippi e potreste giocare un Mondiale anche voi, come Pepe, Criscito, Marchetti, Marchisio...

da "IL GRAFFIO", di Emilio Marrese; la Repubblica

Golazo

Altroché Padania

Jong Tae-Se, attaccante della Corea del Nord,
durante l'esecuzione dell'inno nazionale prima del
match contro il Brasile.
Classe 1984, è nato in Giappone.
Grazie!!!

Equilibrio

Beati loro!

Vuvuzela? No, grazie. Un altro mondo è ancora possibile. Allo stadio, in Sudafrica. E senza trombette. A patto però di cambiare sport e di passare alla palla ovale, che le ha ufficialmente bandite l'altra settimana a Città del Capo in occasione del test-match tra i padroni di casa e la Francia. Allo stadio di Newlands gli addetti alla sicurezza hanno confiscato all'ingresso centinaia di lunghi corni in plastica: "Stravaganze da calcio", spiegavano inorriditi gli organizzatori dell'incontro. Non è solo per via di quel suono fastidioso che imbroglia giocatori e fa impazzire anche chi guarda la partita in tivù. E' una questione più sottile. Perché il soccer, il calcio, è soprattutto lo sport dei neri.

Come le vuvuzuela. Mentre il rugby in Sudafrica resta lo sport dei bianchi, nonostante gli sforzi della federazione per mescolare i colori. E senza vuvuzuela, almeno per ora. Non a caso le prime trombette hanno fatto la loro comparsa nella finale ovale di Super 14 tra Bulls e Stormers, disputatasi nello stadio del quartiere (nero) di Soweto. Apriti cielo: dopo incandescenti polemiche, è arrivato il diktat di Città del Capo. Accadrà lo stesso sabato pomeriggio, quando il Sudafrica affronterà l'Italia di Sergio Parisse: a Witbank, città mineraria e roccaforte boera.

Il livello di intensità del suono di una vuvuzuela può arrivare fino a 127 decibel, solo 3 in meno del motore di un aeroplano. Blatter però ha ribadito che non saranno proibite durante il Mondiale. I tecnici della Bbc stanno cercando di ridurre in qualche modo il fastidio agli spettatori, un informatico tedesco ha elaborato un software che ne intercetta e cancella le frequenze. Ma come liberarsi per sempre delle trombette? Nick Mallett, allenatore (sudafricano e bianco) dell'Italia ovale, un'idea ce l'ha: "Cambiate sport. Rugby è bello". E silenzioso.

di Massimo Calandri; la Repubblica

martedì 15 giugno 2010

ITALIA-Paraguay 1-1

Prepartita. L'inviato a Cape Town che mi spaccia notizie attendibili informa che:
a) lo stadio è bellissimo, irraggiungibile da tutti i San Siro, San Paolo e Olimpici italiani vari;
b) nei cessi sono presenti confezioni gratuite da 6 (sei) preservativi cadauna, in caso qualcuno volesse alleviare i problemi di gioco stagnante con scene che non vorremmo mai vedere (Pizzul dixit);
c) i tifosi italiani presenti sono in effetti sudafricani travestiti con magliette azzurre e si distinguono dai veri italiani perché non parlano sardo, campano o calabro-siculo.

Segue una breve cronaca, male necessario e frutto dell'intercettazione di una trasmissione Sky in un pub di via Leonina (Roma).

2' scarpata di Caceres a Montolivo restituita poco dopo da De Rossi, come dovuto
4' Cannavaro manca aggancio volante; quattro anni fa, avrebbe stoppato in volo, preso un ristretto napoletano, lasciato la mancia e solo dopo sarebbe riatterrato
15' non tiriamo
18' non tirano
21' invece sì, tiriamo con Montolivo
22' per contagio tirano con Torres
23' su punizione un disgraziato in biancorosso toglie il pallone dalla testa a Vicenzo Iaquinta
27' Criscito sfoggia personalità, Marchisio c'entra poco con il Mondiale
28' a Bicenzo Iaquinta tolgono un'altra palla-gol, stavolta di testa
36' Marchisio lancia il contropiede a los paraguayos, urgono provvedimenti

