domenica 25 dicembre 2011

Forza Inter

Simulatore

L’«ufficio» di Fernando Alonso e Felipe Massa a Maranello è una cabina nera che sembra uscita da un film di alieni e oscilla su sei bracci telescopici. Si chiama simulatore di guida: un sistema che sta ai videogiochi come una Formula 1 a un’utilitaria. Oggi che i test in pista sono proibiti, è qui che i piloti si allenano, sviluppano la vettura e la preparano per i gran premi. La Ferrari per la prima volta l’ha fatto provare a quattro giornalisti dopo una selezione sul simulatore statico della pista di Fiorano. Il mio tempo sul circuito virtuale è 1’08’’, quello di riferimento del collaudatore Andrea Bertolini 59’’. Promosso all’«astronave».

L’ingresso avviene attraverso una botola. L’ingegnere mi consegna il casco, mi fissa le cinture di sicurezza e mi dà le istruzioni base: «Le gomme sono già calde, per frenare dai un pestone forte al pedale, ma non rallentare troppo sennò il motore stalla. E non toccare i pulsanti sul volante: non hai il tempo per capire come funzionano». Suggerimento superfluo: non mi sarei mai sognato di complicare una situazione già così complessa. Il test può cominciare: la stanza, grande come mezzo campo da tennis, è buia. Le uniche luci, oltre al maxischermo a 180 gradi che mi spalanca davanti la pista, sono i led sul volante. Un impianto home cinema fa vibrare il motore otto cilindri virtuale. Partenza lanciata, curva stretta e lungo rettilineo dove è un piacere cambiare fino alla settima. A 150 metri da un tornante, lanciato a 300 chilometri orari, mi sembra una buona idea frenare. Non lo è: premo il pedale sinistro (serve una pressione di 100 chili) e a 50 metri dalla curva mi ritrovo quasi fermo e con il motore spento. La voce paziente dell’ingegnere via radio mi avvisa: «Ricominciamo». Ricominciamo: curva stretta, rettilineo, frenata meno brusca e... prato, testacoda, la pista scomparsa, l’abitacolo che trema. L’unica notizia consolante è che il motore è rimasto acceso. «Bisogna frenare forte quando la velocità è elevata e diminuire la pressione sul pedale quando si rallenta e il carico aerodinamico diminuisce», mi spiegheranno poi davanti ai risultati della telemetria. L’esatto contrario di quanto si insegnava a scuola guida prima che venisse inventato l’abs.

Ritrovato l’asfalto, cerco di domare questo mostro imbizzarrito che a ogni accelerata minaccia di sbandare e a ogni frenata di spegnersi. Il movimento della cabina non si avverte: il mio cervello è convinto di essere su una monoposto vera. La difficoltà successiva è il tratto in salita sul ponte: la pista non si vede, perché la posizione di guida è infossata. Casualmente scelgo il punto giusto di staccata, ma mi domando come faccia un pilota in gara ad avere i punti di riferimento. Mi racconteranno della tecnica usata da Mika Hakkinen: un’ora prima del via si chiudeva in una stanza buia e ripassava mentalmente il percorso. Proseguo senza grossi problemi, anche se l’alta velocità è una roba differente. L’esperienza dura tre giri, il migliore in 1’20’’. L’unica consolazione, quando scendo, è non avere problemi di stomaco. «Raikkonen al simulatore si sentiva male» è la frase più incoraggiante che riescono a dirmi i tecnici al muretto. Già, però lui è Kimi Raikkonen.

di Stefano Mancini; LA STAMPA

INTER-Lecce 4-1

Segnano un po' tutti: si sblocca Milito, Pazzini dedica il gol al figlio appena nato, Cambiasso entrando dalla panchina e un ottimo Alvarez. Il povero Forlàn becca due pali.

Cesena-INTER 0-1

Tanto brutta quanto pratica.

venerdì 16 dicembre 2011

O.M.

Per carità, non ci si può lamentare di trovarsi il Marsiglia negli ottavi di Champion, ma peggio non poteva andare considerando le altre possibilità.

martedì 13 dicembre 2011

Genoa-INTER 0-1

Ora la classifica inizia a farsi guardare. Continuiamo così e sarà sempre più bella.
Ancora in rete Yuto con un colpo di testa su assist si un più che discreto Ricky Alvarez che ha preso anche un palo su uno splendido tiro dai 30 metri. Buona la prima di Poli, anche se relegato sulla fascia sinistra e ottimo il rientro del Cacha Forlàn.

Tavolo della pace

Weilà, domani 14 dicembre 2011 c'è una grande festa: Moratti porta il panettone, Agnelli lo spumantino.

lunedì 12 dicembre 2011

INTER-Fiorentina 2-0

Una vittoria rassicurante, anche se contro un avversario piuttosto sommesso.
E martedì c'è il recupero contro il Genoa. Vincere, vincere, vincere per salire in classifica.

venerdì 9 dicembre 2011

City of Manchester

Dei novanta minuti che hanno sepolto Manchester tre finali con una vittoria nelle ultime quattro Champions League per lo United, 326 milioni di sterline investite in tre anni di mercato dal City - rimangono due fotografie. La prima, Basilea. È lo scatto di un ragazzo goffo a due metri dalla porta. La palla gli rimbalza davanti e il ragazzo la deve solo spingere dentro. Invece calpesta il fango e la liscia come un dopolavorista. Lui è Wayne Rooney, il simbolo del tutto e del niente dell’incompleta macchina da guerra di Sir Alex Ferguson, un quarto di secolo di panchina con i Diavoli Rossi e solo tre volte fuori dal G-16 del pallone negli ultimi diciassette anni. Rooney fa una smorfia dolorosa e ha lo sguardo fisso, come se avesse gli occhi di una statua di terracotta. Nei tabloid del Regno Unito la didascalia che racconta la scena è un virgolettato virtuale, un fumetto che gli esce dalla testa: «Davvero sono io, siamo noi, questi qui?». Non è l’immagine di una sconfitta, ma di una ritirata, della rinuncia alla grandezza di un tempo.

La seconda, Etihad Stadium. È un primo piano di Adam Johnson. C’è stupore anche sul suo volto e lui sembra portarsi addosso la stanchezza involontaria di chi è condannato a un’insonnia perenne per un errore che non riesce a perdonarsi. Johnson fa un segno con le mani: 2-0. Non parla dei gol che i suoi compagni hanno segnato al Bayern, ma delle reti di quel Napoli piuttosto favoloso che li sta buttando fuori dal loro sogno. Scansatevi, tocca a noi. Anche questa non è l’immagine di una sconfitta. Di uno spreco, piuttosto. E così, anche se una città intera è costretta a farsi da parte, la prospettiva non è la stessa. Ognuno si aggrappa a quello che ha, sir Alex Ferguson il passato, Roberto Mancini il futuro. Basta ascoltare le parole dei loro giocatori per capire.

Patrice Evra, allo United dal 2006, dice: «È una vera catastrofe. Siamo tristi, è imbarazzante giocare in Europa League. Ma abbiamo meritato di uscire». Come se il nuovo progetto fosse precipitato prima di iniziare. Finita l’era di Paul Scholes doveva arrivare Sneijder, oppure Nasri. Invece l’americano Malcolm Glazer, schiacciato dagli interessi che deve ogni anno alle banche per un club dal valore di un miliardo e mezzo di dollari che nel 2005 ha deciso di comprare a rate, ha guardato Ferguson e gli ha detto: «Linea verde». Sir Alex si è adeguato. Ha preso De Gea in porta al posto di Van der Sar e ha dato spazio a Smalling in difesa. Proprio i due che in Svizzera l’hanno tradito. Anche Roy Keane, che era uno dei suoi avvelenati ragazzi, forse il più cattivo, ha provato a dirlo ai microfoni di ITV: «Lo United è fuori perché lo merita». Il Vecchio Maestro si è risentito. Convinto che il mondo possa essere guardato da un punto di vista oggettivo e di essere lui la persona giusta per farlo ha replicato rinfacciando a Keane i suoi fallimenti da allenatore: «Mi stupisce che Roy parli. Lui c’è stato in panchina e si è accorto di quanto è complicato. I nostri ragazzi stanno crescendo. Sarà come è sempre stato. Torneremo grandi. È la storia che lo dice». Ha voltato le spalle ed è andato via snobbando i giornalisti che gli chiedevano: «Scusa Fergie, non credi che sia arrivata l’ora di passare il testimone?». Fesserie. Per lui la vita senza il pallone sarebbe un errore. Eppure in campionato non domina più, in città è la seconda squadra, l’Europa lo ha espulso e neppure la società se la passa troppo bene. «Ci hanno dati per morti tante volte».

