lunedì 31 maggio 2010

I tempi cambiano

Adesso tutti noi comuni mortali possiamo sentirci un minimo meno distanti da lui, il marziano del tennis. Sì, anche Roger Federer, il campione dei campioni, per molti il più grande di tutti i tempi, è stato preso a pallate da sconosciuti avversari e ridotto all'impotenza e alla frustrazione. Addirittura umiliato dal punteggio di 6-0 6-0. Un cappotto, come si dice nella gergologia sportiva. Una esperienza che ogni tennista amatoriale (e non) prima o poi ha conosciuto (e magari ripetuto più di una volta). D'accordo, a Re Roger è accaduto quando aveva soli dieci anni, ma per un Fenomeno con la F maiuscola come lui, anche quel risultato fa statistica, se non storia. E per di più se si scopre che dall'altra parte della rete non c'era un piccolo Nadal, un Roddick in miniatura, un mini-Hewitt bensì un futuro agente. Un poliziotto. Un tipo che col tennis professionistico non ha avuto e non ha nulla di serio da condividere. Non un predestinato come lui, insomma.

Si chiama Reto Schmidli, oggi ha 31 anni, una pelata importante e un volto squadrato, l'autore del "regicidio" tennistico consumato nel lontano - ma per lui ovviamente indimenticabile - agosto del 1991. E in piena stagione di Grande Slam prima al New York Times, alla Bbc e poi inevitabilmente a tutti quelli che sono andati a cercarlo, ha svelato il precedente. Con ogni particolare e mostrando anche una certa durezza rispetto a una vicenda che induce più al sorriso che alla severità. In sintesi Reto, colpito da improvvisa e tardiva popolarità ha raccontato: "Non volevo regalargli nulla, pensavo solo a vincere il match. Allora non pensai di essere gentile con lui". Che, va detto, rendeva tre anni al tredicenne Schmidli, invitato a partecipare a quel torneo under 10 solo perché c'erano pochi bambini e dunque un fuoriquota più grande, più alto, più forte rispetto ai piccoli avversari. "Ma oggi - si riprende un po' l'agente - se dovesse ricapitare una situazione simile, lascerei un game a Roger". Della serie: eventi impossibili.

Il cappotto fu rifilato al Grussenholzli tennis center di Pratteln e Federer, naturalmente, lo ricorda con un sorriso. "Vero, presi due sei a zero ma non giocai male e non uscii dal capo arrabbiato per la mia prestazione". Situazione insolita per il bimbo-Federer: come più volte descritto da chi lo ha seguito sin da piccolo, infatti, lo svizzero aveva un bel caratterino e reagiva ad ogni sconfitta con lunghi pianti e/o frantumazioni di racchette. Non quel giorno, giura Federer. E uno come lui va creduto, sempre. D'altronde lui stesso aveva tirato fuori la storia del cappotto molto prima che il poliziotto parlasse a tutti del "double bageled": correva il novembre 2005 e il number one aveva inflitto un 6-0 6-0 all'ex campione del Roland Garros, l'argentino Gaston Gaudio sul veloce di Shangai, sede del Masters finale. "Roger ti è mai capitata una cosa simile?", gli avevano chiesto. E lui, limpido: "Non da professionista ma ricordo un analogo risultato da junior, sì mi accadde una volta". Era il match di cui poi avrebbe parlato il poliziotto, 5 anni dopo. Che ha risposto serissimo anche alla domanda di rito: signor Schmidli, e se oggi le dovesse capitare di fermare Federer alla guida per eccesso di velocità? "Gli farei la multa, qui in Svizzera nessuno ti regala niente". Quando si dice: un ex tennista e ora un poliziotto tutto d'un pezzo... Roger, occhio: non correre con la macchina quando torni a casa.

di Giovanni Marino; la Repubblica

domenica 30 maggio 2010

Le Roi

Dagli Euro 2016 assegnati venerdì alla "sua" Francia, alla commemorazione della tragedia dell'Heysel con la "sua" Juve, di ieri e di oggi: il mondo di Michel Platini, ora presidente del calcio d'Europa. "Quella partita di Bruxelles non è finita 25 anni fa, non è mai finita, non finirà mai. È stata una partita vera, combattuta, ed era giusto, come dissi allora, che morto il trapezista entrassero i clown. Noi d'altronde non sapevamo cosa stava succedendo sugli spalti, non potevamo saperlo, e mio padre che era lì lo scoprì il giorno dopo alla radio. Si doveva giocare: sarebbe stato molto peggio se non fossimo scesi in campo".

Cosa può promettere, oggi, il presidente dell'Uefa?
"Il mio impegno, la mia responsabilità è che non succeda mai più una tragedia del genere: molte cose sono cambiate negli stadi: ora sono più sicuri, tutti a sedere, senza più barriere".

L'Italia ha perso per la seconda volta gli Europei e non potrà più ricandidarsi: stadi fatiscenti, violenti che spadroneggiano, siamo destinati ad un rapido declino?
"Dipende solo da voi, gli stadi potete farli anche senza avere gli Europei, no?"

Boniperti ha detto che dopo l'Heysel l'Inghilterra ha fatto passi da gigante mentre l'Italia è sempre in mezzo al guado...
"Non dobbiamo aspettare le stragi per migliorare, meglio farlo subito".

E i violenti?
"Un problema soprattutto di giustizia e polizia: li conoscete gli imbecilli? Allora cacciateli dagli stadi".

La tessera del tifoso?
"Un fatto italiano: noi non l'abbiamo nelle nostre manifestazioni. Abbiamo spostato la finale della Champions dal mercoledì al sabato, e a Madrid è stata una festa, con le famiglie, i bambini in tribuna. I tifosi di Inter e Bayern si sono comportati benissimo: un grande successo, un piccolo calo del 4-6% negli ascolti tv solo in Europa, perché il sabato sera ci sono tanti programmi, ma un boom nelle Americhe e in Asia, il 50% in più".

Una vittoria per lei gli Europeri al suo amico Sarkozy?
"Macché, la mia vera vittoria è il financial fair play, appena approvato dall'Esecutivo: una rivoluzione dopo cent'anni, che altri non hanno fatto. Io voglio aiutare i club, non ucciderli. Avranno tempo per mettere i bilanci a posto. Niente ghigliottina per il momento. Sono tutti con me, Moratti, Berlusconi, le famiglie Agnelli e Sensi. Così non si poteva più andare avanti".

E i due giudici di area?
"Noi abbiamo passato il tempo per cercare di fregare l'arbitro. Ora lo aiutiamo, ma senza tecnologia. Ci fossero stati i due giudici di area, Henry non avrebbe toccato la palla con la mano. Ora vedremo di migliorare sul fuorigioco, allenando gli assistenti".

Cosa prevede per i Mondiali del Sudafrica?
"Freddo, inverno. Ma spero vinca un'europea...".

Quindi, Inghilterra o Spagna?
"Sono le mie favorite, insieme col Brasile. Poi ci sono una decina di squadre, fra cui l'Italia. La Francia? Uhm".

Italia e Francia vanno ai Mondiali sapendo che dopo i ct non saranno più Lippi e Domenech: un problema per i calciatori?
"Ma quando mai? I giocatori giocano per se stessi e, in qualche caso, per la bandiera. Non certo per il ct".

Ma allora perché lei fece il ct della Francia?
"Mi piaceva: poi in ritiro coi calciatori mi sono rotto le scatole. E pensare che il Real Madrid mi offriva un sacco di soldi...".

Non ci sono più i numeri 10 come Platini o Zidane.
"Strano: i Messi, Ronaldinho adesso li spostano sulla fascia. Noi sulla fascia ci mettevamo quelli che non contavano. Tardelli, Boniek, Cabrini...".

Comandano e guadagnano troppo gli allenatori?
"Sì, sono troppo protagonisti. Non mi piace. Il protagonista deve essere Milito. Non Mourinho. I bambini fanno la collezione delle figurine dei calciatori, mica dei tecnici".

Lei non appoggia Blatter sul 6-5.
"Una battaglia persa. Io mi batto per evitare che i brasiliani dopo 5 anni diventino italiani e giochino tutti in Nazionale".

Come mai ha deciso di ricandidarsi alla presidenza dell'Uefa?
(Sorride) "Perché voglio consegnare una Coppa alla Juve. Ma temo che dovrò modificare lo statuto, allungando il mandato da quattro a otto anni... Mi raccomando, è una battuta".

di Fulvio Bianchi; la Repubblica

Il ritratto

Il discorso dal paradiso (Giro 2006 vinto), all'inferno (squalifica di due anni per coinvolgimento nella vicenda doping dell'Operacion Puerton spagnola), poi di nuovo al paradiso: la vittoria al Giro, quattro anni dopo, non gli va proprio giù. Se chiedi a Ivan Basso di precisare anche semplicemente umori e sensazioni a proposito di questa storia ottieni solo un'unica risposta: "Ora non serve a nulla pensare al passato. Alle difficoltà e ai problemi. Ora c'è questo Giro, questa vittoria. Era quello che avevo in testa fin da principio, quello che volevo e ovviamente ora la soddisfazione è enorme".

Neppure se lo si mette sulla graticola della logica Ivan recede di un passo. Ha vinto un Giro circondato dai sospetti, poi divenuti certezza; ora rivince quattro anni dopo, con prestazioni più convincenti. Più a dimensione d'uomo. Un fatto importante nel bistrattato ciclismo di oggi, sempre nel vortice dei dubbi e dei sospetti se non peggio.

Vincere un Giro a dimensione d'uomo vuol dire anche che è possibile fare del ciclismo ad alto livello nel limite delle prestazioni che rientrano nelle regole della tradizionale fisiologia. Un messaggio importante sul piano della credibilità generale, di tutti. Ma a Ivan adesso non interessano speculazioni di questo tipo. "Io penso a me stesso". Ripete che lui ha fatto tutto alla luce del sole, che i suoi test ematici sono su internet e ciascuno li può consultare; che tutti possono verificare qualità e quantità dei suoi allenamenti registrati con il rilevatore di potenza (SRM) lungo tutta la stagione e trarre le debite conclusioni. Allenamenti che ad un'analisi specifica dicono di un grandissimo lavoro, come volume e soprattutto come intensità. Quasi da fachiro. Perché la fatica nel ciclismo si esorcizza con la fatica e se non hai imparato a vivere con il dolore nelle gambe quando il fisico è chiamato allo sforzo massimale, non vai avanti. Ivan il fachiro questo lo sa bene.