39' GOAL PARAGUAY tale Alcaraz, certamente detto Alcatraz, svetta di capa su Cannavaro che, quattro anni fa, sarebbe entrato in anticipo, dopo avere chiesto il permesso alla torre di controllo; peraltro, l'azione nasce da un fallo inesistente di Chiellini

Intervallo

Commento a metà partita: troppa gente senza l'attributo e pochissima fantasia negli ultimi 20 mt; loro compatti e modesti, un Ghana con meno atletismo

46' Buffon fuori, entra Marchetti; Gigi ha la sciatalgia; si attende che Zambrotta esca per demenza senile e Cannavaro per la gotta

49' Montolivo perde troppi contrasti e, per di più, dopo fa gli occhi da cerbiatto; in panchina Gattuso ha già mangiato sei sbarre di ferro dolce; Tommaso Cerno (L'espresso) arrivato al pub al 35', beve la seconda birra

52' sforbiciata di Pepe che, non per dire sempre ve l'avevo detto, ma è il più in forma degli azzurri
54' il paraguayo Vera se ne pappa uno
55' tiretto di Montolivo
57' crossetto di Iaquinta
58' Marchisio fuori, por cit, entra Camoranesi
59' paraguay ricopione: Santana per Torres
61' Caceres prende il giallo; è quello della pedata al 4'; resta in campo abusivamente, andava espulso

62' GOAL ITALIA il portiere paraguayo va a farfallette su corner; un bestiale De Rossi la butta dentro resistendo al placcaggio dell'avversario, tiè

65' Santana se ne mangia uno; la nostra difesa balla
69' Gilardino servito in area ci mette mezz'ora a girarsi; mentre ci sta ancora provando
(71') lo sostituiscono con Di Natale dopo l'ennesima partita insipida
71' la partita langue, terza birra di Cerno (L'espresso) con ipotesi immediata di una quarta
82' bombarda di Montolivo deviata in angolo dal portiere; è l'ultima azione degna di nota; il forcing azzurro con Santana fuori combattimento e non sostituibile conferma il pareggio.

Commento finale. Vanno rottamati Camoranesi e uno fra Zambrotta e Cannavaro. Marchisio può guardare le partite dalla panca. Gilardino va svegliato a frustate. De Rossi è il migliore in campo, seguito di poco da Pepe. Quindi, diciamo, almeno tre cambi in partenza per la prossima, contro gli All White neozelandesi domenica prossima.
In attesa di Pirlo, è indispensabile Rino, rivedibile Di Natale. La gamba generale sembra meglio del previsto. La fantasia latita, ma questo si sapeva. Si spera in Pirlo all'ultima contro la Slovacchia. Non avendo vinto la prima, la terza sarà comunque decisiva. Così stando le cose, agli ottavi ci toccherebbero Germania o Ghana, fra le migliori viste finora. Non sarà una passeggiata.

di Gianfranco Turano; L'espresso

lunedì 14 giugno 2010

domenica 13 giugno 2010

Metamorfosi

Ma chi è quel signore in abito grigio e cravatta in tono, accecato dai flash dei fotografi e inquadrato ossessivamente dalle telecamere di tutto il mondo? Perchè sono tutti girati verso di lui e quasi ignorano un fenomeno come Lionel Messi? Ma è il fenomeno dei fenomeni del calcio internazionale, Diego Armando Maradona, idolo imperituro di Napoli e del Napoli che, ancora una volta, riesce a essere protagonista assoluto anche se a bordo campo.

Quando ormai tutti pensavano di vederlo nella sua tuta scura della seleccion, divenuta una seconda pelle, è sbucato dagli spogliatoi con addosso un vestito sobrio quanto elegante, se non impeccabile, poco ci manca. Mettendo fine a un tormentone che impazzava sul web e, naturalmente, nella sua Argentina. Una vicenda divertente e anche un po' sentimentale.

Dunque, Diego ai Mondiali rappresenta una intera nazione e ci vuole un po' di decoro, l'apparenza non sarà tutto ma in certi ambiti conta. Così dall'Argentina nasce e si propaga un movimento di opinione che gli chiede di vestirsi perbene e presentarsi meno scarmigliato del solito. Portavoce di tutto ciò è un sito internet www.untrajeparadiego.com.ar che mette in piedi un sondaggio internazionale in lingua spagnola e inglese: volete che Maradona indossi giacca e cravatta: sì? No? Non avete una opinione?