Vincent Kompany, il capitano del City, dice cose diverse. «Siamo fuori, è doloroso. Ma ora vinciamo quello che resta da vincere. Il campionato e l’Europa League». I soldi dello sceicco Mansour non hanno ancora portato i giocatori del City sullo stesso pianerottolo del Barcellona, ma li hanno fatti sentire sullo stesso ascensore, un gruppo in salita, una squadra che vende Tevez e compra Aguero e che se ha bisogno di un centrocampista va a prendere Nasri dall’Arsenal. Miglior attacco e miglior difesa del campionato. Anche se Jens Lehmann, tedesco ex portiere dei Gunners, giura che quelli del City sono solo «noiosi dilettanti. Hanno sempre la palla tra i piedi e non concludono nulla, mentre il Napoli ha cuore e passione». Mancini non gli risponde. «Nel 99% dei casi con dieci punti si passa. Il Napoli ne ha fatti undici, complimenti a loro. Una lezione che serve. La vita prosegue». Non importa se questa notte sembra una cupa sfilata di vinti che smentisce i progetti di gloria, c’è solo una metà di Manchester che ha paura del domani. E non è la sua.

di Andrea Malaguti; LA STAMPA

Dinamo Zagabria-Olympique Lione 1-7

La farsa. Questo non è calcio. Onore all'Ajax.

giovedì 8 dicembre 2011

Spaccanapoli

Battuto due reti a zero il Villareal e storica qualificazione agli ottavi
di Champion League ottenuta meritatamente.
Un applauso però anche alla sportività di Roberto Mancini,
allenatore del Manchester City.

INTER-CSKA Mosca 1-2

La preoccupazione mi assale.

lunedì 5 dicembre 2011

La prima volta del Capitano

Se chiedessero oggi a Javier Zanetti della sua prima volta, il trentottenne capitano dell’Inter, furlàn di origine, sarebbe incerto: mi chiederanno di quella o di questa? Quella è lontana nel tempo, probabilmente, e assai intima per divulgarla; questa l’ha fatta sotto gli occhi di tutti, spettatori e telespettatori del secondo tempo di una giornata calcistica che di tempi ne ha cinque e dura, colpevolmente, dal venerdì sera al lunedì sera, un’eternità che non aiuta la comprensione.

Questa è la prima volta del cartellino rosso: Javier Zanetti è dal 1995 all’ Inter, prima di Mancini, prima di Mourinho, prima degli scudetti ritrovati (e anche trovati, come quello del 2006) e in campionato non gli era mai successo.

Accadde a San Siro, la sera del 3 dicembre, giorno compleanno di un fatterello che ha cambiato la vita di noi tutti: il 3 dicembre 1992 venne inviato il primo sms della storia con scritto semplicemente “Merry Christmas”. Ora la data sarà ricordata anche per la prima espulsione di Javier Zanetti che magari non avrà compagnia fino al ritiro e resterà unica. Il capitano ha appena festeggiato la sua gloria di bandiera stampando un libro che si riferisce alla sua alta fedeltà e al traguardo già superato delle 757 partite.

Per rendere meno amara la giornata Julio Cesar parava il conseguente rigore che Di Natale, che aveva già ispirato il gol poi vincente di Isla, sbagliava. Rovesciamento di fronte e rigore per l’Inter. Il portiere dell’Udinese prima in classifica pro tempore non doveva fare nulla: faceva tutto Pazzini scivolando sul dischetto e mandando il pallone, come fosse un vecchio Shuttle, in direzione Luna. E’ il calcio, bellezza.

di Piero Mei; Il Messaggero

venerdì 2 dicembre 2011

Raffaele Rubino

Già il primo gol aveva l'oro in bocca. Un calcio di rigore, trasformato a Valenza, la città degli orafi, il 16 settembre 2001, era il presagio di qualcosa di aureo. Dieci anni e due mesi dopo, Raffaele Rubino ha finito di cesellare quel gioiello diventando il primo giocatore nella storia del calcio italiano a segnare almeno un gol in tutte le serie professionistiche con la stessa maglia. Dalla Valenzana al Parma: 76 reti con il Novara dalla Serie C2 (allora si chiamava ancora così) alla A. I primi centri con Castelnuovo, Montevarchi, Meda, Biellese e Rondinella; poi 52 reti in C1 e 6 in B fino al colpo di testa da primato sabato scorso contro i gialloblu del suo idolo personale Hernan Crespo, entrato nel finale per cercare di raddrizzare il 2-1 per i piemontesi.

In mezzo un decennio da bandiera itinerante. Arrivato nel 2001 a 23 anni, su intuizione dell'allora ds Sergio Borgo - un dirigente che andava in panchina solo con una camicia dalle maniche rimboccate anche in pieno inverno, da calciatore campione d'Italia con la Lazio di Tommaso Maestrelli - ha iniziato a fare coppia con Massimiliano Palombo. E il genio della coppia pareva Palombo, romano dalla battuta facile ("A Totti è andata bene che non mi sono impegnato davvero, altrimenti là davanti nella Roma avrei giocato io") che ha deciso di rimanere a vivere a Novara a carriera finita, aprendo un locale che vende piadine in centro. E si è fermato a Novara anche Emiliano Bigica, l'ex centrocampista della Fiorentina e dell'Under 21, che
in comune con Rubino non ha solo la città di nascita (Bari) e una stagione nel Novara (2005-06), ma anche la storia famigliare: nel 2005 il centravanti-bandiera ha sposato Giulia, sorella di Lisa, la moglie dell'ex centrocampista.

Mentre Palombo, Bigica e tanti altri gli passavano a fianco e smettevano, Rubino andava e veniva: il Siena, il Torino, la Salernitana e il Perugia. I tifosi del Novara lo seguivano come un loro ambasciatore nel grande calcio: la squadra annaspava nelle categorie minori, ma pareva che Raffaele segnasse anche per loro nel pallone che conta. Quasi fosse stato mandato in avanscoperta per studiare quello che sarebbe successo più avanti. Perché poi nel 2007 l'attaccante pugliese è tornato per la scalata definitiva: prima la B e poi la A. E, anche se altri erano titolari al posto suo, per tutti il capitano è rimasto sempre e solo lui. Alle feste dei club, alle serate delle associazioni o dei circoli, alle cene degli appassionati era sempre il primo della rosa a essere invitato. E lui - una passione per le moto tenuta a freno per esigenze calcistiche - ricambiava promettendo che avrebbe concluso la carriera a Novara, continuando a lottare per guadagnarsi scampoli di partita.

Fino alla serata dell'apoteosi sabato scorso. Il suo colpo di testa alle spalle di Mirante è stato un segnale che è andato al di là di un gol in una partita di Serie A. Tutta la panchina è schizzata in campo per abbraccialo. Lui ha indossato una maglietta bianca con una scritta raffazzonata, "record", ed è scoppiato a piangere. A portare la casacca, che ha dato il via ai festeggiamenti, è stato il medico sociale del Novara, Giorgio Fortina, la terza generazione di una famiglia che da mezzo secolo si prende cura della salute dei calciatori azzurri: prima il nonno Giuseppe, poi il papà Giacomo che ora siede nel cda del club. Le storie del calcio di provincia sono così: passioni che si tramandano di padre in figlio intrecciate alla carriera di bomber, nati dall'altra parte d'Italia, che trovano il loro paradiso impossibile da lasciare quasi 1.000 chilometri più a nord.