E lo sa bene anche un altro personaggio del ciclismo mondiale, quell'Aldo Sassi, timoniere del centro Mapei di Castellanza, che lo ha raccolto quando era un reietto, squalificato e in fondo al baratro della credibilità e lo ha trasformato di nuovo in un atleta con la grinta e la voglia di tornare ai vertici. Salite all'asfissia, lunghe sessioni dietro motore a 60 all'ora, ginnastica posturale (il giusto), uscite in bici anche di nove ore, terapie per il recupero. Così il varesino ha ricostruito la sua identità. Con una costanza da certosino. "Ivan aveva un talento - spiega Sassi - che non poteva essere disperso". Vero. La vittoria al Giro è anche la vittoria di Sassi; anche se quest'anno Ivan ha voluto scantonare leggermente dalla rigida metodologia del tecnico lombardo, svicolando in parte dal suo ferreo credo. "Mi mancava il cambio di ritmo - spiega la maglia rosa, ricordando i limiti della scorsa stagione, dove pure aveva concluso al quinto posto il Giro e al quarto la Vuelta - e ho lavorato per migliorare questo particolare". Ecco: la cura del particolare è l'ossessione vincente del varesino; capace di lavorare ore per mettere a punto l'altezza della sella: un millimetro più su o più giù. Capace nel più freddo gennaio di pedalare per ore su è giù per il suo "amato" Cuvignone, la montagna a due passi da casa, Cassano Magnago, e rientrare congelato al punto da dover ricorrere alla sauna per "scongelare" le membra. Sono durezze difficilmente replicabili in altri sport. Che dicono della feroce determinazione della maglia rosa. Che in tempi non sospetti spiegava all'intervistatore: "Perché ricorrere a Fuentes e compagnia pur avendo le qualità per fare un ciclismo da protagonista? Perché in quell'ambiente non eri mai sicuro che il giorno del confronto qualcuno, meno forte e bravo di te, avesse fatto ricorso a pratiche o prodotti tali da consentirgli di metterti la ruota davanti". La paura madre degli errori e una devastante mentalità comune, purtroppo ancora diffusa. Ora tutto questo per Ivan è passato remoto.

Basso dimostra che si può vincere un Giro all'interno di parametri più umani. Il che non vuol dire che il ciclismo si sia finalmente liberato della "scimma" del doping. Perché - ovviamente prescindendo dal caso particolare - ci può stare anche che, pur rientrando nei limiti "umani", ci sia qualcuno che cerchi l'eterno "aiutino". Certe mentalità sono difficili da estirpare e certi personaggi discutibili sono ancora all'interno del movimento, su ammiraglie o nell'ambiente. Una strada ancora in salita: un Mortirolo. Che si puà domare, però, come ha fatto Basso.

di Eugenio Capodacqua; la Repubblica

Il Giro è finito

La crono finale la vince lo svedese Gustav Larsson, ma quel che conta è che il 93° Giro d'Italia è di Ivan Basso. L'Arena di Verona lo accoglie da trionfatore, con lo stesso entusiasmo che 26 anni fa riservò a Francesco Moser. Si è tanto parlato della rinascita di questo campione dopo la caduta nel pantano doping della famigerata 'Operation Puerto'. Dovendo trovare un momento simbolo del suo trionfo, non scegliamo il feroce attacco sul Mortirolo o la difesa serena sul Gavia. Prendiamo invece le ultime due curve della crono finale di Verona: con la corsa in tasca, quella prudenza assoluta nell'affrontarle racchiude tutta la sofferenza della ricostruzione della carriera. Significativo anche l'abbraccio alla moglie ed ai suoi bambini: più volte lo stesso Ivan ha parlato dell'importanza fondamentale della famiglia nei momenti più difficili.

"Il Giro è stato bellissimo per la gente e per me. Ringrazio la mia famiglia, mia moglie, un bacio ai miei due bambini e colgo anche l'occasione per fare un annuncio: tra qualche mese saranno tre. Ora mi sento al 100% felice, ho cacciato quella parte di me che non lo era. Ora mi concentro sul Tour, è difficile ma ci credo. Un ringraziamento speciale va anche alla squadra, tutti i ragazzi sono stati fortissimi". Già la squadra. Ha vinto Basso, ma ha vinto anche la Liquigas. A parte l'errore nella fuga, a questo punto solo apparentemente 'bidone', de L'Aquila, le gestione del team lombardo è stata perfetta. Non è certo un caso che sul podio salga anche Vincenzo Nibali. Il messinese è protagonista della vera sfida della giornata: un solo secondo Michele Scarponi, rosicchiato dal marchigiano in vetta all'intermedio e poi riguadagnato da Nibali con la consueta abilità in discesa. Parte anche la dedica al rivale: "Nella tappa di Montalcino (quella della caduta, ndr) ci ha tirato giù tutti, facendoci passare una brutta giornata"

Il trionfo di Basso oscura solo parzialmente David Arroyo, felice come se avesse vinto. Eroe per caso, lo spagnolo si è trovato bene nell'inatteso ruolo, tanto da non accusare la pressione della maglia rosa, portata con disinvoltura e difesa con astuzia fino alla salita verso l'Aprica. Ma è stato anche il Giro degli australiani. Parlare di nuova frontiera è ormai fuori luogo vista la crescita del movimento australiano, ma non era preventivabile che tre maglie su quattro facessero un viaggio così lungo. La maglia rossa a punti va all'inesauribile Cadel Evans, solo contro tutti e tutto vista la debolezza della sua squadra. Il leader della montagna (maglia verde) è Matthew Llyod, la maglia bianca di miglior giovane è per Richie Porte, e poco importa al tasmaniano se proprio all'ultimo Alexander Vinokourov lo salti in classifica al sesto posto.

Circa la crono finale, 15 km non particolarmente facili con una salita di 4,5 km che divide la gara a metà, il risultato è non certo a sorpresa. La vittoria va a Gustav Larsson, svedese con una bacheca ricca di successi a cronometro. Larsson costruisce la sua vittoria con una seconda parte di grande livello dove non sbaglia nulla. Sbaglia invece Marco Pinotti, e per lui è una beffa. L'ingegnere bergamasco vuole onorare un grande Giro, in cima alla salita delle Torricelle ha un margine di 12'' su Larsson, poi i discesa sbaglia malamente due curve: secondi preziosi persi, alla fine sul cronometro saranno 2 in più rispetto al vincitore.

di Luigi Panella; la Repubblica

sabato 29 maggio 2010

Forza Ivan

Il sigillo sul Giro di Ivan Basso, l'impresa di Johann Tschopp: sono due dei tanti motivi offerti dal penultimo atto su Gavia e Tonale. Alla maglia rosa piace vincere, ma non stravincere. La tappa del Gavia è insidiosa in salita, insidiosissima in discesa: il varesino con la sua squadra controlla la situazione, intonando sul Tonale anche un inno alla riconoscenza. L'unica vera accelerazione la produce negli ultimi due km, l'unico vero guizzo, di quelli da ghigno feroce sul volto, lo piazza nel rettilineo finale, quando 'ruba' a Scarponi gli otto secondi di abbuono che permettono al fido Nibali di mantenere per un secondo il podio.

"Tappa durissima, ringrazio Ivan per aver tolto gli abbuoni a Scarponi", spiega Nibali. Parola a Basso: "Per noi un'altra giornata felice, complimenti a tutta la squadra, oggi in particolare a Vanotti che è stato strepitoso. Un ringraziamento speciale anche a Nibali, un giovane con voglia di emergere che però si è messo a disposizione del leader. Programmi? Intanto pensiamo a finire questo Giro, poi penso di poter fare bene anche al Tour del France"

Piace in tutto Basso, ma piace anche David Arroyo: allo spagnolo non passa lontanamente per la testa di attaccare Basso neanche sul suo punto debole, la discesa dal Gavia. Fa due conti, limita i danni anche nell'ascesa finale: 1'15'' di ritardo da Basso in classifica non sono oggettivamente recuperabili nella crono di Verona, ma il secondo posto è blindato - a meno di cose grosse - dall'attacco di Scarponi e Nibali. "Giù dal Gavia l'asfalto non era buono - dice Arroyo -, troppo pericoloso attaccare, ho preferito scendere tranquillo".

Tschopp, uno svizzero che fino ad ora aveva vinto in carriera solo il Tropicale Amissa Bongo, corsa del centro Africa. Con tutto il rispetto, vincere al Giro una tappa del genere è un'altra cosa. Tschopp, noto per la sua sensibilità ecologica (non butta mai le borracce), compie la classica impresa. Unico neo, ma in questo il tifo ci influenza, aver dato troppo nel testa a testa contro un Simoni al passo d'addio sulla Cima Coppi: "Simoni nella sua carriera ha vinto tante volte, la Cima Coppi era un traguardo simbolico importante e non me la sono sentita di rinunciare a questa soddisfazione - spiega Tschopp -. Se pensavo di vincere al momento dell'attacco? Quando si va in fuga si pensa sempre di giungere a destinazione". La penultima in carriera di Simoni è stata comunque splendida. Gibo all'attacco, secondo sul Gavia. Poi l'età lo tradisce ma lui saluta tutti, in una scena da ciclismo antico, parlando in corsa ai microfoni Rai: "Era la tappa giusta per provare, potevo starmene più tranquillo sul Gavia per giocarmi più possibilità nel finale, ma va bene così"

La cronaca della tappa scivola su una azione da lontano di un nutrito drappello di uomini che via via si assottiglia. Ne fanno parte anche elementi di buona classifica come Sastre e Vinokourov. Grande volontà da parte loro, ma alla resa dei conti è Tschopp quello che piazza lo scatto giusto. Tra i big la gara la accende Evans, in un moto d'orgoglio che peraltro gli permette di mettere le mani sulla maglia rossa della classifica a punti. Il campione del mondo non fa il vuoto ma guadagna, sulla sua scia parte Scarponi: è caccia al podio, ma il marchigiano si arrende al senso si riconoscenza di Basso verso Nibali.

di Luigi Panella; la Repubblica

Potevi restare(?) (II)

Mi permetto di dissentire da Aldo Grasso, che sul «Corriere della Sera» ha appiccicato il bollino blu del traditore su quella faccia da schiaffi di José Mourinho, che mentre sollevava la coppa dell’Inter parlava già da allenatore del Real Madrid. Mou non è affatto un traditore, ma un uomo del suo tempo. Un tempo che non concepisce più il tradimento, perché ha smesso di concepire il futuro. Se nel calcio, e altrove, esistesse ancora il futuro, allora sì che la toccata e fuga del divo portoghese sarebbe stata un gesto inconcepibile. In un mondo dotato di futuro, l’eroe vittorioso non scappa dal castello un attimo dopo averlo espugnato. Se lo gode, e cerca di ampliarlo, un mattone sopra l’altro.

Ma il nostro mondo ha espulso dal suo orizzonte il domani: è un’epoca precaria e miope, che giudica le persone dai risultati immediati e, avendo cancellato la pazienza, non può certo aspettarsi la gratitudine. Come tutti i capitalisti moderni, Moratti non ha chiesto al suo manager di pianificare con calma i risultati, ma di raggiungerli subito, pena il licenziamento. Mourinho ha fatto ciò che gli era stato ordinato e ora andrà a rifarlo altrove, perché è uomo di emozioni e non di sentimenti. Le emozioni sono violente e brevi, evaporano in fretta: un momento piangi avvinghiato a Materazzi, e il momento successivo tratti col presidente uno sconto sulla rescissione del contratto. I sentimenti, invece, sono lenti e profondi, anche un po’ noiosi. Sarà per questo che vanno così poco di moda. A differenza di Mou.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Non dimentichiamo(ci) (II)

da Liverpoolfc.tv

venerdì 28 maggio 2010

Non dimentichiamo(ci)

La sera del 29 maggio 1985 l'orrore colpì il calcio. Due lettere, la Z e la Y, furono i cromosomi di quella tragedia. In teoria la zona Z dell'Heysel sarebbe dovuta essere quasi deserta: "Era destinata ai belgi neutrali", balbettò l'Uefa. Una specie di cuscino di seggiolini vuoti e aria fra juventini organizzati e tifosi inglesi del settore Y. Ci finirono gli ultimi arrivati. "Mi vergogno di essere inglese", urlò Bobby Charlton. Gli hooligans invasero la zona Z e schiacciarono gli juventini dei settori O, N e M. La partita si giocò con i fantasmi intorno. Morì anche lei. Senza nascere: "E io sono ancora qui che penso: cosa ci passò per la testa?".