In breve i clic si moltiplicano e vanno verso un plebiscito con oltre il novantuno per cento che spinge per un look da elegantone. Ma non basta: Diego continua a presentarsi alle conferenze stampa in tuta. La battaglia dell'abito sembra persa.
Ma El Pibe ha un grande corazon e quando a scendere in campo sono le sue adorate figlie, Dalma e Gianinna e gli chiedono di mostrarsi al mondo in giacca e cravatta lui, alla fine, cede.

Tace, non dice nulla a nessuno sino al giorno del match tra l'Argentina e la Nigeria, ma poi si presenta al gran debutto con il nuovo look. Che non gli vieta di sbracciarsi, palleggiare con classe per restituire la palla quando finisce nei suoi pressi, saltare, protestare e infine esultare. Insomma Diego Armando Maradona è tornato. E Napoli - alla quale ha recentemente dedicato un video con annesso messaggio d'amore andato in onda addirittura al San Carlo - tifa per lui. Ci mancherebbe.

di Giovanni Marino; la Repubblica

sabato 12 giugno 2010

Pubblicità progresso

Nell'intervallo di Francia-Uruguay salta fuori la pubblicità della birra Black Label. Bar quasi all'ora di chiusura, barista bianco e clientela nera. Lui un tapino, loro, dei bestioni, chiedono due birre e parte il gingle. "Non puoi tenerla in mano", il che significa che devi bere subito perché la birra è troppo buona e anche che per potertela permettere devi essere uno giusto. Il barista estrae la bottiglia dal frigo e si gela le mani, la fa saltare da un palmo all'altro e disperato la lancia per aria. Uno dei clienti la afferra e ripete tutto sorridente: "Non puoi tenerla in mano". Il che significa che un bianco non è abbastanza giusto per la Black Label? Quasi ci resto male, poi ci ripenso: è una caricatura al cubo. Il bianco mingherlino e spaventato, i neri due gangsta rapper con i dreadlock, gli occhiali scuri e il cappotto firmato tenuto sulle spalle. Un gioco di ruoli, una pubblicità progresso.

di Giulia Zonca; LA STAMPA

L'incognita(?)

L'Argentina ancora non è quello che potrebbe essere, forse vittima del luogo comune più di moda in questi tempi, quel "nonostante Maradona" che inquina il valore di una delle Nazionali più forti del Mondiale. Invece Diego aggiunge qualcosa, mica toglie. Ha delle idee che non sono banali (chi avrebbe avuto il coraggio di ripescare Veron, con il suo piede da architetto e la sua mente lucida?), sa di avere per le mani una quantità esagerata di talento e non la dosa: tra Messi, Tevez, Di Maria e Higuain, più funzionale di Milito a quel modo di attaccare, i sudamericani un gol finiranno per segnarlo a tutti.

Maradona dovrà però organizzarsi meglio per prenderne meno, perché se è fisiologico che la difesa risulti più esposta, visto che è protetta da due soli mediani, l'ala Gutierrez che fa il terzino è un rischio troppo alto da prendersi in questo contesto. E poi, manca una vera alternativa alla coppia Veron-Mascherano: in quel ruolo c'è solamente Bolatti, che non è una cima, per cui ieri è stato riciclato Maxi Rodriguez, un altro che ha la vocazione ad attaccare. Uno come Zanetti, che sa fare il terzino e il mediano, sarebbe servito assai. Più di Cambiasso, a cui sarebbero rimasti solamente gli spiccioli.

L'Argentina deve ancora imparare a sfruttare anche la velocità di Di Maria, è insomma una squadra potenzialmente straordinaria che all'esordio è stata soltanto buona. Ma è anche vero che senza le miracolose parate dell'eroico Enyeama, e senza qualche strafalcione sotto porta di Higuain, la Nigeria sarebbe stata seppellita di gol molto presto. Invece è rimasta in partita fino all'ultimo, il cittì svedese Lagerbaek le ha dato razionalità, non ha mai perso il controllo ma le è mancato il colpo d'ala, anche se un paio di occasioni per il pareggio le ha avute. L'Argentina migliorerà, ne siamo certi. Quando alza i ritmi, le sue ondate offensive sono insostenibili anche in un giorno in cui Messi ha dato l'idea di giocare sulle punte, quasi solo per divertirsi. E comunque, la Pulce non si era mai espressa a livelli così alti con la Seleccion: merito di Maradona, non "nonostante Maradona".