"Dottore, preparami un'altra maglietta", aveva detto Rubino qualche giorno prima, dopo aver saputo che avrebbe giocato a Marassi col Genoa. Era successa la stessa cosa anche l'anno scorso in B quando aveva iniziato ad approssimarsi il gol numero 70 col Novara: obiettivo centrato con una doppietta al Crotone che costrinse Giorgio Fortina e i massaggiatori a fare gli straordinari coreografici correggendo al volo il 70 in 71 con lo scotch sulla maglietta celebrativa tra una rete e l'altra. Chissà se Crespo, ancora seduto tra le riserve, ha capito quello che stava succedendo dall'altra parte del campo. Di sicuro l'ha capito Tommaso, il figlio di Rubino, che ha già un debole per il pallone e sabato sera era il più felice di tutti. Magari tra un po' toccherà a lui segnare un gol sul prato sintetico del Silvio Piola. Perché ormai Raffaele Rubino non ha più nessuna voglia di lasciare Novara, come Palombo, Bigica e tutti quelli che lo hanno accompagnato da Valenza Po alla Serie A.

di Stefano Scacchi; la Repubblica

José è sempre José

lunedì 28 novembre 2011

Yanina la sanguigna

Yanina irrompe sul calciomercato con tutta la sua prorompente vitalità, che non è la sola cosa prorompente che abbia. Yanina Screpante, bella ragazza argentina, è la fidanzata del Pocho Lavezzi. Rifiuta il ruolo di “botinera”, come chiamano al suo Paese, l’Argentina e dintorni, quelle ragazze di magnifico aspetto che prima o poi si fanno notare da un calciatore, gli danno un figlio e si sistemano. Lei a un calciatore non pensava proprio, tanto che s’era fidanzata sì con uno sportivo ma non del pallone: il tennista Del Potro. Ma poi ha incontrato il Pocho ed ha perso la testa, come capita, ma con altri effetti, ai difensori avversari. «Mi manca tanto il mio pagliaccio» ha cinguettato su twitter mettendo una foto di Ezequiel vestito da clown, mentre lui le era lontano, impegnato con la Nazionale. Diceva anche, la bella Yanina, che a Napoli avrebbe dovuto girare con un fucile per scacciare tutte quelle ragazze che con la scusa di una foto sporgono le labbra per rubare un bacio al Pocho o allungano le mani in altre zone.

Ora, invece, Yanina è infuriata con quella meravigliosa città e quei simpatici cittadini del Golfo: l’hanno rapinata del suo Rolex e rieccola su Twitter, ma stavolta non cinguetta, strepita. Ciudad de mierda, scrive, per dirla tutta, mi porto via il Pocho. Poi chiederà scusa, ma la frittata è fatta e ora da più parti si teme la partenza di Lavezzi

Per altre ragioni, cioè la noia della Torino preolimpica che era una città sonnacchiosa, la signora Zidane voleva lasciare la casa in collina, desiderosa di mare. «La manderemo in Ancona», commentò snob l’Avvocato Agnelli. La signora Zizou, poco ferrata in geografia evidentemente, si accontentò di Madrid, che non è famosa per le sue spiagge, e la Juve di una barca, per restare in tema, di soldi.

di Piero Mei; Il Messaggero

Alla riscossa

È finita com’era cominciata, questa stagione amarissima per la Ferrari. Una Red Bull che vince dominando (Vettel a Melbourne e poi altre nove volte, il compagno Webber ieri a Interlagos grazie a un generoso gioco di squadra) e lo sconsolato Alonso ai piedi del podio, dopo una coraggiosa inutile difesa. Lotta impari. Era terzo, appena ha montato le gomme medie ha visto sfilargli davanti Button che pareva un missile, il solito copione di ogni Gran Premio. Non basta correre da fenomeno, come ha fatto Fernando anche in Brasile, specialmente all’inizio quando «aveva la macchina» ed era stato lui a passare di slancio l’inglesino.

Una sola volta, nell’arco di otto mesi, la Ferrari si è dimostrata vincente come il suo campione: a Silverstone, 10 luglio. Sembrava l’inizio della riscossa, si è rivelata un’illusione, un’impennata senza seguito. Con la Red Bull non c’è stata mai partita e anche la McLaren da metà stagione è cresciuta, rivelandosi più competitiva delle Rosse.

Il problema ora è voltare rapidamente pagina, a Maranello lo sanno perfettamente e da tempo lavorano allo sviluppo della prossima monoposto, per non ripresentarsi il 18 marzo in Australia con un gap penalizzante. Montezemolo ha assegnato un 5 politico in pagella al suo team, chi lo conosce sa che ha dovuto violentarsi per non mettere in piazza una delusione ben maggiore. Ma dietro le quinte il presidente si è fatto sentire, avviando una rivoluzione (di metodo più che di uomini) finalizzata al Grande Riscatto. Vietato fallire.

Si riparte da zero, l’anno prossimo cambierà molto. Nuovi motori (6 cilindri turbo 1.6 anziché V8 2.4), nuove gomme («faremo Pirelli più veloci e costringeranno tutti ad almeno 3 pitstop», ha anticipato Tronchetti Provera), nuovi regolamenti in parte ancora misteriosi che verranno ratificati dal consiglio mondiale il 7-8 dicembre in India. Si ipotizzano perfino penalizzazioni in classifica per chi sfora dai costi, una sorta di salary cap della Formula 1. Primo obiettivo della Ferrari è recuperare quell’equilibrio dinamico in ogni condizione, gomme medie comprese, che si è rivelato problema vitale e insolubile quest’anno. La nuova macchina sta nascendo in simbiosi con gli pneumatici, con un’attenzione maniacale all’aerodinamica e con soluzioni tecniche in parte già collaudate in gara, ad esempio inediti scarichi che ne ottimizzano i flussi di carico. I motori non preoccupano, per tradizione sono un must del Cavallino. La chiave del futuro è tuttavia l’intero «pacchetto» macchina-aerodinamica-gomme: questo il puzzle che la Ferrari non può più sbagliare.

Sotto il profilo psicologico, non sarà facile recuperare il miglior Massa, dopo un’intera stagione senza nemmeno un podio. Lui dovrà metterci del suo.

di Piero Bianco; LA STAMPA

Gary Speed

Riposa in pace.

