martedì 18 maggio 2010

Don Josè

È a noi che Josè Mourinho deve quella preziosa lacrima che finalmente lo consegna alla normalità. Eva bene che l'Italia, dove «non si sente a casa», gli deve la scoperta che anche un allenatore di calcio può permettersi l'ironia dinoccolata di Yves Montand e la profondità triste di Albert Camus. Ma forse dall'Italia, che fortissimamente lo vuole in casa, dal Paese del batticuoree del turbamento, Mourinho ha imparato che anche la lacrima è dignità. Forse siamo noi ad avergli insegnato che qualche volta l'incontinenza delle emozioni è la vera prova di carattere dell'uomo di carattere. È infatti diventata bellissima quella sua faccia che cercava il distacco e trovava la passione: la faccia di un uomo che, abituato a prendere le cose di faccia, voleva negarsi alle lacrime e non ci riusciva. E inutilmente cercava la freddezza, la compostezza e la calma mentre scopriva che l'emozione ha le sue leggi biologiche e si può piangere in privato o in pubblico, al balcone o con la testa sotto il cuscino, trattenendosi e gonfiandosi o abbandonandosi ai singhiozzi, ma ci sono momenti in cui bisogna piangere, perché anche il pianto è verità. Mourinho è dunque diventato italiano grazie alla fragilità e alla presunzione di una lacrima? Spavaldo e intelligente, abituato alle iperboli, ha riempito gli archivi di battute taglienti e di sorrisi sprezzanti, di sarcasmo e di dileggi, senza mai abbandonarsi però all'insulto e al turpiloquio. Ma se e vero che si è concesso una sola ingenuissima parolaccia («pirla») è anche vero che gli scatti malandrini spesso lo hanno reso antipatico, si è impicciato di tutto, ha biasimato ogni volta che ha potuto l'antropologia del paese che lo ospita e lo divizza, anche se lo ha fatto con la solidarietà di tutti quegli italiani che ogni giorno combattono contro la loro Italia. Quanti sono gli italiani che ripeterebbero la terribile frase di Mourinho, «qui non mi sento a casa»? E ha coltivato un legame di complicità, fatto di fastidio e di supponenza, con il complesso di superiorità di una certa Milano, una complicità basata ormai sullo humus e non più sulla ragione, una complicità calda che Josè Mourinho piange? Forse vorrebbe farlo, ma riesce a trattenersi in qualche modo. Lo seguiamo passo passo nel suo giro di campo: mai visto così in difficoltà, l'uomo di ghiaccio, così felice e così tormentato al tempo stesso. Si può abbandonare tanto amore? E a Madrid, oltre all'ambizione ricompensata, cosa ci sarà? L'uomo riflette, e soffre. Passi sempre più lenti, poi occhi sul prato, le tempie che pulsano. Ci facciamo avanti: Josè, ma allora ci lasci? «Non so, non so. Adesso non riesco a pensarci. Devo farlo più in là. Ciao, ci vediamo a Madrid», e il momento è davvero particolare, e la giornata davvero storica, perché ti molla una carezza uscendo dal campo. Più tardi racconterà il suo tumulto: «Ora non ho tempo per Muorinho trasforma sempre in battute fredde: contro Sconcerti, il giornalista con il quale non andrà mai a cena; contro Lo Monaco il quale spera -povero sconosciuto- che Mourinho si occupi di lui per diventare famoso; contro Ranieri al quale ha contrapposto Jean Paul Sartre; e ovviamente contro la Roma, presunta corruttrice... Ed è stato severissimo con il suo giovane pensare a me stesso, al mio futuro: bisogna preparare la finale di Madrid. Solo dopo avrò qualche giorno per pensare e lì prenderò le mie decisioni, che non dipenderanno certo dall'esito della finale. Devo pensare alle tante cose positive che ho vissuto con l'Inter e a quelle negative del calcio italiano. Devo capire cosa mi farà più felice dal punto di vista professionale. Sono valutazioni importanti. Ma è falso che sono già con un piede e mezzo a Madrid, anzi sono lontanissimo dall'essere l'allenatore del Real». Però l'Italia gli pesa e lo ammette: «Spesso non mi sono sentito a casa, non nel mio habitat naturale, sono stato a disagio, non nel posto adatto per essere felice e lavorare felice. Dentro l'Inter però sto benissimo, io sono un pezzo di questo club e il club è una parte di me, proprio come accadde al Porto e al Chelsea. È fuori che ci sono stati problemi. Parlavo, e mi squalificavano. Ho rischiato di non esserci neanche a Siena, e per una battuta sui soldi del Siena che hanno fatto tutti. Eravamo in vantaggio di 11 punti e la cosa non piaceva a nessuno, ai giornalisti, alle tv. Allora avete deciso di fare qualcosa tutti assieme: un po' di prostituzione intellettuale, la Roma fuori dall'Uefa ed è iniziata la rimonta, mentre noi in Champions affrontavamo squadre come Chelseae Barcellona e tutti erano contro di noi, compresa la Juve che è venuta a Milano per farci perdere lo scudoppio, quel Balotelli che, da pessimo italiano, crede che la maleducazione sia la virtù del ribelle, cattivo esempio di un bullismo che si atteggia a genialità, come Cassano e come Totti: anche se ciascuno a suo modo i campioni d'Italia sono sempre pronti all'innocente mascalzonata. In questa Italia di bulli e di padroni, di comandanti e di duci ma non di leader, Mourinho è straniero anche perché è la leadership che governa, guida e dirige -e vince- con una supremazia riconosciuta innanzitutto dai suoi uomini che difende anche quando hanno torto, condottiero e stratega nel Paese delle crisi di consenso. E vuole sempre scalare l'Olimpo ed è napoleonico ma a viso aperto e con una sorprendente girandola di battute sapide e non programmate, da anarchico metodologico, come sono soltanto gli italiani migliori. E facendo spallucce a tutto ciò che non si incontra con il suo detto... Il momento più difficile è stato dopo Fiorentina-Inter: non eravamo più padroni del nostro destino. Poi la Samp ha tolto i punti decisivi alla Roma e siamo tornati su. Comunque complimenti alla Roma, umore, ogni tanto Mourinho trova pure la battuta staordinaria, un vero capolavoro nel paese degli aforismi. Così, una frase nata dall'oscuro biasimo di un allenatore di calcio è diventata intelligenza critica, ha conquistato ed abbagliato, entrando di diritto in quell'elenco di frasette, battutine, libretti e canzoncine che racchiudono un'epoca come, per esempio, la battuta di Paolo Villaggio sulla corazzata Potemkin «cagata pazzesca». Allo stesso modo è una piccola frase di Mourinho che rivela il nostro tempo, non solo calcistico, una frase che opprimee illumina non la Roma e non solo il calcio ma, dalla politica alla cultura alla morale, l'intera Italia «zero tituli». Non è insomma possibile che Mourinho abbia vinto una coppa, due scudetti e milioni di animi, e magari riesca a vincere la Champions League europea, contro gli italiani che lo rendono infelice. Il primo piano di quegli occhi rossi e gonfi ce lo rivelano e ce lo consegnano. Se all'Italia così prodiga di lacrime qualsiasi e cosi traboccante di sceneggiate Mourinho ha insegnato la spietatezza asciutta del campione, dall'Italia ha imparato la civiltà del pianto.

di Francesco Merlo; la Repubblica

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