Cosa vi passò per la testa, Ian Rush?
"Non conoscevamo l'entità della tragedia, il che paradossalmente era anche peggio. Qualcuno di noi voleva scappare, altri incoraggiavano i più spaventati. C'era anche chi temeva per i suoi cari, con cui era impossibile comunicare. La tragedia si svolse in una zona dove non era possibile che ci fossero anche le nostre famiglie, ma ripeto: noi non sapevamo esattamente quello che era successo né dove".

Dopo vi sentiste un po' carnefici, con quella teppaglia assassina al seguito?
"No. Credo che quel giorno fummo tutti vittime. Quel giorno il calcio cambiò per sempre".

Per prendere quale direzione?
"Da quel momento fu chiaro che prima viene il pubblico e poi lo spettacolo. L'Uefa fece una pessima figura. Sia i nostri che i dirigenti della Juve implorarono un cambio di sede. L'Heysel era una baracca, privo di qualunque sbarramento per dividere le tifoserie. Non poteva reggere alcun peso, figuriamoci una follia collettiva. Il nostro a. d. spedì missive di fuoco: "È uno stadio decrepito, inadatto! Non lo ascoltarono".

Aveste la sensazione di una partita "finta"?
"Forse sì, forse no. Ma tutto quello che posso dirle ora, con tanto spazio in mezzo, è una sorta abuso di potere sulla verità. Diciamo che ci sentimmo in dovere di continuare a fare il nostro lavoro".

Approvò la sanzione contro l'intero calcio inglese?
"No. Allora anche l'Uefa avrebbe dovuto sanzionare se stessa. La tragedia fu anche provocata dalla sconvolgente assenza di strutture e di controllo".

Alcuni tifosi del Liverpool continuano a dire: "Li odiavamo". Ci sono ancora dei blog in cui manca sempre l'elemento chiave: il pentimento.
"Non si può sradicare la follia. Anche intorno alla Kop, come nelle altre curve, c'è chi propaganda l'odio, il male, teorie devastanti. Estremisti".

Lei fu un cardine della riconciliazione fra Juventus e Liverpool.
"Quando andai alla Juve, nel 1987, i rapporti fra i due club migliorarono. I tifosi bianconeri mi accolsero comunque benissimo. Non ricordo alcuna allusione all'Heysel".

Heysel: forse sarebbe stato più corretto lasciarlo in piedi come monito imperituro.
"Forse. O forse basta ciò che abbiamo vissuto per non tornare al medioevo del pallone. La speranza di essere migliori, quella volta, costò tante vite".

Ma senza speranza, come recita l'inno del Liverpool, non si vive ("walk on with hope in your heart").
"È l'inno del genere umano, You'll never walk alone (scritta nel '45 da Rodgers & Hammerstein II, ndr), non del Liverpool".

di Enrico Sisti; la Repubblica

Ora si fa sul serio

Ivan Basso è in maglia rosa, il Giro d'Italia è nelle sue mani. Come un pugile che sa di essere più forte ma non ha fretta, freddo nel perseguimento dell’obbiettivo. Ivan il Terribile logora ai fianchi i suoi avversari con un ritmo impressionante sulle pendenze del Mortirolo, rischia qualcosa in discesa, ma poi in una sorta di cronometro dalle dolci pendenze verso l'Aprica, scortato da un altrettanto eccezionale Vincenzo Nibali, amplia il vantaggio in maniera decisiva. Fondamentale l'apporto del messinese, che 'salva' il capitano nella discesa più perfida, fa da pittore alle curve più difficili, poi gli dà una mano fondamentale nel riprendere margine quando Arroyo urla con rabbia il canto del cigno. Ciò non deve comunque far passare in secondo piano l'impresa di Michele Scarponi, insieme ai due Liquigas nelle fasi salienti e poi trionfante con merito sul traguardo.

"Sono felice, sicuramente è una giornata fantastica dopo i momenti difficili passati - spiega Basso dopo l'arrivo -. Sul Mortirolo potevo provare ad allungare, ma la strategia migliore era restare uniti con Nibali per migliorare anche la sua classifica. Inoltre abbiamo trovato un grande Scarponi che ci ha dato una mano importante. E' un grande momento, non penso al passato, ora massima concentrazione sulle ultime due tappe". Tappe non semplici. Sabato c'è il Gavia, la Cima Coppi, con la sua cornice di ghiaccio. Domenica poi Verona, crono di 15 km che dovrebbe comunque riguardare solo il secondo e tezo gradino del podio.

Basso riassume nella maniera migliore la tattica di squadra. La Liquigas è la più forte, lo dimostra nella parte pianeggiante con il lavoro di Agnoli e Kiserlovski, lo conferma nelle prime rampe del Mortirolo, quando Szmyd intossica i muscoli di Evans e compagni rendendo la corsa durissima. Onore delle armi comunque per David Arroyo. La sua corsa è un monumento all'intelligenza. Lo spagnolo non prova neanche a tenere il ritmo di Basso sul Mortirolo, non commette lo sbaglio di Evans, non si cuoce. E' abbastanza fresco quando si getta nella discesa dal Mortirolo con apparente incoscienza, riducendo il ritardo di oltre un minuto e riprendendosi la rosa virtuale.

Ai piedi della salita finale però Arroyo è sfortunato. Prima trova un Vinokourov poco disposto a dargli una mano, quindi incrocia gli spompati Sastre ed Evans, oltre a Gadret. Con gente che ha già dato tutto, difficile chiedere collaborazione: ad Arroyo non rimane che salire con le proprie forze, rabbioso per una rosa che sfuma ed alla quale - dichiarazioni di circostanza a parte - si stava proprio affezionando.

Riavvolgiamo il nastro di una tappa stupenda. Per i fuggitivi di giornata è la tappa meno indicata per andarsene. Lo capiscono bene i nove che fanno parte del drappello che attacca nella fase iniziale. Tutti all’avventura, forse un obbiettivo preciso per Rodriguez e Failli, punti di appoggio per Scarponi e Garzelli. Già, Garzelli. Dopo l'impresa di Plan de Corones cerca il bis eclatante andando per primo a riprendere gli attaccanti sul Mortirolo. Niente da fare però per il 37enne dell'Acqua&Sapone quando Basso impone il ritmo portando dietro di sè Nibali e Scarponi. Da qui alla fine, Basso e Nibali sembrano due innamorati. Basso potrebbe andarsene in salita ma aspetta sapientemente il compagno. Mai tattica fu più giusta, perchè Nibali, se non toglie, attenua i disagi di Basso. "Pensavamo a questa tappa da giorni - spiega Nibali -, abbiamo dato una grande dimostrazione di squadra. Sono contento per Ivan, ora è lui il più forte, ma penso che in futuro mi toglierò soddisfazioni al Giro". Poi la salita finale, con i tre davanti che volano. Primo Scarponi ("Arrivo sul Gavia con il mal di gambe, ma che soddisfazione"), secondo Basso, terzo Nibali. Stavolta all'Aprica Ivan non vince come 4 anni fa, ma alla stessa maniera suggella il suo trionfo.

di Luigi Panella, la Repubblica

Sei sempre la solita

Quando la Coppa dei Campioni era solo un ricordo (e anche un po’ un’ossessione) in bianco e nero, erano in molti a pensare che la stranezza dell’Inter dipendesse da quello. Che tutte le altre vittorie (scudetti, Coppe Italia, Supercoppe italiane, Coppa Uefa) per quanto ben gradite, non riuscivano a colmare quel vuoto ogni giorno sempre più grande e che impediva di godersela fino in fondo. La gioia dello scudetto del 2008 (arrivato quasi in extremis, con i due gol di Ibrahimovic a Parma) passò quasi subito in secondo piano, con l'esonero di Mancini nato dall'annuncio del suo addio dopo l'eliminazione in Champions da parte del Liverpool. E anche la vittoria del 2009 fu turbata dai dubbi di José Mourinho, pronto a restare in nerazzurro al 99,9%, poi diventato il 99,99 e infine 100 con l'arrivo di Samuel Eto'o e Sneijder e la partenza di Ibrahimovic.

La stagione appena conclusa è stata tra le più gloriose della storia dell'Inter. Vittoria in Coppa Italia, Campionato e Champions League, una tripletta mai realizzata da nessuna squadra italiana. E finalmente quel grande successo internazionale, la riconquista della coppa più prestigiosa del calcio internazionale per club, la trasformazione della grande Inter degli anni 60 da totem ineguagliabile a prima tappa di un lungo cammino. Ma nell'epoca del tempo reale, la società di Massimo Moratti non ha fatto in tempo a portare la Coppa in mezzo al prato del Bernabeu che già la gioia enorme, traboccante, incontenibile doveva fare i conti con gli addii, i dubbi, le paure. José Mourinho annunciava la sua partenza dall'Italia e proprio in queste ore sta litigando con la società per la clausola rescissoria. Diego Milito, l'uomo che in 17 giorni, con quattro gol aveva dato all'Inter le tre coppe e grazie all'Inter era entrato nella storia del calcio, festeggiava il trionfo annunciando al mondo di avere altre offerte. Un virgolettato di Wesley Sneijder (poi smentito) accennava a un possibile ritorno al Real Madrid, la squadra che l'estate scorsa - senza avvertirlo - non gli aveva più fatto trovare l'armadietto in spogliatoio.

Viene da pensare che l'Inter, pazza per definizione (e per inno ufficiale), una volta persa questa etichetta sul campo, dove si è trasformata in implacabile macchina da vittorie, sia affezionata a tale immagine di follia al punto da garantirsi altrove sempre qualcosa di razionalmente inspiegabile. D'altra parte, parliamo di una squadra che, in una delle notti che resterà per sempre nella leggenda del club (quella della semifinale d'andata vinta 3-1 sul Barcellona) si fece notare anche - e quasi soprattutto - per uno dei suoi giocatori di classe più pura, Mario Balotelli, che si mette a litigare con i tifosi, si toglie la maglia e la getta per terra in segno di disprezzo. Ad agosto l'Inter affronterà l'Atletico Madrid per la Supercoppa europea. A dicembre, a Dubai, ci sarà il Mondiale per club. Che cos'altro s'inventeranno, i nerazzurri per non godersi il momento che aspettavano da 45 anni?

di Tommaso Pellizzari; CORRIERE DELLA SERA

Potevi restare(?)

Era lo Special One e ora è solo lo Special Traitor, un traditore speciale. E se Mou ci avesse preso per i fondelli? E se dall’esperienza italiana avesse tratto il peggio dei nostri vizi per girarli a suo vantaggio? E se… Ci eravamo appena convinti che José Mourinho fosse un grande motivatore, un superbo stratega, un eccelso filosofo, un impareggiabile comunicatore e adesso siamo qui a condividere la delusione dei tifosi interisti per il tradimento consumato sul campo.