Parla il Grillo

Alla fine l’ho trovato, non è stato facile ma l’ho trovato. E adesso che l’ho trovato posso finalmente pubblicare in esclusiva la prima intervista in assoluto a uno dei personaggi più misteriosi della Formula 1, il Grillo Rampante, la vocina interiore (ma spesso anche esterna) della Ferrari, quella che nei momenti “mediaticamente” più delicati interviene da Maranello a seconda dei casi per dire la sua, per chiarire, per ricordare, per mettere i puntini sulle i, per togliere sassolini dalle scarpe, per rispondere, per smorzare, per annacquare, per confondere le acque.
Non svelare le coordinate del suo nascondiglio è stata l’unica condizione posta dal Grillo, che infatti si è lasciato contattare solamente ad Abu Dhabi, in trasferta, ai piedi del Ferrari World, luogo dove, nonostante il trauma dell’anno scorso, il grillo ama tornare per riflettere. Ed io la rispetterò.
Intanto, grazie per avermi concesso l’intervista. Non deve essere stato facile accettare di parlare dopo una stagione del genere.
“Il grillo è un esperto del settore (ndr: come Maradona e Cassano, l’intervistato ha il vezzo di parlare di se stesso in terza persona, di tanto in tanto) e non ha problemi ad ammettere quando gli altri hanno fatto un lavoro migliore del nostro. Vanno più forte, hanno lavorato meglio ed è giusto che vincano. Non c’è problema, è solo sport. Del resto ho ancora ben vivo nella memoria il ricordo di anni in cui accadeva scientificamente il contrario, la Ferrari davanti gli altri a inseguire”.
Ecco, appunto. Adesso che vive in prima persona le sensazioni chi sta dall’altra parte, di chi subisce il dominio, che effetto le fa?
“Eh, fa male. C’è una grande frustrazione a vedere il gruppo che lavora tantissimo, si illude di recuperare terreno e poi invece vede l’obbiettivo sempre più lontano, sempre più avanti. Non è stato facile stare uniti. Non è stato facile anche perché intorno succedevano parecchie brutte cose… ”
Ok cominciamo. Leviamoci il primo sassolino…
“Ma no. Nessun sassolino. Dico solo che per tutto l’anno mi ha ferito una certa tendenza da parte di alcuni a travalicare i limiti della critica e cercare di ferire la sensibilità di chi lavora”.
Ottimo tema, su Repubblica.it si è parlato spesso di questo. Pensa che la critica sia stata troppo dura con la Ferrari?
“Più che altro mi è dispiaciuto che molte delle nostre spiegazioni siano costantemente cadute nel vuoto. Se la stampa, ma anche la tv i siti e i blog, diciamo, se la critica si fosse limitata a dirci che avevamo fatto la macchina inadeguata, non ci sarebbero stati problema. Purtroppo era innegabile. Però si è andati oltre. Le faccio un esempio. Forse quello che mi ha colpito di più: i pit stop. Abbiamo spiegato per tutto l’anno, dati alla mano, che i nostri pit stop non erano peggio degli altri. Anzi che in molti casi erano più veloci. E invece niente, alla fine è passato il concetto che i nostri meccanici - probabilmente i migliori del paddock – di colpo non erano più capaci di fare il loro lavoro. A tale proposito, mi piace soffermarmi anche su certe, chiamiamole così, ingenuità: recentemente un comunicato stampa della Mercedes ha mostrato come i tedeschi siano i più bravi a fare i pit stop. Dati alla mano. Il grillo è andato a vederli questi “dati alla mano” e si è accorto che c’erano un po’ di anomalie”-
Tipo?
“Ne dico una sola: è stato conteggiato come “pit stop” record della gara di Silverstone, quello della McLaren a Button. E in effetti era stato il più veloce. Solamente che poi cinquanta metri dopo Button ha perso la gomma. Come dire: per risparmiare tempo non hanno avvitato i bulloni. Così sono capace anche io a fare i record. E già che ci siamo. Indovinate un po’ chi ha fatto il miglior tempo al pit stop in quella gara, tolto il cambio delle tre gomme della McLaren?”.
La Ferrari?
“Eh. La stessa cosa, lo stesso atteggiamento che ho notato, vale per la strategia. Ormai è passato il concetto che quando la sbagliamo (raramente) siamo dei cani e quando l’azzecchiamo è caso. Questo ostinarsi oltre l’evidenza mi ha ferito. Non le critiche. Quelle, anche le più feroci, ci possono stare. Siamo strutturati per accettarle o per respingerle, senza problemi”.
Beh, conoscendo la puntigliosità del Grillo nei confronti dei media e delle tesi da loro avanzate, è andata bene se i sassolini sono finiti. Tutto qui?
“C’è un’altra cosa che non mi piace proprio, da un po’ di tanto tempo a questa parte. Il continuo ricorso al “…quando c’era lui…”. Il Grillo ama Ross Brawn ma, proprio perché lo ama e lo conosce, può affermare con certezza che davvero non vinceva da solo, Ross Brawn. E quanto ad errori ne faceva eccome anche lui. Del resto se guardo ai risultati degli ultimi anni… Ecco: sento dire “…quando c’era lui…” poi guardo la classifica e francamente c’è qualcosa che non mi torna. Alla Honda aveva un budget strepitoso condito da quattro gallerie del vento e non ha combinato niente, poi ha vinto un mondiale, ma sappiamo tutti come… E poi la squadra ha cambiato nome, diventando Mercedes, quindi non esattamente un bruscolino nel mondo delle quattro ruote, e i suoi piloti sono andati sul podio due volte in due anni….
“L’altra cosa che mi fa impazzire, dopo “quando c’era lui” è: “Domenicali è troppo buono”. L’altro tormentone”.
In effetti, sembra un pezzo di pane, Domenicali
“Ma che c’entra!! Dire che è troppo buono è come lamentarsi che una cosa funziona troppo bene. Mi sembra che ci sia un velato masochismo dietro una frase del genere. Anche da parte dei giornalisti che preferiscono essere trattati male, come succedeva prima, piuttosto che bene, come succede ora. Questo però, almeno, lo condividiamo con gli inglesi: anche loro ce l’hanno con Whitmarsh perché è troppo buono. Invece quando c’era Ron Dennis…”
In effetti però i risultati, sia in un caso sia nell’altro, parlano chiaro…
“Adesso il Grillo si arrabbia davvero. Non credo che in McLaren abbiano sbagliato le macchine perché Whitmarsh invece di grugnire sorride. Altrimenti non si capisce come abbiano fatto poi a recuperare terreno sulle Red Bull, sempre col sorridente Whitmarsh…”
Con questo cosa vuole dire?
“Che occorre un maggiore sforzo di comprensione da parte di chi critica. Nella noia di certe giornate a Maranello, specie quando i ragazzi sono in trasferta, leggo molti blog e molti forum, oltre ovviamente ai giornali: l’acrimonia dei tifosi da forum è difficilmente sostenibile, con tutta la buona volontà che ci posso mettere. C’è una tendenza alla superficialità. Leggi i blog e vedi che sono tutti pronti a dire che i piloti e gli ingegneri stanno lì solo per i soldi, per le raccomandazioni, che sono tutti incapaci. Possibile mi chiedo? L’80-90 per cento di chi è qui in Ferrari oggi era qui anche cinque anni fa. Quando sugli stessi blog e sugli stessi forum venivano trattati come eroi. Tanto scemi non saranno, quindi. In questi cinque anni, la McLaren ha vinto 27 GP, la Ferrari 24, la Red Bull 26. Gruppi dirigenti che hanno ottenuto risultati simili. E invece oggi a leggere certi siti scopri che i geni sono tutti da una parte mentre in McLaren e Ferrari c’è solo un branco di deficienti… Suvvia: un po’ di equilibrio…”
A proposito, è vero che il Grillo non ha affatto apprezzato la rubrica di Jarno Trulli, ospitata su queste colonne
“Non è che non l’ho gradita. E’ solo che penso che sia molto difficile e delicato giudicare da dentro, senza una visione di insieme, senza il necessario distacco, l’operato dei colleghi. Tutto qui”.
Capitolo Massa. Felipe ha deluso.
“Non lo posso negare”.
Cosa gli è successo?
“Credo che il problema vada trovato negli aspetti psicologici e motivazionali. Logico ma superficiale sarebbe stato dire: ha subito un grave incidente e da quel giorno non ha più vinto una gara. Ma non è così. Io ho parlato spesso con gli ingegneri di Felipe. Quando chiedi a loro se ha perso la velocità, loro ti dicono di no. Dal punto di vista della telemetria è tutto come quando andava veloce. Non frena prima, non da gas dopo… “
E però i numeri sono impietosi.
“Secondo me è un problema di spirito. In certe situazioni in termini di spirito, ha l’aria di trovarsi in difficoltà. Felipe aveva sempre avuto compagni di squadra “importanti”, ma nessuno come Alonso. Con Micheal era il fratellino minore che cresceva bene. Tra i due c’era un rapporto diverso. Così come era diverso il rapporto con Raikkonen: a Maranello, il punto di riferimento era sempre Felipe. Invece con Alonso le cose sono cambiate. Fernando è arrivato e si è inserito in un modo mostruoso. Ha sorpreso tutti”.
Anche Massa. Non è il caso di arrendersi all’evidenza e cercare di portare a Maranello, Button. Lei ha esternato moltissimo contro l’ipotesi di arrivo dell’inglese in Ferrari…
“Su Button ci terrei a chiarire di non aver mai detto che è un paracarro, a differenza di qualcun altro che si è dovuto rimangiare il giudizio. Anzi, mi è sempre piaciuto. (Quando il grillo era giovane si era invaghito di un’addetta stampa inglese ed era anche il primo anno di Button che esordì in F1, impressionando. E quindi si era illuso che potesse lavorare nella Scuderia portando con sé la suddetta suddita della Regina come interprete, poi invece non se ne fece niente). Il punto è che la F1 non è il calcio. Il futuro va programmato. Nel 2012 diamo ancora fiducia a Massa. Poi vediamo”.
A proposito. Chiudiamo l’intervista con un paio di auspici. Cosa si augura per il futuro.
“Così a bruciapelo la prima risposta che mi viene è: spero che torni Kimi Raikkonen. Un personaggio bellissimo. Vorrei proprio rivederlo in una pista di F1. E poi un altro desiderio, un po’ più retorico. Posso?”.
Basta che non cita Shakespeare come l’ultima volta che ha voluto fare il retorico.
“Io penso che la F1 sia alla vigilia di una rivoluzione. Di un enorme cambiamento. C’è del fermento sottotraccia, un’attività che credo da gennaio darà i suoi frutti. Ecco quello che vorrei è che questo cambiamento porti con sé più partecipazione da parte della gente e dei media, che sarebbe una rivoluzione culturale per questo sport. Perché il Grillo, in fondo, è sempre stato un rivoluzionario”.
 