di Emanuele Gamba; la Repubblica

venerdì 11 giugno 2010

Just Roo it

"Più lontano possibile da Beckham". Da cinque anni una squadra di pensatori dell'immagine sta lavorando per preservare l'ultimo calciatore di strada: Wayne Rooney. Un look perfetto, scarno, che non lascia spazio ad alcuna improvvisazione. Vedete un muro rosso? E' pensato. Quella maglietta sdrucita? Un calcolo programmato. Il suo urlare allo specchio a torso nudo? Vuole colpire. Il futuro da barbone? Un colpo di genio per non dare certezze. E così le altre identità del ribelle, del semplice, del pelato precoce. Il "brand" Rooney, in apparenza così elementare e di così poca sostanza, è in realtà una meraviglia del moderno marketing. Per i costruttori di look, stanchi di gigantismo e forse anche dei troppi colori, Wayne si è rivelato un pozzo di idee travestito da centravanti: "Ne valutiamo cento al giorno, novantacinque le scartiamo, cinque sono perfette", dice l'instancabile e ben remunerato staff del "Team Rooney". Sull'ultimo numero di "Esquire" c'è una foto in b/n del 2005, ritoccata, in cui Wayne è in piedi nel "backyard" di una casa inglese qualunque, pura oleografia, il piede destro su un pallone d'annata a esagoni (ma con lo "swoosh" della Nike). Un signore e una signora anziani lo guardano sorridenti come fosse il nipote che esce per andare a giocare a pallone. Un "mod", uno che viene dalla terra, dai giardini dietro casa, che impara a giocare a calcio col battimuro, uno che appartiene alle radici dello sport più bello del mondo, quando i calciatori, almeno in Inghilterra, si chiamavano Stan o Jimmy, guadagnavano 10 sterline a settimana, mangiavano fagioli tutti i giorni, imparavano a calciare solo di piatto e se facevano i difensori o gli attaccanti chiudevano la carriera sdentati.

In quel ritratto da copertina discografica (gli Who di "Quadrophenia"?) è come se Rooney dicesse: io vengo da qui, dalla tetra malinconia di una stradina di Liverpool, dove i mattoni puzzano ancora di lardo e dove non batte mai il sole (perché piove sempre). Una stradina come quella da cui Tom Finney usciva molto presto di mattina, negli anni Cinquanta, più o meno vestito come il Rooney virato antico. Andava ad allenarsi col Preston North End dal quale riceveva due sterline al giorno.

Dietro questo andare a ritroso, dietro questo restituire al calcio la sua natura proletaria, incombe il peso di una lucida strategia commerciale. Si parla di accordi pesanti: per tanta ricerca iconografica, la Nike suole versale a Rooney quasi 1,5 mln di sterline l'anno, parte delle quali va nelle casse del Team. Una cifra sufficiente per acquistare una decina di stradine secondarie di Liverpool e rimetterle in sesto. Dunque Rooney come star degli eterni bassofondi: "Ho preso da Paul Scholes, non da Beckham", scrive nella sua autobiografia "My story so far". Un altro Paul, Stretford, il suo controverso agente, lo avvertì: "Non cedere i diritti per la gestione della tua immagine finché non capisci cosa vuoi diventare". E' diventato l'opposto di Beckham. Li unisce soltanto il guadagno. Rooney però è stato più precoce. A soli 17 anni, il "boy next door" si metteva in tasca già 13 mila sterline a settimana (ora sono 90 mila). Ma dove Beckham è stato la progressiva negazione delle origini, Rooney le ribadisce di continuo, fra spontaneità a programmazione. Nella stanza 44 della Manchester Mercantile Court il "Team Rooney" aveva deciso: più lontano possibile da Beckham e dalle sensazioni di ricchezza che lo spice boy trasmette. Una manipolazione intelligente e diabolica che sta portando bene e soprattutto lontano. A un altro calcio, al calcio che una volta giocavano per strada soltanto i ragazzi di strada, poveri e non troppo belli. Se gli andava bene diventavano ricchi e famosi e ogni settimana avrebbero portato a casa 10 sterline a settimana. Come Rooney.

di Enrico Sisti; la Repubblica

giovedì 10 giugno 2010

Stringiamci a coorte!