Non si era ancora spenta l’eco della fantastica vittoria al Bernabeu che già Mourinho faceva le valigie. I tifosi dell’Inter hanno atteso 45 anni per coronare il terzo sogno europeo ma, proprio nella notte del trionfo, hanno capito che qualcosa non girava per il verso giusto: dopo un bellissimo Triplete (Champions, Campionato e Coppa Italia), lo Special One ha deciso di non rinnovare il contratto con l’Inter. Le sirene del Real Madrid sono state troppo forti per lui. Ma com’è possibile? Cos’altro voleva?

Il fascino del calcio consiste anche nella sua dose di irrazionalità: in un mondo poco propenso all’immaginazione come il nostro, per molte persone il calcio resta l’ultima riserva di magia e di fantastico, di malie e di incantesimi, ingredienti che danno un sapore unico alle fiabe. Ora, proprio nel rigido protocollo delle fiabe, l’eroe non può tramutarsi in traditore, anzi. Quando la prova viene superata e l’eroe finalmente riconosciuto, dobbiamo per forza partecipare al suo trionfo e alla sua trasformazione (lo Special One della favola riceve il meritato premio per averci liberato da un incantesimo, assume un nuovo aspetto, diventa bellissimo, di solito sposa la figlia del re). Non solo: l’antagonista viene punito e maledetto per gli anni a venire. Dopo la vittoria contro il Bayern, Mou sale su un’auto del presidente del Real Madrid e solo un forte senso di colpa lo costringe a fermarsi e a raggiungere Marco Materazzi per abbandonarsi a un pianto liberatorio.

Il tema dell’eroe e del traditore (dell’eroe che è al contempo l’antagonista) appartiene invece alla più complessa letteratura della menzogna (come ci ha spiegato con maestria Giorgio Manganelli: una finzione totale qual è, nella sua ultima essenza, la letteratura); non ha più nulla da spartire con la favola del calcio. E il trauma sarà tanto più squassante quanto più intenso è stato il rapporto. Non c’è dubbio che Mou abbia fatto molto per l’Inter, soprattutto sul piano motivazionale. Ha saputo infondere ai giocatori un senso di superiorità nei confronti delle altre squadre, liberandoli simultaneamente da ogni complesso di inferiorità, specie nei confronti dei media.

Mentre Fiorentino Perez annuncia l’arrivo del nuovo allenatore, Mou sta mercanteggiando con l’Inter i 16 milioni della clausola rescissoria. Pare abbia chiesto un italianissimo sconto, se non l’annullamento del contratto, per meriti sportivi. Ma sta anche cercando di portarsi via Maicon, Milito e forse Sneijder. L’addio straziante a Materazzi si tramuta subito in una trattativa bottegaia. Succede sempre così. A delitto consumato, il traditore elencherà la lunga serie di motivazioni che lo hanno fatalmente spinto al voltafaccia, mentre il tradito (il tifoso) sottolineerà come la prova migliore della malafede del traditore sia il tradimento stesso.

Un grande tifoso del Real, il madridista Javier Marías ha scritto: «Esser appassionato di calcio non mi impedisce di rendermi conto del carattere malsano e perverso che affligge e governa questo mondo, il quale forse riflette meglio di ogni altro lo sventato spirito competitivo che domina sempre di più le nostre società». Società «civili» e società di calcio.

di Aldo Grasso; CORRIERE DELLA SERA

giovedì 27 maggio 2010

Ghe pensi mi

Berlusconi avrebbe vinto lo Scudetto, addirittura con 5-6 punti di vantaggio. Da colui che sconfiggerà persino il cancro c'è da aspettarselo, perché l'amore del Milan avrebbe trionfato sull'invidia e l'odio dell'Inter.
Caro Leo, ma come hai fatto a sopportarlo così a lungo?

martedì 25 maggio 2010

Il fenomenou

In due anni ha stupito, provocato, diviso, affascinato Non voleva aprire cicli, ma solo fare il suo lavoro: vincere, incassare e andare altrove Per l' Italia è una sorpresa. Il fast-fut. L' allenatore ricco, felice, che vince, e se ne va. Non ramifica il suo trono, non capitalizza gli interessi, niente Bot, meglio il rischio di una nuova impresa. L' Italiaè abituata alle poltrone: ti arrivi, ti siedi, resti. La conservazione, prima di tutto. Il vecchio e caro posto fisso. Chi te lo fa fare di cercare nuovi orizzonti? Molto meglio stare lì, a fare i generali del passato, a contare medaglie e battaglie. L' Italiaè abituata ad allenatori che disegnano cicli, tecnici dalla traiettoria lunga : Trap alla Juve, Ancelotti al Milan. Matrimoni all' italiana, dove cresci vita, sapienze, famiglie. Stabilità, non flessibilità. Mourinho invece parte, anche se gli è andata bene, soprattutto perché gli è andata bene. Lascia un' altra eredità, un diverso modo di fare. Forse non bello, non troppo educato, né complice. Ci tiene a ribadirlo: il suo calcio non è quello dei padri fondatori. Né gli interessa costruire mafie, alleanze, intrecci, avere di più, vuole provare qualcosa di diverso. Come quei ragazzi che pensano sempre che la vita sia altrove, nel continuo movimento, in un' eterna altra parte. In Italia si muovono gli scon fitti, non i vincitori. Chi perde deve trovare nuovi ingaggi, accontentarsi, chi trionfa invece in genere non cambia casa, anzi piazza meglio i mobili. Mou fa l' opposto: è soddisfatto e compiuto, per questo si muove. Il calcio è tradizionale, è portato a venerare i maestri che danno stabilità alle loro scuole, come Ferguson, al Manchester United da 24 anni, come Wenger all' Arsenal da 14. Mou va nella direzione opposta. Non è un educatore, anche se ha una sua moralità, vedi il caso Balotelli, non è né il padre buono né il fratello cattivo, esige rispetto e obbedienza come tutti i comandanti che ti mandano all' assalto di colline assassine, assedia il tempo, non ha bisogno di lunghi accerchiamenti. In questo è moderno, essenziale, ribelle. Non gli interessa fare il pediatra della squadra, seminare per poi raccogliere, preferisce gestire, indirizzare, modificare i talenti. Per oggi, non per domani. Ci sono pazienze che hanno fretta. Mou vuole ottenere il meglio, per vincere subito. Crede sia la pratica a fare gli uomini, non la lenta teoria. E' uno spremiagrumi, guarda al succo, non alla raccolta della frutta. E' responsabilità dello chef preparare buoni piatti, senza lamentarsi della qualità degli ingredienti. Sacchi è stato subito etichettato come rivoluzionario perché cercava di dare metodo ai suoi schemi, il talento non deve dipendere dall' umoralità, ma dall' automatismo, non solo, ma iniziò a diffidare di Gullit appena l' olandese cominciò ad andare in giro in pelliccia e fuoriserie. Credeva che l' imborghesimento fosse un avversario insormontabile. Mou è stato definito arrogante, provocatore, isterico. Forse è perché a 47 anni non è portato ai troni di legno. Tanto per far capire la mentalità italiana: il Milan parlava della necessità di svecchiare con Filippo Galli, che di anni ne ha anche lui 47. Per arrivare alla Juve Delneri ha dovuto aspettare i 60 anni e Ranieri è approdato alla Roma a 58. Difficile trovare tecnici che sappiano vincere in paesi diversi, ma qualcosa si muove: Capello, Hiddink, Mourinho. Lo stesso Van Gaal. Il calcio è conservatore, diffida di chiunque voglia provare altro, soprattutto della modernità. Abbina cicli a uomini e a squadre. Che bisogno c' è di fare diversamente? Mou allena con la tecnologia, usa motori moderni, lavora con schemi e programmi al computer, controlla le posizioni degli avversari. Più matematica che sensazioni. Non è il solo, ma in Italia chi vuole stare nel contemporaneo è sempre guardato con sospetto. Un po' come Phil Jackson, ex allenatore dei Chicago Bulls di Jordan, ora ai Los Angeles Lakers di Kobe, che nel basket ha sempre mischiato filosofa zen (e qui con Mou non ci siamo) e software da navigator per cercare di capire certi triangoli in area. Mou se ne va anche perché si sente estraneo. Tranquillo, non è il solo. Ed è visto un po' come traditore. Come, così ci ricompensi? Nelle aziende italiane chiunque cerchi altre avventure e responsabilità viene considerato come un immaturo, ingrato, irriconoscente, bisogna costruire, mattone dopo mattone, non cercare nuove case. Mou lascia. E questa sì è una lezione. Meglio il viaggio, alla terra.

di Emanuela Audisio; la Repubblica

Elogium

A lui, che ne ha visti passare tanti, piace. Senza se e senza ma. E lo descrive, giocando con le notizie (tante) sul filo dell'ironia e del confronto. In un ideale dialogo diretto. Breve ed esaustivo, "Elogio di Mourinho", di Mimmo Carratelli, racconta l'allenatore del momento. Dall'inizio in Portogallo al cammino trionfale nella Champions con l'Inter di Massimo Moratti.

Si scopre così che, decisivo, per il glorioso futuro di Mou, fu la perfetta giovanile conoscenza dell'inglese.

Accade quando sir Robert William Robson sbarca a Lisbona per allenare lo Sporting e ha assoluto bisogno di un interprete. E lì, pronto, compare un ventinovenne ambizioso e preparato: la sinergia è immediata tra "l'inglese dal naso rincagnato e i bei capelli bianchi, sessantuno anni, e il giovanotto di Setubal, l'interprete Josè Mario dos Santos Felix Mourinho". Così inizia tutto.

Nel libro, Carratelli si rivolge direttamente a Mou, pagina dopo pagina: "Parlate di calcio, il professore inglese e l'allievo portoghese. Passate al Porto per vincere seduta stante due campionati e una Coppa del Portogallo (...) ti porta al Barcellona, sir Bobby, vice allenatore suo e allenatore delle riserve catalane". Segue corollario di vittorie. Fino alla prima, ottenuta senza tutoraggio. Avviene, ricostruisce Carratelli, proprio "alla corte dell'olandese Louis Van Gaal, subentrato a Robson"; guarda gli incroci della vita, si tratta dell'attuale tecnico di quel Bayern Monaco che il 22 maggio Mou ha sconfitto regalando la terza storica Champions ai nerazzurri. "Van Gaal ti lancia affidandoti il Barcellona nella finale di Copa Catalunya contro il Matarò e tu porti a casa un successo rotondo, la tua prima firma sotto un trofeo".

E chi lo ferma più il giovane Mou, cresciuto alla scuola di santoni del calibro di Robson e Van Gaal? Fa bene ovunque vada. Ancora due passaggi - prima nel Benfica e poi nell'Uniao di Leiria - poi il trionfo. Si rivela al mondo del calcio internazionale costruendo il fenomeno-Porto che conduce alla Coppacampioni del 2004. Il resto è ormai noto: due titoli con il Chelsea che non vinceva da 48 anni e lo sbarco nell'Inter post-Roberto Mancini. Dove il portoghese, sin dall'inizio, non le manda a dire: "Il calcio italiano non è il più bello, è il più difficile. Avete trenta fuoriclasse. Il vostro calcio può essere migliore", risponde senza sconti ai cronisti poco abituati a tanta franchezza. Parole e vittorie. Polemiche e traguardi raggiunti. Mourinho è il "Mago" della panchina e in Italia ha l'impatto di un cliclone. E spacca, lacera, divide.