di Marco Mensurati; la Repubblica

Siena-INTER 0-1

Luc sconfigge anche la noia di una partita inguardabile.

venerdì 25 novembre 2011

Si gioca!!!

Non so perché (anzi sì) ma stasera c'è l'anticipo della tredicesima, Udinese-Roma, udite udite, per tutelare le squadre impegnate in Europa Leaugue. Una coppa molto affascinante per i nostri club che vi schierano abitualmente le riserve. Buon calcio a tutti, come dice la bella Ilaria.

mercoledì 23 novembre 2011

Mortacci sua (il guardalinee)

E la scena madre abortì. Il gol più bello della domenica viene concepito, ma non arriva all' anagrafe per un intervento arbitrale che lo sospende nel limbo delle reti fantasma. Resta a mezz' aria Pablo Osvaldo, immortalato in un' acrobazia da bustina Panini, un gesto perfetto che la memoria non sa se conservare come un brillante o gettare come un pezzo di vetro. C' è un crinale di non poco conto da valicare, scomodando la filosofia, il dirittoe la calciofilia. Che cosa esiste: quel che abbiamo percepitoo quel che viene registrato? Dobbiamo arrenderci alla giustizia anche quando ci chiede di essere ingiusti? E soprattutto: questo funambolo del superfluo è un campione o un bidone? Rewind. Olimpico di Roma, squadra di Luis Enrique, come spesso, padrona & sprecona. Dal possibile 3-4 a 0 a un poco rassicurante 2 a 1 contro il Lecce. Manca il killer che ammazzi le partite. Bojan è, in tutti i possibili sensi, pietoso. Lamela ricama. Totti è torvo. Resterebbe Pablo Osvaldo, prelevato in estate a caro prezzo stupendo molti. Perfino un lontano cugino marchigiano di Filottrano, che da tempo cerca invano di organizzargli una festa in paese, ebbea dire: «Davvero varrà tutti quei soldi?». Tranquilli, è l' annata del riuso. C' è la crisi, si guarda in fondo al guardaroba, si tira fuori una giacca che un tempo pareva pacchiana, si destruttura togliendo le spalline, si abbina con gusto et voilà: in testa alla classifica marcatori c' è Denis che a Napoli era una mutanda. Osvaldoa qualcuno sembra nuovo, ma ha già giocato nell' Atalanta (proprio come Denis), nel Lecce (con Zeman, che lo stimava), nella Fiorentina di Prandelli, nel Bologna. Per sbocciare è dovuto andare a Barcellona (lato Espanyol) e tornare. Ha già segnato quanto nella miglior stagione italiana tutta intera. Ha recitato da Zelig, facendo il Totti a Roma (con la maglietta della purgaa sproposito)e l' arcitaliano in nazionale (cantando la nenia di Mameli più forte degli altri). È pronto per il salto, a tutti gli effetti. Gli manca il passaggio (in) giusto. Glielo fa Gago. Dal lato destro del campo fa partire un cross sbagliato, troppo arretrato rispetto alla posizione del centravanti. Non è mai dato sapere quel che il giocatore pensa, se pensa. C' è un luminoso secondo che schiude le porte del possibile e accende l' eterno interrogativo: che fare? Lasciar andare o buttarsi? Tentare il gran gesto rischiando la fetenzia da Gialappa's ? In quell' istante soccorre l' esperienza di sé, il tracciato del già fatto, quindi ripetibile. Sono bravo, bene: bis. Osvaldo aveva azzeccato la rovesciata un' altra volta, in un frangente ancor più estremo: ultima di campionato 2007-2008, Fiorentina-Torino, se la Viola vince va in Champions. Lui fa l' acrobata, segna, esulta, Prandelli ringrazia e qualche anno dopo ricambia con una maglia azzurra. Memore, Pablo dà le spalle alla portae butta le gambe dalla parte opposta, impatta, trova la traiettoria perfetta e insacca. L' Olimpico esulta, solo l' arbitro fischia. Ma il suo gesto annulla quello di migliaia di persone. La maglietta di Osvaldo resta tirata sulla faccia ad annullarne (dopo la rete) il volto. Una maschera di nessuno, la celebrazione di niente. Eppure. Dove sta il confine? Se l' arbitro non sbaglia, quel gesto finisce nella rubrica del gol di Gianni Mura al lunedì come il piatto migliore del menù. Viene invece spazzato in questa raccolta di avanzi e frattaglie del martedì. Che senso ha ricordare quel che non è stato? Un momento: davvero non è stato? Chi ha il potere di annullare i ricordi? C' è una sequenza che ricorre nei film in cui si inscena un processo. L' accusa porta una prova (diciamo, un' intercettazione) che dimostra in modo chiarissimo la responsabilità dell' imputato. La difesa eccepisce l' irregolarità del metodo. Il giudice intima alla giuria di non tenerne conto nel verdetto e quella, alla fine, assolve. Boskov direbbe: gol è se arbitro dà. Ma Platone concorderebbe? Quello di Osvaldo non è, ontologicamente, un gol? Adesso non vorrei addentrami nella caverna e proiettare l' immagine della rovesciata sulla parete per distinguere l' idea dall' entità, perché mi perderei. Resta la scelta del cuore. Nel "Più mancino dei tiri" Edmondo Berselli glorificava lo studioso rinchiuso in prigione che scrive la storia sulla base di quel che la memoria, non l' archivio, gli consente. Tramandiamolo allora come un meraviglioso (non) gol e annulliamo l' arbitro. Quanto al lontano cugino di Filottrano, lasciamolo pure nel dubbio.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

Trabzonspor-INTER 1-1

Ottima partita di Ricky e poco altro... ma siamo qualificati come primi del girone.

INTER-Cagliari 2-1

Ossigeno prezioso... e gran gol di Coutinho.

sabato 12 novembre 2011

SuperMario

La pecora nera, come gufava il ct nemico Smuda, ha trovato invece il tocco del fenomeno, annerendo l’arena di Wroclaw. Magari ha solo fatto il promo sul palcoscenico dei prossimi Europei, dove vuole arrivare da star. «E se continua a giocare così, diventerà uno decisivo», sorride alla fine Cesare Prandelli.
Ecco a voi Mario Balotelli: freccette, petardi e gol, sempre più spesso. Mica può essere una rete normale: la prima in Nazionale, al sesto tentativo. La prima di un giocatore di colore nell’Italia. Il nostro piccolo Obama. Uno che ha già iniziato a far cambiare le cose. Per esempio ammutolendo lo stadio dove dentro c’erano una decina di Ultrà Italia, quello stesso gruppo che, un anno fa, lo fischiò a Klagenfurt. «Non ci sono negri italiani», era stato il simpatico gingle. Altroché: ci sono, giocano, segnano, e ti fanno vincere le partite. Pure per questo il ct esce dagli spogliatoi con il sorrisone: «Complimenti a Mario e alla squadra, è stata un’ottima partita. Sono soddisfatto perché, al di là del gol, lui è sempre stato in partita, facendo quello che gli è stato chiesto». Giocare.