L'azzurro Savoia della Nazionale è uno dei colori indelebili dell'infanzia. In quanto tale, prescinde dai colori che la vita di ciascuno di noi ha via via sovrapposto: l'infanzia è un ricatto che ci accompagna fino all'ultimo respiro. Sulle tribune di pietra del vecchio stadio di Novara mio padre mi indicò un signore anziano, alto e secco, e mi disse: "È Silvio Piola. È stato un grande azzurro". Dal basso dei miei sette anni scrutai il Grande Azzurro ad occhi sgranati, cercando tracce di quel colore nel decoroso vestito grigio. Di azzurro non aveva nemmeno la camicia, ne dedussi che quel colore era una specie di qualità morale, un colore al merito.
Quando calciatori troppo tatuati e troppo pettinati, abbastanza tronisti, oggi dichiarano alle telecamere che la maglia azzurra ha un fascino speciale, nella vieta formula da ciancia sportiva si sente balenare, ancora intatta, la qualità non contingente, non comparabile, di una maglia che ha vestito italiani baffuti e impomatati di un secolo fa, ventenni che nelle fotografie ci appaiono adulti già segnati dalla trincea di guerra e dalle rughe della povertà; poi i figli del dopoguerra, non molto difformi dal precedente tipo antropologico, ancora con i capelli cortissimi e le facce contadine e operaie; poi i capelloni degli anni Sessanta e Settanta, ragazzoni ricciuti con i denti finalmente in ordine, i volti lisciati e ringiovaniti dal benessere, e una patina di nuova libertà che fa assomigliare le foto di gruppo non più a un plotone disciplinato, ma a un'adunata di amiconi; infine i calciatori moderni, selezione di testimonial pubblicitari, di fidanzati di starlette, di figli unici con mamme ancora giovanili, bei figlioli più alti, più certi di sé, nipoti irriconoscibili di quei nonni soldati che facevano gol senza il bene di una telecamera, e avevano mogli massaie, fidanzate timorate, e a casa eserciti di fratelli e sorelle che dormivano nella stessa camera.
L'azzurro più che celeste è carsico (come l'inconscio), è un fluido che scorre senza trovare ostacoli sotto le ormai tante generazioni di corpi italiani che l'hanno indossato mutando di stazza, di complessione, di spirito, sostituendo una inedita vanità maschile alla schiva virilità degli antenati. È così antico, l'azzurro, che costringe a fare i conti con lui anche i più strutturati tra gli scettici. Tra i tipografi comunisti dell'Unità, negli anni Settanta, ad ogni Italia-Urss scoppiavano vigorose discussioni tra filosovietici (minoranza bolscevica) e filoazzurri (maggioranza menscevica).

I più spiritosi tra i bolscevichi facevano notare che il Cccp sulle maglie rosse dei sovietici (guai chiamarli banalmente russi) stava per "Col Cazzo Che Perdiamo". Alcuni, dilaniati dal dubbio come chi viva un derby tra i due emisferi del suo cerebro, promettevano tifo equanime per entrambe le Nazionali. Alla fine quasi tutti tifavano Italia, fedeli a una linea che prescindeva in toto dai dibattiti di sezione. La faticosa politica cedeva di schianto di fronte ai colpi subdoli, suadenti di quel mistero più materiale che culturale che sono le radici: ognuno di quei militanti aveva un padre che gli aveva mostrato un Piola, un Meazza, e poi tutti amavamo indiscriminatamente Gigi Riva, un italiano di tipo acheo (rarissimo) che per giunta fumava come un turco, era di sinistra e aveva mandato a quel paese gli Agnelli, rimanendo a Cagliari a guadagnare la metà e godere il doppio.
Sono troppi i legacci sentimentali con l'azzurro per avere la voglia e la forza di rinnegarlo. Memorabili sere si sono accumulate negli anni, le voci di Carosio, Martellini, Pizzul, la tivù in bianco e nero che impasta i palloni di cuoio (i primi palloni "optical", candidi a scacchi neri, furono, per i nervi ottici dell'umanità, un sollievo pari alla scoperta delle penicillina per i feriti di guerra), i titoli della Gazzetta, la prosa di Brera, i primi fotocolor sul Guerin Sportivo, ovviamente le figurine dei calciatori che sono state moneta corrente per milioni di infanzie.
Nemmeno adesso, che molte circostanze congiurano per rendere meno empatica l'avventura africana degli azzurri, è facile far finta di niente. Le circostanze sono note: l'esagerata e stucchevole invadenza mediatica del calcio; l'aura piuttosto narcisa di calciatori ricalcati sul maschio televisivo e pubblicitario, permaloso e fragile quanto più il talento è incerto; i festeggiamenti popolari (qualora ci fossero) che sono diventati via via più grevi e sguaiati, così come il tifo che ha conservato ben poco della sua intima smania, ed è diventato estroverso fino al trucido.