Non Carratelli, che gli dedica questo gustoso libro edito da Pironti e lo promuove senza impacci: "Grazie Mou, d'essere venuto in questa in questa valle di lacrime e di moviole a parlare senza peli sulla lingua, scorretto in un paese di falsi buonisti, purosangue in una nazione di asini di Buridano, sincero in una congrega di ipocriti, schietto in una penisola di voltagabbana". Niente da dire: il Mago Mourinho ci mancherà, eccome.

di Giovanni Marino; la Repubblica

lunedì 24 maggio 2010

Amore

Sergio Scariolo, allenatore del Khimki Mosca e tifoso dell'Inter: più la seconda, stavolta, visto il tour Mosca-Madrid-Mosca in meno di 24 ore, alla vigilia di una partita di play-off del campionato di basket russo. Ma si può?
"Si può. E l'ho fatta. Parlandone ai miei dirigenti, ovviamente, prima di prenotare il viaggio, e ricevendo un consenso, in base al principio che l'uomo è fatto anche di passioni. Non siamo solo lavoratori, o solo professionisti, c'è anche una sfera umana, e così, dopo una naturale raccomandazione ad usare tutte le precauzioni, sono potuto andare a godermi il trionfo della mia Inter".

Vuole raccontare, prego?
"Sabato mattina ultimo allenamento, alle 10. Alle 12.30 ho il Mosca-Parigi-Madrid, atterro alle 17.30 e lì mi aspettano per portarmi al Bernabeu. Ho un accordo con Radio Marca per il commento, confesso che mi esce una roba molto più emotiva che tecnica, al 90' schizzo fuori e un amico in moto, schivando il traffico, fila fino all'auto che mi conduce a Barajas. Il volo è alle 23.45, allo stadio sapevo che alla fine dei tempi regolamentari dovevo scappare, ci pensavo da tre giorni che, in caso di supplementari e rigori, non ce l'avrei fatta. Un grazie a Milito, allora, e via su Mosca, arrivo alle cinque italiane, sette locali, doccia in hotel, due ore di sonno, e su per la solita trafila del giorno di gara. Seduta di tiro mattutina, riposo, partita".

Vinta pure, dal suo Khimki, sull'Unics Kazan. Adesso ringrazi pure i ragazzi.
"Certo, già fatto. Tra l'altro, è stata pure una buona partita".
Se avesse perso, dopo tutto quello svolazzare, magari qualcuno la prendeva male.
"Non credo, ci eravamo parlati e accordati, e del resto il mio viaggio non aveva intaccato le abitudini della squadra. E a dormire massimo quattro ore, nelle notti durante i play-off, ci sono abituato da una vita. L'adrenalina fa miracoli".

Torniamo tifosi. La sua coppa l'ha alzata.
"Ed è stata una grande felicità. Io vivo di sport da molti anni, da professionista, ma col calcio mi sento solo un tifoso, autentico, come gli altri. Mancava, a noi interisti, la Champions. Adesso è un buco colmato".
Adesso rimetta la cravatta da professionista e dica: avrebbe fatto come Mou, salutando la compagnia?
"Sì, onestamente lo capisco. E' logico andare via, dopo aver vinto tutto e avendo altrove una sfida di quelle che mi pare avvincano l'uomo Mourinho. Uno che vive lo sport ai massimi livelli, non può non passare dal Real Madrid, il club più grande, famoso, importante e affascinante del mondo. Poi, accadrà spesso che ti chiedi perché l'hai fatto, ma devi andarci".

Lei l'ha allenato, il Real di basket, poi è finita, anche ammaccati. E' tra quelli che si sono detti: perché l'ho fatto?
"Dopo, no: lo ritieni giusto, in ogni caso. Durante sì. E' durissima. E nel calcio di più. Credo che il Real sia il club che, in tutto il mondo, tiene più l'allenatore sulla graticola. E' un rodeo. Ogni giorno può sbalzarti di sella, la sfida è quotidiana. Ma Mourinho può vincerla, ne ha personalità e carattere. E anche in Italia, con tutti contro, ha fatto un bel rodaggio".

A pressione, meglio l'Italia o la Spagna, che lei ben conosce, anche come ct della nazionale di basket?
"E' meglio la Spagna se uno finisce a Malaga, Valencia, Siviglia. E' il Real il caso a parte. Specie adesso, in pieno dominio del Barcellona. Hai contro mezza stampa del paese, quella catalana, che fa il suo mestiere, e pure tanta madrilena, perché le aspettative sono enormi e le critiche conseguenti. Ettore Messina a Madrid ha avuto vita difficile, ed il basket è molto meno del calcio. Per dire, anche su Mou non c'è un parere unanime. Non è un segreto che molti tifosi madridisti avrebbero tenuto Pellegrini e con loro anche pezzi consistenti e influenti del club. Non è che quello arriva e gli stendono il tappeto rosso. Non tutti, almeno".

S'imbandieri di nuovo di nerazzurro. Lo Special One ha tagliato l'angolo, l'Inter a chi la diamo?
"Scelta difficile. La società avrà una responsabilità pesante, quella di restare unita, compatta, perché l'anno dopo i trionfi è durissimo, e questo farà pure fiorire i paragoni con uno che è probabilmente un fuoriclasse ineguagliabile. A me non spiace Mihajlovic, non giudico il tecnico, ma l'uomo mi pare abbia personalità. Insomma, palle. Però forse serve qualcosa di più e l'ha detto lo stesso Mourinho, indicandolo a Moratti. Serve un grande allenatore. Uno fatto e finito, aggiungo io. Un grande nome".

Ci penserà Moratti, lei ora potrà andarsene a dormire.
"Macché, vinta gara 1, sono stato su anche stanotte, perché qui in Russia ai play-off si gioca ogni 24 ore e oggi facciamo gara 2. Ma chi se ne importa se non si dorme più, di adrenalina ne ho ancora scorte di litri".

di Valter Fuochi; la Repubblica

Grazie ancora

Dopo i ringraziamenti alla squadra, all'allenatore, alla società, e noi stessi, non posso dimenticare di salutare Ibra con una bella pernacchia.

Per sempre

Diritto di cronaca

Van Gaal, fai schifo per quanto sei bugiardo, ipocrita e antisportivo.

Adiòs

Josè Mourinho si è fatto dare il pallone del match, lo conserverà come il più caro dei ricordi di quella che lui stesso ha definito "la partita più importante della sua vita". A quanto pare a partire da stanotte la vita sua e quella di molti altri cambierà - anche questa l'aveva detta lui alla vigilia - a quanto pare ha davvero il coraggio di lasciare una creatura che è assolutamente sua, che lui ha inventato, ha cresciuto, ha perfezionato. E del resto non è certo il coraggio, che manca all'allenatore che ha vinto già con due squadre diverse, il Porto prima e l'Inter stasera. Vuole farlo con tre e il Real Madrid fa al caso suo. Con uno così mai sorprendersi troppo. Difficile calarsi nella mente di un uomo del genere, e soprattutto durante una notte del genere: gli stimoli e i pensieri suoi non sono quelli degli altri, il ragionamento che facciamo noi non può essere lo stesso di uno così imprevedibile, spesso insopportabile, ma altrettanto geniale.

Forse quello che Mou recita è un magistrale copione, una strategia, forse con il Real non è tutto fatto al 100%, come sostiene lui stesso e come invece dicono qui a Madrid, ma la sensazione, in questo momento, è che la vittoria abbia proprio chiuso il breve e trionfale ciclo di Mourinho all'Inter. Evidentemente non ha più nulla da chiedere al club di Moratti, una volta riportatolo sul trono d'Europa dopo 45 anni di attesa, e come tutti quelli che amano la perfezione, vogliono andarsene sul più bello. Proprio per lasciare un ricordo eccezionale, insuperabile, unico, irripetibile. Certo deve essere dura lasciare una squadra con cui potrebbe vincere molto altro ancora, proprio come fece la Grande Inter degli anni 60, ma Mou è capace di scelte clamorose. Anzi, vive di colpi di scena. Anche Milito, il grande protagonista della notte spagnola e della stagione dell'Inter, ha detto che non è sicuro di restare: l'Inter che in una notte torna campione d'Europa, perde il suo allenatore, e rischia di perdere il suo centravanti. Difficile da credere, ma bisogna farlo, e da raccontare.

La festa di Madrid è stata totale, ma più la notte avanzava e più c'era sbigottimento, incredulità, quasi una vena di malinconia. Il futuro di Mourinho è evidentemente in Spagna, lo si è intuito subito dalle parole di Moratti: "Stasera ho visto Mourinho piangere, non vorrei fosse il senso di colpa". E lui poi ha aggiunto: "Voglio essere l'unico allenatore che vince la Champions con tre squadre diverse. E' più probabile che vada via, piuttosto che rimanga". E ancora: "Io quando vinco non mi fermo, e qui ho vinto tutto: ho vinto la Champions con due club, posso farlo con tre". Del resto lo sapevamo è con l'Italia e in particolare col calcio italiano che il rapporto non funziona: "Tante cose non mi sono piaciute, da tre o quattro mesi penso di andare via".

L'Inter della notte magica di Madrid è una splendida follia nelle mani di un attore geniale. Non difficile, quasi impossibile da raccontare. La gente impazzisce di gioie e corre felice verso l'aeroporto per tornare a festeggiare a Milano. Al domani ci si penserà.

di Fabrizio Bocca; la Repubblica

Diego Alberto

Mou, certo, ma soprattutto Milito. Meraviglia, forse mito, ma non mistero perché tutto vero. L'iniziale dell'Inter è la lettera emme, quella del suo favoloso Principe che ha sfarinato con la sua doppietta il Bayern e ha dimostrato che la differenza, sempre, la fanno i fuoriclasse. Diego Milito, l'argentino con la faccia triste e le occhiaie, il campione arrivato abbastanza tardi alla gloria (ha già passato i trenta) e ora assolutamente completo, indispensabile non solo all'Inter ma anche alla nazionale argentina, ammesso che Maradona se ne accorga (ad un certo punto, pareva che neppure lo portasse in Sudafrica).

L'Inter, giustamente favorita, non ha mai corso il rischio di non vincere la sua storica Coppa, 45 anni dopo Herrera e Corso, Angelo Moratti e Jair. Anche nei momenti d'attesa (una finale ne ha sempre), i nerazzurri hanno governato se stessi e la partita, e poi hanno infierito con le prodezze morbide e crudeli di Milito. La prima, quasi una carezza sotto il pallone, un mezzo cucchiaio sull'uscita del portiere; la seconda, uno slalom che ha fatto impazzire la difesa tedesca, concluso con un tocco aggirante da fuoriclasse assoluto.

Inter superiore in tutto, nella fase difensiva dopo l'uno a zero, all'inizio della ripresa che ha proposto qualche logica sofferenza (nulla di esagerato, però) e nel momento dell'attacco, gestito con le sponde di Sneijder (suo l'assist, nella triangolazione del vantaggio) e Eto'o, che ha innescato l'azione del raddoppio. La padronanza nerazzurra di ogni zona del campo e di quasi ogni momento della gara si è formata, come sempre accade, a centrocampo: lì è stata scavata una differenza abissale.