Perché sempre io? D’ora in poi SuperMario potrà infilarsi sempre quella maglietta, ma non per le boiate che combina, anche se lui dice son cose divertenti, ma per le reti segnate. Prenditi l’Italia, gli aveva chiesto Prandelli, e così è stato. Con i suoi tempi, però. Con le sue liturgie. Avvio lento, quasi da scontroso. Da incavolato con il mondo. Anzi, orribile. Due palloni toccati e due falli, fatti. Un paio di scatti, e tutti giù per terra, scivolando. Pareva una serataccia. Unico avvistamento dopo 23 minuti, con un colpo di testa alto. Per sbucare nella partita gli ci vuole mezz’oretta. Prima l’assaggio: dribbling e tentativo di tiro a giro, un po’ scolastico. Dopo qualche secondo è già docente. Controllo sulla frontiera dei 25 metri, un’occhiata al portiere, pericolosamente sul pianerottolo, e dolce fiondata sotto la traversa. Il pallone cala alle spalle del polacco accarezzando la rete. Quasi irridente, da nemico di Premier Laegue, visto che il povero Szezesny di mestiere fa il guardiaporta dell’Arsenal.

Tant’è bello il colpo che per qualche minuto, in tribuna, ci si chiede se quell’infernale parabola non sia frutto di qualche complice deviazione: macché, è tutta roba di Balotelli. Però al gol bisognerebbe esplodere, invece lui implode. Se ne sta fermo, porta un pezzo di maglietta alla bocca e niente. Sono gli altri che gli corrono addosso, e lo sommergono. Fa più rumore il silenzio del pubblico, ammutolito. Perché c’è qualche fischio, più polacco che degli Ultrà Italia. Ma stavolta il razzismo non c’entra: è la rabbia che lanci sempre contro il più forte, quello che ti ha battuto. Gli avversari e gli incivili. SuperMario starà muto pure quand’è finita, filando sul pullman con il berretto azzurro calato sugli occhi. Come dire: niente parole ai posteri, basta e avanza la conferenza dell’altro giorno.

Poi però non è che il bad boy s’è fatto boy scout. Prendi l’avvio di ripresa: abbattuto con una spallata da Murawski, Balotelli alza la gamba per agganciarlo, e un po’ ci riesce. Nulla di irreparabile, un po’ da bulletto però sì. Non sarebbe lui. Da protagonista dell’Europeo, chiede un polacco. Prandelli sorride: «Lo speriamo tutti».

di Massimiliano Nerozzi; LA STAMPA

Polonia-ITALIA 0-2

Mario Balotelli, per chi non l'avesse ancora capito, è un fuoriclasse.

mercoledì 9 novembre 2011

Amico gipsy

Ci sono libri che dovrebbero togliere la smania di giudicare, per aiutarci semmai a capire. "Io, Ibra" è uno di questi. È la ponderosa storia (396 pagine!) del campione milanista, scritta da David Lagercrantz, in uscita in Italia a fine settimana per Rizzoli. Nelle anticipazioni svedesi si è molto parlato degli attacchi di Ibra a Guardiola ("il vigliacco meditabondo") e al Barcellona (" quella m... di collegio").

Ma dentro questo racconto c'è ben altro. Non è solo un libro di sport. È invece un viaggio nel dolore infantile (è dedicato "ai bambini che si sentono un po' strani e diversi"), nel disagio sociale, nell'abbandono. È una lunga trama di solitudine. Qui s'incontra un bimbo maltrattato dalla famiglia, scisso in un'identità meticcia non solo per questioni di provenienza geografica (il padre Sefik, bosniaco, muratore, la madre Jurka, croata, donna delle pulizie), alle prese con una sorella tossica e un papà alcolista, cresciuto in un sobborgo svedese con gli assistenti sociali alle calcagna, e senza amore.

Ecco, nella ferita del non amato Ibra è impressa la matrice di tutto il resto: ovviamente non giustifica i furti di biciclette o le bravate ai 250 all'ora, le risse con i compagni e lo spaventoso egocentrismo non solo calcistico, ma qualcosa spiega. Non serve una laurea in psicologia per capire come
quel ragazzino balbuziente, magrissimo, basso (uno scoop) e col naso enorme, bisognoso del logopedista per imparare a dire la esse, avrebbe cominciato a prendere a cazzotti la vita per essere qualcuno, per sentirsi qualcosa.

La biografia di Zlatan Ibrahimovic è impietosa e aspra, piena di spigoli proprio come lui. Il bambino nasone grida io esisto. Irriverente, non sopporta la disciplina, le lezioni morali, le regole. Nel libro ci sono le lacrime di Moggi ormai finito, un provino per il Verona, nientemeno, i trucchi e i ricatti ogni volta che Ibra vuole cambiare squadra: non proprio un lord della trattativa.

E ci sono molti ritratti. Capello è glaciale, ma solo con lui si comincia a crescere. Guardiola è perbene, ma falso. Mourinho è un divo, ma pieno di passione, segue tutto dei suoi ragazzi, sa farsi amare perché ama. E Maxwell è un vero amico. E Beenhakker un pallone gonfiato. E Ronaldo il mito assoluto. E Van Basten un modello. E Mancini un fighetto di sostanza. E quella Juve, la più grande squadra del mondo, piena di uomini d'acciaio, altro che Calciopoli.

C'è un personaggio, in questo romanzone d'appendice, che svetta su tutti: il "ciccione idiota, quel meraviglioso ciccione idiota" di Mino Raiola, il procuratore con l'aria di uno scappato da casa. Quello che va a trattare affari milionari in t-shirt e Nike sfondate, quello che teneva i conti in pizzeria, quello partito da Nocera Inferiore, periferia estrema, un po' come il sobborgo svedese di Rosengard, cioè il ghetto di Ibra, le sue radici: i due si sono piaciuti anche per questo, per una sporca faccenda d'identità condivisa. Poi, certo, Mino tira a fregare tutti e governa senza scrupoli le strategie di Ibra, complice e non solo procuratore: pensavate che il calcio fosse popolato solo da gran signori? In che mondo vivete?

L'altro personaggio importante è Helena, la moglie manager, undici anni in più di Ibra e parecchio sale in zucca. Prima di innamorarsi e sposarlo lo ha accudito, lo ha protetto: i bambini non amati ne hanno bisogno. Ed è così, tra una coccola e un gol di tacco, che lentamente le ferite si rimarginano (scomparire, mai), insieme ai ricordi brutti con i quali scendere a patti: un padre non più perduto e lontano, due figli piccoli dentro una nuova vita, il segno remoto della meningite, l'immagine di un frigorifero sempre vuoto e vagonate di pasta con il ketchup, un paio di scarpette da calcio prese al supermarket. Questo è Ibra, questa la sua antipatica fragilità. Ma dal dolore è germogliata anche tanta bellezza.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica
 