Al netto di tutto questo, hanno ragione i ragazzi in tuta e belletto che, guardando nella telecamera come sanno che si deve fare, dicono che l'azzurro è speciale. Nel traballante edificio (tutto culturale, tutto sovrastrutturale) che cerca di rappresentare la cosiddetta identità nazionale, l'azzurro della Nazionale è per ciascuno un pezzo di vita. Non di pensiero o di politica o di convincimento intellettuale: di vita. Per questo, in fin dei conti, ci sgomenta la ribalderia impostata di quei postitaliani (come il povero Trota, che più che altro pare un pre-italiano) che, a vario titolo e più spesso senza alcun titolo, vengono a dirci che loro non tifano azzurro: perché ci chiediamo dove diavolo abbiano vissuto, fin qui, guardando cosa, ascoltando cosa, patendo o godendo per cosa. Oppure: se siamo stati noi a vivere altrove.

di Michele Serra; la Repubblica

martedì 8 giugno 2010

domenica 6 giugno 2010

Interisti


Roland Garros

Ci voglione persone così, per sfatare i tabù. Così come? Come Francesca Schiavone. E com'è Francesca Schiavone? Scontrosa. Simpatica. Folle. Generosa. Insomma, una persona di cuore. Una persona che rompe gli schemi. Che non rientra nella normalità.
Francesca Schiavone, come Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta. Anche il tennis, finalmente, ha la sua eroina. La sua vittoria nello Slam. Sempre a Parigi, meno male che esiste il Roland Garros.
Francesca Schiavone, come Federica Pellegrini. La nuotatrice che ha spezzato tanti tabù a bordo vasca. Atlete toste ma, prima ancora, toste come persone. nella vita.

Rileggetevi quello che hanno detto in questi giorni sulla milanese dal padre irpino e la mamma bresciana: "Bisogna saperla prendere". Ecco, solo una così poteva fare un'impresa del genere. Una che le amicizie le sceglie col lanternino. Una che non va in balia del vento, delle mode. Una che è coerente con le sue idee. Una che se ritiene di aver ricevuto una sgarbo non si fa venire la bile, affronta a viso aperto la gente.
Ha sfondato a trent'anni. E allora? Al di là della sua risposta sull'argomento ("evidentemente non ero pronta"), ricordiamoci chi siamo noi italiani, nello sport. Capaci di exploit, ma discontinui. Alle prese con noi stessi. Perché, nel nostro dna, ci sono altre cose.

Qualcuno ha provato a 'sporcare' questo piccolo miracolo, dicendo che le migliori erano dall'altra parte del tabellone, che Francesca era stata fortunata. Ma, scusate, in quale impresa non è stata necessaria la fortuna? E, poi, avete visto la partita di questa finale? La Schiavone ha fatto tutto quello che doveva, non ha mai concesso il comando dle gioco all'australiana. Ogni punto è stato giocato con intelligenza, con strategia.
Così si fa. Il Roland Garros a Francesca Schiavone, che sembra una giocatrice del passato. Che pratica un tennis 'pensato', fatto per mettere in difficoltà l'avversaria. Non come le ragazzine di oggi, che tirano cannonate e basta. E poi, di fronte ad una palla con l'effetto, vanno in crisi esistenziale.

Ben venga, dunque, Francesca Schiavone. La tennista che ancora qualche mese fa parlava di "altro dopo il tennis", nel senso che c'è altro nella vita. Ecco, essere consapevoli di questo assoluto, è il primo passo verso la retta via. Ci sono altre Schiavone in giro?

di Paolo Rossi; la Repubblica