Mai nessuna squadra, nella storia del calcio italiano, era riuscita a realizzare la tripletta: scudetto, Coppa Italia e soprattutto Coppa dei Campioni. Per riuscirci, l'Inter del secondo anno di Mourinho ha addirittura cambiato cinque titolari su undici, operazione che poteva scombinarne l'assetto e richiedere tempi lunghi di rodaggio. Invece il capolavoro di Mourinho è stato creare un'Inter nuova molto più forte di quella vecchia, quella di Ibrahimovic, che non era certo scarsa ma assai meno compatta, non fondata sul mutuo soccorso ma sui lampi estemporanei.

Ora, rimane da sciogliere il dubbio sul futuro di Mourinho, anche se tutti sono convinti che il portoghese abbia già scelto il Real Madrid. A chi resta, l'impegno di proseguire il ciclo italiano ed europeo di una squadra più che forte, formidabile.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

Bayern Monaco-INTER 0-2

CAMPIONI D'EUROPA!!!
TRIPLETE!!
GRAZIE!

venerdì 21 maggio 2010

L'antivigilia

Ci siamo. Niente va più. Ecco il penultimo pranzo prima della finale, ecco nel pomeriggio l'ultimo allenamento a Valdebebas, il centro sportivo del Real Madrid. A sera l'ultima cena prima dell'evento, le chiacchiere in ritiro e le ore che corrono lente, la storia che si avvicina, la notte che deve passare. Vigilia di Bayern-Inter. E' la cinquantasettesima partita ufficiale dei nerazzurri in questa stagione, ed è la più importante. Trentotto anni dopo, l'Inter è in finale di Champions: nel 1972 finì 2-0 per l'Ajax a Rotterdam, ma erano i lanceri inumani di Cruijff. Quarantacinque anni dopo l'ultima vittoria (1-0 sul Benfica a Milano, rete di Jair nella tempesta), la Beneamata potrebbe tornare ad abbrancare le grandi orecchie della coppa più prestigiosa che ci sia. E Massimo Moratti, coronando un sogno che dura da qualche decennio, potrebbe eguagliare il padre Angelo.

Che pressione, ma che soddisfazione. E' la quarta finale nella storia dell'Inter: le prime due vinte (3-1 sul Real nel 1964, poi l'1-0 sul Benfica), le altre due perse: Celtic-Inter 2-1 nel 1967, poi la lezione dell'Ajax cinque anni dopo. L'Inter è arrivata qui eliminando grandi avversarie come Chelsea e Barcellona (oltre al Cska Mosca), ogni volta qualificandosi giocando il ritorno in trasferta. E' qui perché ha giocato con un'intensità eccezionale nelle gare decisive, perché ha giocatori universali come Eto'o, Sneijder e Milito che sono stati la marcia in più, perché intorno a Lucio e Samuel si è arroccato il reparto difensivo più coriaceo d'Europa. Sono soltanto due, nell'Inter, i giocatori che hanno già disputato una finale di Champions: Eto'o, che ha giocato e vinto (segnando in entrambe le occasioni) le finali del 2006 e del 2009 col Barcellona, e Lucio, che ha giocato e perso (ma segnando un gol) la finale tra Real e Bayer Leverkusen nel 2002. L'altro reduce da una finale, Thiago Motta (col Barcellona nel 2006), è squalificato.

L'Inter è leggermente favorita, perché a livello individuale ha giocatori più decisivi di quelli del Bayern (Mou ha ancora un solo dubbio, quello tra Pandev e Balotelli), ma lo stratega Van Gaal può complicare i piani di chiunque. Persino di Josè Mourinho, che pure ha condotto per mano l'Inter a una finale che un anno fa sembrava impensabile: l'uomo di Setubal ha cambiato la testa e il cuore di un intero gruppo di giocatori, ed è questo il suo merito principale, oltre a quello di essere arrivato fin qui anche con qualche aiuto della buona sorte, ma si sa che la fortuna è necessaria. Sarà anche l'ultima partita di Josè Mourinho sulla panchina dell'Inter, ormai si è capito, ormai lo sanno tutti. Entro martedì ci sarà l'annuncio ufficiale del suo passaggio al Real Madrid, ci sarà un contratto triennale da molti milioni di euro (almeno 12) e Mou dirà addio all'Italia, senza rimpianti, se non quelli di lasciare un vuoto enorme nell'Inter. Prima, però, vorrebbe regalare al club il successo cui tutti tengono tantissimo.

Madrid annega nel sole, il cielo è di un azzurro limpido che fa bene al cuore, l'aria è calda e secca e la gente affolla i marciapiedi, le piazze, i bar e i ristoranti all'aperto. E' una città meravigliosa, come meraviglioso e rigonfio di gloria è il vecchio Bernabeu, teatro della finale. Sarà una grande partita. L'Inter spera che vinca il migliore.

di Andrea Sorrentino; la Repubblica

Manca poco...

San Josè

In ordine alla causa di beatificazione di Josè Mario dos Santos Felix Mourinho per gli amici Mou, ecco i dati raccolti a favore e contro. Biografia. Josè dos Santos Mourinho nasce a Setubal in Portogallo, e ha un'infanzia felice ma turbolenta. In lui si manifesta subito lo spirito anticonformista che lo accompagnerà tutta la vita. Acinque anni ha già la barba e gioca a pallone solo contro al muro, mandandosi a fanculo quando sbaglia. I suoi libri preferiti sono le satire di Manuel Maria Barbosa du Bocage, poeta portoghese romantico e ribelle, e la "Ciencia della provocaciòn futbolistica" di Pablo Cabrones, leggendario allenatore di calcio dal pessimo carattere che dopo aver picchiato una ventina di arbitri e cambiato centoquindici squadre sparì nel Mato Grosso. Il padre di Josè è portiere della squadra del Victoria Setubal, e Josè ama andare negli spogliatoi e a bordo campo, annotando sul suo famoso taccuino tutto ciò che vede. Dopo una partita, vedendo un presidente di calcio che regala dei Rolex ai guardalinee, ha l'intuizione che lo renderà famoso. Il calcio non si gioca solo con i piedi, ma anche con l'astuzia e la dialettica. Prova a diventare calciatore, ma nonè il suo sport. Mentre si gioca annota la posizione degli avversari in campo, manda a fanculo il suo marcatore dicendo di non stargli così vicino, e fa turbolente discussioni col pubblico. Il risultato è che tocca il pallone tre volte a partita. Diventa professore di educazione fisica. Ma anche in questo lavoro il suo carattere è troppo fiero ed esigente. I genitori non accettano il fatto che venga a prendere i loro figli alle tre di mattina per andare a far footing nella neve. Entra nel calcio allenando le squadre giovanili del Victoria Setubal. Si capisce subito che ha della stoffa. In un incontro di allenamento, la sua squadra pulcini, formata da ragazzini di otto anni, inchioda sul pareggio la nazionale spagnola. Gli spagnoli si lamentano per il gioco duro dei bambini e le numerose testate nelle palle ma Mourinho li manda a quel paese. Ed ecco che incontra uno dei tre uomini fondamentali della sua carriera: l'allenatore Bobby Robson. Bobby, burbero e generoso, sarà per lui un grande maestro. All'inizio Mourinho gli fa da vice e da traduttore. Mourinho non ama l'inglese e Bobby non conosce il portoghese: il fatto che si parlino a gesti evita litigi e allena la famosa mimica mourinica. Poi Josè allena il Benfica, il Porto e infine conosce il secondo uomo fondamentale per la sua carriera. Il miliardario russo Abramovich. Abramovich lo convoca sul suo yacht di centoventi metri con timone di platino e salvagenti di Armani. Gli offre di allenare il Chelsea. Compra quintali di giocatori ma Mourinho non lega molto con lui. Josè è raffinato e non sopporta che Abramovich parli sempre con del caviale in bocca. A questo punto Josè conosce il terzo uomo del destino, Massimo Moratti. Moratti lo riceve sul suo maxi-gommone Pirelli con volante leopardato e gli offre l'Inter. Moratti è distinto, non parla col caviale in bocca anche se sembra che ce l'abbia, edè un vero appassionato di calcio. Gli compra fior di giocatori. Il resto è storia recente.

Cosa dicono i nemici
Mourinho dice che da noi non si sente a casa, ma in realtà ha imparato perfettamente lo stile italiano. Ha capito che se dice una cosa ironica o intelligente nessuno lo considera, ma se spara una perfidia o un'insinuazione tutti impazziscono. Pur essendo diverso dei berciatori nostrani, è sempre incazzato e con il broncio. È paterno ma spietato con i giocatori. Ha lasciato fuori Balotelli perché non tornava indietro a marcare il suo uomo. Balotelli ha cercato di giustificarsi dicendo che non poteva marcarlo in quanto in quel momento era in una discoteca a trenta chilometri dallo stadio. Altro difetto: Josè denuncia complotti dappertutto. Ma a differenza del nano milanista, non smentisce subito dopo.

Cosa dicono gli amici
Mourinho ha senso dell'ironia, e si diverte. Spesso dice la prima cosa che gli passa in testa, ma sempre meglio di Calderoli. Talvolta è presuntuoso, ma un centesimo di Lippi. Il suoi italo- portoghese è spesso sommario, ma è lingua dantesca in confronto a Gasparri. Ce l'ha con gli arbitri ma non ha mai pronunciato l'ipocritissima frase «gli arbitri sono sempre in buonafede». Mourinho ha causato un movimento di estimatori e contro-estimatori, i muisti e gli antimuisti. Le donne lo trovano irresistibile, un incrocio tra un romantico hidalgo e un pistolero da spaghetti-western. Gli uomini gli invidiano lo stile e lo stipendio. Gli antimuisti invece lo beccano qualsiasi cosa faccia. Su Internet ha un Facebook con trecentomila iscritti e un grande sito «Io odio Mourinho».

Come finirà (sette ipotesi)
Uno. Mourinho e l'Inter vinceranno la coppa. Mourinho verrà fatto santo e una sua statua in rame dorato verrà issata vicino alla Madonnina del Duomo, con gran rabbia di Silvio che aveva già appaltato ad Anemone la ristrutturazione delle guglie. Per rafforzare la squadra Mou chiederà Messi, Drogba, Tyson e i trecento migliori giovani giocatori africani perché bisogna pensare un po' al vivaio. Come direttore tecnico, farà tornare Paolo Cabrones.

Due. Mourinho perderò la coppa. Verrà processato e tutti i giornalisti diranno che non è affatto speciale come dice di essere. Chiederà di rafforzare la squadra e Moratti gli comprerà tre juniores maltesi, e un asso brasiliano dal nome di Tarcisinho, che a un più attento esame risulterà Burgnich riciclato. Come direttore tecnico, gli verrà affiancato Moggi. Josè dovrà farsi la barba ogni giorno con una crema al pistacchioe verrà costretto a vivere in un condominio tutto abitato da guardalinee.

Tre. Sia che vinca sia che perda, Mourinho andrà al Real Madrid. Una volta arrivato a Madrid gli diranno che però il Real ha un nuovo proprietario, un uomo misterioso che è arrivato nella notte e ha comprato la squadra in contanti. Mourinho si accorgerà con terrore che il compratoreè Moratti,e che non si libererà mai più di lui.

Quattro. Mourinho riceverà un'offerta-ricatto da Berlusconi. Se non accetterà di andare al Milan tutte le tivù e i giornali di Silvio prepareranno dossier su di lui. Il diabolico Mourinho accetterà e inventerà il "party training". Dopo ogni allenamento, sei volte alla settimana, sarà obbligatoria una cena con trippa e bomboloni, poi discoteca, veline e strip integrale di Galliani. Berlusconi comincerà a avere sospetti di sabotaggio solo quando vedrà in calendario Milan-Solbiatese.