venerdì 4 novembre 2011

martedì 1 novembre 2011

giovedì 20 ottobre 2011

Ago

Non era un tipo facile. Ma è stato unico. Non era amore. Erano viscere. Agostino Di Bartolomei e la Roma. Più forte di qualunque tradimento perché per quelli come lui c'è sempre un perdono (Tradimento e perdono è la canzone che gli dedicò Venditti). Il 31 ottobre, nella Sala Petrassi dell'Auditorium, alla Festa del cinema di Roma, verrà proiettato 11 metri, il docufilm col quale Francesco Del Grosso ha cucito talento e misteri della sua vita, la semplicità ("il calcio è semplicità", scriveva Agostino) e la potenza. Calciatore "serio", uomo sedotto dallo "spleen", Ago si è suicidato a 39 anni, 17 anni fa. Parlano i suoi amici, i compagni di squadra, i massaggiatori, i medici, i sindaci. La moglie Marisa che incontrò ad una festa noiosa. Il figlio Luca che lo chiama Ago: "Con un gesto stronzo mio padre mi ha lasciato il vuoto ma mi ha insegnato ad amarlo". Quando esultò dopo aver segnato il gol del 2-1 Ago aveva la maglia rossonera perché qualcuno a Roma gliene aveva strappato di dosso un'altra, costringendolo a traslocare. Si giocava Milan-Roma. I romanisti si sentirono a loro volta traditi. Al ritorno lo fischiarono. Lui rischiò di prendersi a pugni con Graziani. L'Olimpico si divise. Ma non per molto.
Agostino è rimasto Agostino. Con la sua parlata a singhiozzo e quegli occhi scuri che guardavano un punto sempre troppo lontano per capire cosa fosse e sempre troppo vicino per essere messo a
fuoco. Un atleta così diverso dai mercenari in mutande, così simile a certi scrittori, o cantautori, o pittori, che sono morti giovani e che per questo è difficile immaginare anziani (Nick Drake, Arthur Rimbaud, Caravaggio). È stato il capitano dello scudetto dell'83. La sua identificazione con la città era totale. Ago era la gente. Con Liedholm condivideva la cultura. Parlavano di tutto, soprattutto di quadri: "Andavano insieme per musei trascinando anche me", ricorda Righetti nel film. Soffriva anche in quei giorni? Non lo sapremo mai. Certo stupisce ancora la sua riluttanza alla gioia. Nei ristoranti, con la squadra, rimaneva sempre in disparte. Nelle interviste era come se gli fosse appena morto il gatto. Dopo la sua rete più importante, il rigore realizzato contro il Dundee nella semifinale di Coppa dei Campioni, si limitò a disincagliare il pallone dalla rete e portarselo a centrocampo. Come a dire: "Non la facciamo troppo lunga". "Oooh Agostino! Ago-Ago-Ago-Agostino, gol!", intonava la Sud.
Si parla tanto di bandiere. Lui lo è stato. Da ala destra si trasformò in centrale di difesa, nell'uomo in più che ispirò Paolo Sorrentino per il suo primo film. Delle sue punizioni a Roma si diceva che le tirasse anche "da casa sua", anche da 35 metri. Senza di lui la Roma del Barone sarebbe stata meno compatta. Sopportò che per affetto lui e Prohaska venissero ribattezzati "lenti a contatto". Non gli importava. Si lamentava che la Roma lo avesse costretto a scappare (persino Renato Guttuso si espose per evitarne la partenza) e non lo avesse mai più cercato: "Il suo spessore intellettuale avrebbe fatto bene alla Roma", ammette l'attuale ds giallorosso Sabatini. Che promette: "La nuova Roma sfrutterà il patrimonio culturale di Agostino. Per dare una svolta al modo di avvicinarsi al calcio, di viverlo. In nome dei giovani e non solo".
Si ritirò dopo aver riportato in B la Salernitana. Era convinto che il calcio non lo volesse più. Aveva ragione. Era troppo integro. Non accondiscendeva. Che gli affidassero degli incarichi importanti era impossibile almeno quanto un asceta cattolico potesse aspirare ad avere un ruolo nelle prime società calviniste. Bearzot non lo chiamò mai in Nazionale. Lui non disse nulla. Come quando si sparse la voce che avesse appeso al muro Falcao dopo la sconfitta col Liverpool. Ago si portava dietro i profumi e i sentimenti della fanciullezza, della pozzolana, di quando giocava alla Chiesoletta, o sulla spiaggia del Lido di Cincinnato o sul campo dell'Omi a Tormarancia, dove lo pescò Trebiciani. Sua moglie Marisa: "Forse dopo aver smesso doveva essere più coraggioso". Ago ci stava provando. Da pensionato sognava una scuola calcio. Avrebbe voluto costruire una Trigoria a Castellabate (il paese di Marisa, recente location di Benvenuti al sud), nel Cilento, dove ormai viveva. Qualcuno deve avergli sbattuto la porta in faccia. Tanti anni prima lo avevano rapinato in un ristorante sull'Ardeatina: prese il porto d'armi e da quel giorno dentro il suo borsello (per cui molti lo prendevano in giro) c'è sempre stata una Smith & Wesson calibro 38. A portata di crisi: "Si sentiva minacciato", racconta un suo amico. La porta in faccia deve aver contribuito a caricare quell'arma. Sappiamo tutto delle formidabili coincidenze. Agostino si è ucciso 10 anni dopo Roma-Liverpool, la mattina del 30 maggio del '94. Quel giorno l'Ago della bilancia si è spostato verso la parola fine. Invocando l'ultimo perdono.

di Enrico Sisti; la Repubblica

mercoledì 19 ottobre 2011

Calma e gesso

E' un'ovvietà, ma è anche la sintesi estrema di questa Inter, l'origine dei suoi problemi e dei suoi affanni: "Non siamo al 100%, né lo saremo presto. Dobbiamo gestire questa fase, cercando di portare i giocatori al massimo della forma ma continuando ad affrontare i nostri impegni". E' appena terminata Lille-Inter, grazie al gol di Pazzini e alla buona prova del collettivo il sorriso è meno tirato rispetto alla vigilia, così Ranieri può distendersi e raccontare i suoi problemi: "Abbiamo bisogno di ritrovare la condizione migliore, tutti insieme. Pian piano ci riusciremo, ma il momento rimane delicato, dobbiamo fare attenzione. La vittoria col Lille è meritata, la squadra mi è piaciuta, però c'è ancora molto da lavorare". Perché il problema principale dell'Inter è proprio lo stato di forma generale, la condizione atletica che non è omogenea.
E' stata un'estate particolare, che ha condannato tutti alla precarietà: la Supercoppa da giocare a Pechino il 6 agosto, la Coppa America per tutto il mese di luglio, i tanti infortuni non hanno permesso di svolgere un'adeguata preparazione atletica. Per questo Gasperini, al di là dei suoi errori di valutazione (uno su tutti: aver preferito questo Milito a questo Pazzini), non ha mai avuto tra le mani una squadra brillante, ed è rapidamente affondato; per questo Ranieri, dopo un buon avvio, ha inciampato rovinosamente su Napoli e Catania, prima di riprendersi in Francia. Perché i giocatori non hanno ancora una condizione ottimale, o uguale per tutti.
L'Inter parte sempre bene, poi si affloscia nel secondo tempo. Oppure spesso si nota la mancanza di freschezza di alcuni elementi, soprattutto i più anziani, quando il ritmo si alza. Non sono ancora al top, gli interisti, nessuno di loro. Tutti, a parte l'innaturale Zanetti - che per certe cose non fa testo - hanno accusato infortuni più o meno lievi che ne hanno ritardato o interrotto la preparazione, e risalire è difficile quando la stagione entra nel vivo, perché non ti puoi allenare con continuità a causa dell'incalzare degli impegni. Da qui gli enormi problemi nell'assemblare la squadra da parte di Gasperini e Ranieri, anche se il tecnico romano finora è parso più realista del predecessore, provando a rischiare il minimo indispensabile e optando per assetti poco spregiudicati, come nell'ultima uscita a Lille.
Non c'è ancora la brillantezza, dunque bisogna giocare più in difesa, più 'bassi', evitando sbilanciamenti inutili. E' l'unico modo per uscire dal pantano. E ora che nel girone di Champions le cose si sono parecchio aggiustate, l'Inter deve registrarsi in campionato, dove la classifica è la peggiore di sempre. Ci sono sedici squadre prima dei nerazzurri ed è sinceramente troppo, troppo brutto per essere vero. I prossimi tre impegni non si possono fallire, altrimenti la questione si farebbe imbarazzante: Chievo, Atalanta e soprattutto Juventus, nei prossimi dieci giorni, racconteranno altre verità sull'Inter. Che è ancora alla ricerca di se stessa e delle sue gambe perdute, ma a Lille ha fatto intuire di avere ancora del fuoco dentro di sé.