Cinque. Mourinho fuggirà nel Mato Grosso dove incontrerà nuovamente il suo idolo Paolo Cabrones.

Sei anni dopo, la squadra del Manaos Cannibals vincerà la Coppa dei Campioni. Questo grazie a una tattica segreta. I Manaos giocano col modulo 1-4-3-3. Gli avversari finiscono sempre col 1-3-2. Cinque spariscono misteriosamente Sei. Mourinho diventerà presidente del Portogallo e farà Cassano ministro alla Cultura. Sempre meglio di Bondi.

Sette. Mourinho farà di testa sua, come ha sempre fatto. Quindi auguri di cuore a lui e all'Inter, con tutta l'invidia di uno che, ahimè, è tifoso del Bologna.

di Stefano Benni; la Repubblica

martedì 18 maggio 2010

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Ho trovato su Corriere dello Sport.it, dopo le recenti dichiarazioni di Balotelli sul celeberrimo calcione del Pupone, un commento micidiale e fenomenale:
"Totti ha avuto quella reazione perché gli era rimasta la porchetta sullo stomaco e faceva acidità".

Coerenza di uno juventino rimbambito

"Con Totti ho avuto sempre un rapporto molto bello. Sappiamo tutti delle difficoltà di Totti, ribadite anche dal suo allenatore, a giocare una partita ogni tre giorni. Balotelli? Non parlo di giocatori che non sono qua".
Marcello Lippi

Scusa, ma Totti dov'è, invece?

Don Josè

È a noi che Josè Mourinho deve quella preziosa lacrima che finalmente lo consegna alla normalità. Eva bene che l'Italia, dove «non si sente a casa», gli deve la scoperta che anche un allenatore di calcio può permettersi l'ironia dinoccolata di Yves Montand e la profondità triste di Albert Camus. Ma forse dall'Italia, che fortissimamente lo vuole in casa, dal Paese del batticuoree del turbamento, Mourinho ha imparato che anche la lacrima è dignità. Forse siamo noi ad avergli insegnato che qualche volta l'incontinenza delle emozioni è la vera prova di carattere dell'uomo di carattere. È infatti diventata bellissima quella sua faccia che cercava il distacco e trovava la passione: la faccia di un uomo che, abituato a prendere le cose di faccia, voleva negarsi alle lacrime e non ci riusciva. E inutilmente cercava la freddezza, la compostezza e la calma mentre scopriva che l'emozione ha le sue leggi biologiche e si può piangere in privato o in pubblico, al balcone o con la testa sotto il cuscino, trattenendosi e gonfiandosi o abbandonandosi ai singhiozzi, ma ci sono momenti in cui bisogna piangere, perché anche il pianto è verità. Mourinho è dunque diventato italiano grazie alla fragilità e alla presunzione di una lacrima? Spavaldo e intelligente, abituato alle iperboli, ha riempito gli archivi di battute taglienti e di sorrisi sprezzanti, di sarcasmo e di dileggi, senza mai abbandonarsi però all'insulto e al turpiloquio. Ma se e vero che si è concesso una sola ingenuissima parolaccia («pirla») è anche vero che gli scatti malandrini spesso lo hanno reso antipatico, si è impicciato di tutto, ha biasimato ogni volta che ha potuto l'antropologia del paese che lo ospita e lo divizza, anche se lo ha fatto con la solidarietà di tutti quegli italiani che ogni giorno combattono contro la loro Italia. Quanti sono gli italiani che ripeterebbero la terribile frase di Mourinho, «qui non mi sento a casa»? E ha coltivato un legame di complicità, fatto di fastidio e di supponenza, con il complesso di superiorità di una certa Milano, una complicità basata ormai sullo humus e non più sulla ragione, una complicità calda che Josè Mourinho piange? Forse vorrebbe farlo, ma riesce a trattenersi in qualche modo. Lo seguiamo passo passo nel suo giro di campo: mai visto così in difficoltà, l'uomo di ghiaccio, così felice e così tormentato al tempo stesso. Si può abbandonare tanto amore? E a Madrid, oltre all'ambizione ricompensata, cosa ci sarà? L'uomo riflette, e soffre. Passi sempre più lenti, poi occhi sul prato, le tempie che pulsano. Ci facciamo avanti: Josè, ma allora ci lasci? «Non so, non so. Adesso non riesco a pensarci. Devo farlo più in là. Ciao, ci vediamo a Madrid», e il momento è davvero particolare, e la giornata davvero storica, perché ti molla una carezza uscendo dal campo. Più tardi racconterà il suo tumulto: «Ora non ho tempo per Muorinho trasforma sempre in battute fredde: contro Sconcerti, il giornalista con il quale non andrà mai a cena; contro Lo Monaco il quale spera -povero sconosciuto- che Mourinho si occupi di lui per diventare famoso; contro Ranieri al quale ha contrapposto Jean Paul Sartre; e ovviamente contro la Roma, presunta corruttrice... Ed è stato severissimo con il suo giovane pensare a me stesso, al mio futuro: bisogna preparare la finale di Madrid. Solo dopo avrò qualche giorno per pensare e lì prenderò le mie decisioni, che non dipenderanno certo dall'esito della finale. Devo pensare alle tante cose positive che ho vissuto con l'Inter e a quelle negative del calcio italiano. Devo capire cosa mi farà più felice dal punto di vista professionale. Sono valutazioni importanti. Ma è falso che sono già con un piede e mezzo a Madrid, anzi sono lontanissimo dall'essere l'allenatore del Real». Però l'Italia gli pesa e lo ammette: «Spesso non mi sono sentito a casa, non nel mio habitat naturale, sono stato a disagio, non nel posto adatto per essere felice e lavorare felice. Dentro l'Inter però sto benissimo, io sono un pezzo di questo club e il club è una parte di me, proprio come accadde al Porto e al Chelsea. È fuori che ci sono stati problemi. Parlavo, e mi squalificavano. Ho rischiato di non esserci neanche a Siena, e per una battuta sui soldi del Siena che hanno fatto tutti. Eravamo in vantaggio di 11 punti e la cosa non piaceva a nessuno, ai giornalisti, alle tv. Allora avete deciso di fare qualcosa tutti assieme: un po' di prostituzione intellettuale, la Roma fuori dall'Uefa ed è iniziata la rimonta, mentre noi in Champions affrontavamo squadre come Chelseae Barcellona e tutti erano contro di noi, compresa la Juve che è venuta a Milano per farci perdere lo scudoppio, quel Balotelli che, da pessimo italiano, crede che la maleducazione sia la virtù del ribelle, cattivo esempio di un bullismo che si atteggia a genialità, come Cassano e come Totti: anche se ciascuno a suo modo i campioni d'Italia sono sempre pronti all'innocente mascalzonata. In questa Italia di bulli e di padroni, di comandanti e di duci ma non di leader, Mourinho è straniero anche perché è la leadership che governa, guida e dirige -e vince- con una supremazia riconosciuta innanzitutto dai suoi uomini che difende anche quando hanno torto, condottiero e stratega nel Paese delle crisi di consenso. E vuole sempre scalare l'Olimpo ed è napoleonico ma a viso aperto e con una sorprendente girandola di battute sapide e non programmate, da anarchico metodologico, come sono soltanto gli italiani migliori. E facendo spallucce a tutto ciò che non si incontra con il suo detto... Il momento più difficile è stato dopo Fiorentina-Inter: non eravamo più padroni del nostro destino. Poi la Samp ha tolto i punti decisivi alla Roma e siamo tornati su. Comunque complimenti alla Roma, umore, ogni tanto Mourinho trova pure la battuta staordinaria, un vero capolavoro nel paese degli aforismi. Così, una frase nata dall'oscuro biasimo di un allenatore di calcio è diventata intelligenza critica, ha conquistato ed abbagliato, entrando di diritto in quell'elenco di frasette, battutine, libretti e canzoncine che racchiudono un'epoca come, per esempio, la battuta di Paolo Villaggio sulla corazzata Potemkin «cagata pazzesca». Allo stesso modo è una piccola frase di Mourinho che rivela il nostro tempo, non solo calcistico, una frase che opprimee illumina non la Roma e non solo il calcio ma, dalla politica alla cultura alla morale, l'intera Italia «zero tituli». Non è insomma possibile che Mourinho abbia vinto una coppa, due scudetti e milioni di animi, e magari riesca a vincere la Champions League europea, contro gli italiani che lo rendono infelice. Il primo piano di quegli occhi rossi e gonfi ce lo rivelano e ce lo consegnano. Se all'Italia così prodiga di lacrime qualsiasi e cosi traboccante di sceneggiate Mourinho ha insegnato la spietatezza asciutta del campione, dall'Italia ha imparato la civiltà del pianto.

di Francesco Merlo; la Repubblica

lunedì 17 maggio 2010

Sono 18

Pentacampioni! Suona bene, mi piace. All’ultimo respiro, stavolta: c’è più gusto. Cinque scudetti di fila, da 75 anni, non li vinceva nessuno. In totale sono diciotto. Uno più del Milan, e non possiamo dire che la cosa ci addolori. Qualcuno ora dice: eravate più simpatici prima! Ovvio, ma è una qualità cui rinunciamo volentieri. C’è una simpatia che scivola nella compassione; e noi l’abbiamo rischiata, anni fa. Così esiste un’antipatia che confina con l’arroganza. E quella dobbiamo evitarla, è lo stile di qualcun altro.

Esiste una fisiologia e una patologia dei sentimenti. L’Inter ha già ottenuto una rarissima doppietta - campionato e Coppa Italia - contro una fantastica Roma, senza la quale sarebbe stata una stagione da sbadigli. E sappiamo che sabato sera siamo di nuovo tutti impegnati. Com’è possibile che la nostra gioia non susciti un po’ d’invidia, e l’invidia cerchi le sue giustificazioni? José Mourinho, per esempio? Sarebbe lui il generatore d’antipatia? Ma quando mai! L'avete visto ieri a Siena? Commosso e con gli occhi lucidi. Va be', dopo un’ora ha trovato il modo di ricordare che gli avversari, una volta ancora, vanno in vacanza con «zero tituli». Ma che ci volete fare? Il Comandante Mou è un timido-aggressivo, come lo fu Mancini in nerazzurro. Ma, a differenza di Mancini, Mourinho è diretto: se deve dire una cosa, la dice. Ranieri è meglio? È come dire che Hugh Grant è meglio di Russell Crowe: bravi tutt’e due, ma interpretano personaggi diversi. O invece sono i giocatori dell’Inter a risultare antipatici?

Alcuni li conosco, altri me li sono studiati. A me sembrano ragazzi a posto e atleti ammirevoli. Ieri hanno avuto paura (tutti meno Balotelli, che non teme neanche il demonio): il Siena ci ha messo una grinta che il Chievo s’è ben guardato dall’esibire (dico, ma l’avete visto Rosi?). Poi, quando l’ansia stava arrivando al livello di guardia, capitan Zanetti s’è infilato in area e ha messo la palla magica sul piede del principe Milito. Altro che arroganza: i due sono monumenti internazionali all’umiltà e alla serietà. Insieme a Cambiasso, quello che Masomaradona non porta in Sudafrica.

Oppure è Moratti che non si fa amare? Ma se gliene hanno dette e fatte di tutti i colori, per anni! L’uomo che non sa di calcio, il miliardario pollo e spendaccione, il membro poco furbo della famiglia, e via carogneggiando. Dal ’95 al 2005 ha imparato il mestiere, mentre intorno a lui trafficavano in modo indegno. Da cinque anni vince, con una programmazione che andrebbe studiata nelle Università: insieme a Branca e Oriali ha scovato Maicon e Julio Cesar, ripescato Cambiasso e Sneijder, resuscitato Samuel e Lucio, cresciuto Balotelli, valorizzato Milito, Thiago Motta ed Eto’o. Sarebbe questo, il ricco incompetente? Ho capito: siamo noi interisti a essere antipatici. Perché, da qualche anno, vinciamo? Se fosse così, ditecelo subito. Siamo disposti a continuare, antipaticamente, così.

PS: la chiamate antipatia. Ma non è, piuttosto, invidia?

di Beppe Severgnini; IL CORRIERE DELLA SERA

giovedì 13 maggio 2010

AAA

10 fortunati potranno ancora ottenere (gratis!) dei biglietti per la finale di Madrid, ecco i requisiti:

- i candidati dovranno presentare documento di identità, certificato di negatività Hiv, licenza di pesca alla trota in acque libera, tessera Fidaty Esselunga con almeno 2.500 punti (non verrà accettata cessione di punti nemmeno tra parenti), figurina originale Panini del giocatore Piraccini Adriano stagione 1987/1988;

- i candidati dovranno esibirsi sul piazzale della banca in almeno 15 (quindici) palleggi consecutivi con pallone SuperTele fornito e autenticato da funzionari BPM;

- obbligo di registrazione preventiva del socio acquirente nel data base del programma on-line ccic.inter.it, ad esclusione delle tessere sottoscritte presso il 'Winterstore' di Milano, presso il desk informazioni del CCIC a 'Expo Levante' di Bari, presso lo sportello gruppi di Gardaland e presso il motel K di Casei Gerola;

- obbligo di certificazione medico-sportiva per pratica agonistica (la spirometria, a richiesta, si effettua in via Massaua angolo via Bezzi, in un apposito gazebo);

- non saranno ammessi candidati ermafroditi (il test del sesso, a richiesta, si effettua in via Massaua, angolo via Bezzi, in un apposito gazebo);

- non saranno ammessi candidati con brufoli;

- non saranno ammessi candidati con parenti di primo grado non interisti (la dichiarazione giurata di tutti i membri della famiglia, corredata da fototessera e fotocopia di un documento di identità, va fatta autenticare da un notaio entro e non oltre il giorno 14 alle ore 18)

- non saranno ammessi candidati con auto concorrenti della Volvo;

- non saranno ammessi candidati con gomme concorrenti della Pirelli;

- non saranno ammessi candidati più alti di metri 1,90 e più bassi di metri 1,50;

- non saranno ammessi candidati che non abbiamo almeno un amico o un cugino iscritto in un Inter club da almeno 5 anni (la dichiarazione del presidente del club interessato, autenticata da un giudice di pace o da uno sciamano, va allegata alla domanda);

- non saranno ammessi candidati più eleganti di Oriali;

- non saranno ammessi candidati biondi;

- non saranno ammessi candidati.

PS: Mi complimento solennemente con l'anonimo che ha ideato questo irriverente concorso, ma mando volentieri a cagare chi si è occupato della distribuzione dei tagliandi.

mercoledì 12 maggio 2010

Assurda perplessità

Caro Marcello, non mi soffermo a criticare tutte le tue scelte, ma solo una: perché non hai (mai) convocato Thiago Motta?
Se fossi al tuo posto, non saprei come rispondere.

Humanitas

Ieri ho avuto modo di vedere (su Sky Sport24, per completezza) Gianfranco Zola che, assediato dai cronisti a causa del suo improvviso ed immeritato esonero dalla panchina del West Ham, esce dalla sua bellissima casa offrendo loro del the. Mi è piaciuto moltissimo.

Talento vietato

Hai talento? Hai fantasia? Hai personalità? Allora resta a casa. La lista dei trenta calciatori fra cui il c.t. Lippi sceglierà i 23 che voleranno con lui in Sudafrica è una Nazionale che assomiglia alla Nazione. Abbondano i reduci e i bravi ragazzi, ma latitano disperatamente i numeri 10, quelli in grado di movimentare una conferenza-stampa e soprattutto una partita che si sta mettendo male. Quando devi recuperare lo svantaggio e azzardare la mossa del cavallo, facendo alzare dalla panchina il campione che sovverte gli schemi, inventa un gol o un assist, si procura un rigore. Noi ai Mondiali, con tutto il rispetto, dalla panchina faremo alzare Pepe o Cossu. E Mario Balotelli, fisico maestoso e tecnica straordinaria? Immaturo, e poi è così giovane. Totti? Vecchio, e poi è così immaturo. Del Piero? Lui maturo lo sarebbe, ma anche troppo vecchio. Cassano e Miccoli? Ah, quelli non si sa, perché il c.t. non ritiene di dover dare spiegazioni delle sue scelte al volgo. Solo una volta gli scappò detto che Cassano non si adattava al gruppo per ragioni «psicotattiche»: forse il barese e Miccoli soffrono di sonnambulismo o dicono troppe parolacce negli spogliatoi.

Intendiamoci. Anche Vittorio Pozzo, unico c.t. capace di bissare la vittoria mondiale, preferiva gli uomini solidi ai guitti.

Ma ebbe sempre cura di coltivare un paio di fenomeni nelle sue squadre. Inoltre, fra il trionfo del 1934 e quello del 1938, cambiò ben nove undicesimi della formazione titolare, lasciando in campo soltanto Ferrari e Meazza - come dire De Rossi e Pirlo al quadrato - mentre qui la lista dei reduci è sterminata. In compenso la grande Inter è assente (capitava già a quella di Herrera), nonostante Motta e Balotelli abbiano la cittadinanza italiana. E la Roma seconda in classifica ha meno convocati dell'Udinese, in lotta fin quasi all'ultimo per la salvezza. La parte del leone continuano a farla Juventus e Milan, che dominavano nel decennio scorso. E' proprio una Nazionale che assomiglia alla Nazione: voltata all'indietro, arroccata intorno a un capo che non ama le personalità altrui, vietata ai giovani e priva di rispetto per chi canta fuori dal coro. Quando chiesero a Vicente Feola - selezionatore del Brasile di Djalma Santos, Garrincha, Didì, Vavà e Pelé - con quale criterio facesse le convocazioni, lui rispose: «Prima chiamo tutti quelli che sanno giocare a calcio. Poi, nei ruoli rimasti liberi, metto gli altri».

Non conosceva la psicotattica, lui.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

Infermità mentale

Maradona non ha convocato per il Mondiale né Javier Zanetti né Esteban Cambiasso.
Che emerita testa di minchia.

lunedì 10 maggio 2010

Anche questo è calcio

Dalla guerra civile del Sudan alla finale di Coppa Campioni a Madrid. Da giovedì sera, Kon Kelei ha un appuntamento al Santiago Bernabeu per sabato 22 maggio: "Vieni, c'è un biglietto per te", gli ha detto Mario Balotelli dopo quasi due ore passate a parlare con lui e Zlata Filipovic sui divani della hall di un hotel di Milano, non distante dalla Stazione Centrale. Kon e Zlata erano appena atterrati a Malpensa per portare la loro testimonianza nel corso di un convegno sui bambini coinvolti nelle guerre all'Università Statale ("Tecnologie per la pace: i bambini soldato", organizzato da Nova Multimedia con il patrocinio dell'Onu). In comune questi due ragazzi di quasi 30 anni hanno un presente pieno di speranze (Kon frequenta un master in Diritto internazionale in Olanda e Zlata lavora a Dublino dopo essersi laureata in Scienze politiche nella capitale irlandese) e un passato tragico: il primo è stato costretto a imbracciare un kalashnikov a 7 anni nella feroce carneficina sudanese, la seconda ha trascorso la sua adolescenza, entrando e uscendo da una cantina di Sarajevo per proteggersi dalle bombe (esperienza raccontata in un libro "Il diario di Zlata", scritto nel 1994).

Ma giovedì sera, in quell'albergo milanese dove hanno appena posato le valigie, è un'altra cosa a unire Kon e Zlata: lo stupore di avere di fronte uno dei più grandi talenti del calcio europeo. "Non riuscivo a credere che questo campione di 19 anni, celebre, ricco e vestito alla moda, che avrebbe potuto fare mille altre cose nel corso della serata, fosse lì per ascoltare le nostre storie. Io non l'avevo mai visto perché non so niente di calcio, ma quando ho capito di chi si trattava, sono rimasta davvero sorpresa", racconta Zlata con un inglese perfetto. "L'ho seguito tante volte in televisione durante le partite di Serie A o Champions League. E' un giocatore che mi piace. Ed era lì davanti a me che mi faceva mille domande", aggiunge Kon, ex tifoso dell'Inter ("Io tengo per le squadre in difficoltà che hanno bisogno di un supporto, ma adesso i nerazzurri sono troppo forti, non gli servo più", è la sua curiosa teoria, ispirata a una versione solidaristica della passione calcistica). Non sono loro a interrogare il calciatore famoso, ma il contrario: "Kon, tu hai mai ucciso qualcuno quando combattevi?", chiede Mario che ha raccolto con piacere l'invito della sorella Cristina, giornalista di Radio 24, a incontrare i due ragazzi. "No, perché ero più piccolo del kalashnikov. Ero troppo leggero e così non sono stato ritenuto idoneo a certe missioni", risponde il giovane sudanese che poi lancia un appello accorato a Balotelli: "Ricordati sempre che puoi essere un modello per tanti giovani che ti guardano anche nei villaggi più sperduti dell'Africa. Io ti ho visto quando hai lanciato la maglia alla fine di Inter-Barcellona - dice con un sorriso e modi eleganti da "piccolo Obama" -. E quando segni c'è sempre un bambino che si asciuga le lacrime perché con quel gol hai dato una speranza". "E' impressionante sentire questi racconti direttamente da chi li ha vissuti", commenta Mario. Il filo con questi due ragazzi coraggiosi probabilmente non si interromperà più. Il giorno dopo Balotelli regala loro due magliette dell'Inter con una dedica speciale.

E c'è la promessa più preziosa fatta a Kon (grande amante del calcio, in passato ha incontrato anche Roy Makaay e Giovanni Van Bronckhorst nel corso della sua attività di ambasciatore degli ex bambini soldato): "Ti invito a Madrid per la finale, ci sarà un biglietto per te al Santiago Bernabeu". Lo studente di diritto internazionale, appena tornato in Europa dopo tre mesi nel suo Paese, inizia a consultare il calendario: "Quand'è la finale?", chiede all'indomani della chiacchierata con Balotelli. Il 22 maggio sarà un giorno speciale anche per Kon Kelei. "Di solito preferisco guardare le partite in televisione, perché riesco a capire meglio cosa succede tra mille telecamere e i commenti di telecronisti e opinionisti". Ma per la finalissima Inter-Bayern Monaco vale la pena fare un'eccezione. Per la sua ex squadra del cuore e per rispondere all'invito del suo nuovo amico Mario.

di Stefano Scacchi; la Repubblica