di Andrea Sorrentino; la Repubblica

Lille-INTER 0-1

Una fondamentale boccata d'ossigeno. Ottimo primo tempo, ripresa catenacciara a causa del consueto vuoto di benzina nelle gambe.

lunedì 17 ottobre 2011

Presidente

Caro Massimo, non te lo meriti. Non meriti di sprofondare in disonorevoli cori, in striscioni insultanti, in scioperi del tifo. Non lo merita la tua passione infinita e a volte donchisciottesca, non lo meritano i cinque titoli in cinque anni (sì, cinque e che gli altri si mettano l’anima in pace), non lo merita il triplete, anzi il quintete, non lo meritano tutti i campioni ( e gli allenatori, anche quelli) che hai fatto sfilare a San Siro.
Ma, Massimo, lo sai che finirà così, che quest’Inter che se la deve giocare con Bologna e Lecce è uno scherzo surreale. Che la memoria del tifoso è più volubile di un maggioranza parlamentare. E gli striscioni, gli scioperi, gli insulti arriveranno puntuali. Tu che le contestazioni, fossero contro giocatori-mister-nemici-arbitri, te le sei sempre risparmiate.
Perché Massimo, a noi fin qui devoti nerazzurri, devi dire la verità: non ti puoi nascondere dietro fair play finanziari o l’Inter-che-punta-sui-giovani. Devi dirci se i soldi sono finiti. Se la tua inesauribile adesione alla causa non significhi più inesauribile disponibilità. Se i Gasperini o i senatori dello spogliatoio che-ti-darebbero-gli-ordini sono alibi. Ricapitoliamo velocemente: avevamo puntato subito sull’erede di Leonardo. Inchiodato dal destino, il vice Mou che prova a fare il Mou, sulla panchina dell’Inter si doveva sedere Villas Boas. Quindici milioni per liberarlo. Troppi. E poi è andata come è andata.
Secondo capitolo, campagna acquisti: un’Inter come quella dell’anno scorso, una rincorsa col fiatone sul Milan e una disonorevole eliminazione col carneade Schalke 04, andava rifondata. Un forte difensore centrale, due centrocampisti di livello europeo, una punta coi fiocchi. Bale? Mascherano? Aguero? Sanchez? No, costavano troppo. Quindi Alvarez, Jonathan, Forlan, Zarate.
Caro Massimo, qualcuno dirà: nei giorni del tuo regno, l’Inter (e gli interisti) simil tempi cupi li han già visti. No, al netto di calciopoli varie e di squadre mal assemblate, no, simil tempi cupi, almeno negli ultimi 15 anni, non li abbiamo visti mai. Perché prima di diventare campioni a giugno, eravam sempre campioni d’estate. Le nostre formazioni balneari avevano già vinto lo scudetto ad agosto.
Nel (finora terribile) campionato di grazia 2011-2012, l’Inter non è mai stata competitiva, perché non lo era ancor prima di cominciare. La storia del “progetto in divenire” (sempre che ci sia) non funziona, l’Inter non sarà mai l’Udinese, l’Inter deve vincere subito. Se l’era del calcio al petroldollaro non cambia, vendi dunque agli arabi Massimo, finché sei in tempo. O dicci la verità. Perché, qui a Milano, il derby col Monza lo ha giocato una sola squadra.

di Matteo Cruccu; IL CORRIERE DELLA SERA

domenica 16 ottobre 2011

Catania-INTER 2-1

Sconfortante...

Yeongam

Indovinate un po' chi è arrivato davanti a tutti? Sì, lui.

Finalmente Toro

Ventisei punti: record as­soluto in serie B dopo 10 giornate (8 vittorie e 2 pareg­gi, solo la Juventus 2006-07 aveva tenuto un passo così, ma di punti ne aveva 17 per la penalizzazione di 9 punti dovuta a Calciopoli). Torino unica squadra imbattuta della B. Cinque successi con­secutivi: il Toro non ci riu­sciva dalla stagione 2005-06 con De Biasi in panchina. Cinque vittorie esterne con­secutive: è la prima volta per il Torino dal ‘29 in avanti (gi­rone unico), l’unico prece­dente è del 1915. Appena 5 gol al passivo: miglior difesa del campionato. Basterebbero questi numeri per fotografare lo splendido momento della formazione granata. Ma le cifre non spiegano la grande forza di carattere di una squadra che ha saputo assorbire anche lo shock emotivo dell’inciden­te automobilistico che li ha coinvolti domenica scorsa. Gli occhi di questi ragazzi hanno visto la morte atroce di loro coetanei e certe im­magini non si dimenticano. Alcuni hanno reagito più di altri, tutti ne hanno sofferto. Per questo motivo la vittoria su una squadra solida e ben organizzata come la Juve Stabia ha un altissimo valo­re. Testimonianza della qua­lità dei giocatori, ma anche del loro spessore umano. Al­la fine Torino-Juve Stabia 1-0: fuga in classifica con un tuffo nel cuore.

di Paolo De Paola; TUTTOSPORT

domenica 9 ottobre 2011

Suzuka

Sebastian Vettel concede il bis. F1 World Champion 2011.
Congratulations.

Utopia(?)

Una partita di calcio senza arbitri, splendida utopia. In Italia ci stiamo provando, cominciando con i bambini piccoli. Con i Pulcini, mini atleti tra gli 8 e i 10 anni. L’iniziativa è del Settore Giovanile e Scolastico della Federcalcio che presiedo. Non voglio, però, prendermi meriti che non ho. Il progetto parte da lontano, io ne ho solo accelerato l’attuazione. Per avere un calcio dei «grandi» più responsabile, più educato, con meno tensioni in campo, non ci sono alternative: bisogna cominciare a lavorare su quelli che saranno i giocatori, i tifosi e magari anche i giornalisti di domani. Responsabilizzarli, insegnare loro bene le regole, far capire quanto sia difficile decidere in una frazione di secondo. E allora, ecco l’idea: i Pulcini si arbitrano da soli. Discutono e decidono. Confortanti i primi test. Io, addirittura, li vorrei vedere correre dietro al pallone in un campo senza linee. Liberi di trovare il ruolo e la collocazione più appropriati. Mi accontento, per ora, di abituarli ad autogestirsi le partite. Se i genitori li lasceranno fare, cresceranno più in fretta. Non solo come sportivi. Avremo persone migliori. E un calcio più bello.

di Gianni Rivera; LA STAMPA

giovedì 6 ottobre 2011

Il cafone di Bari Vecchia

Il codice etico che dovrebbe sovrintendere al comportamento dei calciatori in Nazionale forse è salvo ma quanto è successo ieri dimostra che la gestione di Cassano da parte del ct e della Federcalcio è discutibile. Il barese, che al Milan tiene le orecchie basse perché è un oggetto decorativo da esibire solo quando gli altri stanno in riparazione, a Coverciano rispolvera atteggiamenti da ras del quartiere. Ieri senza alcun motivo ha insultato e offeso pesantemente un giornalista che, a suo dire, stava troppo vicino al bar dove lui si trovava.

La storia è finita con le scuse del giocatore, anche perché si dice che Prandelli abbia minacciato di tenerlo fuori squadra se non le avesse porte, ma a Cassano è consentito un atteggiamento che altri non possono permettersi. Se bastano le scuse forzate per evitare sanzioni, suggeriamo agli altri azzurri di tenerne sempre qualcuna a portata di mano. Dopodiché facciano cosa vogliono.

di Marco Ansaldo; LA STAMPA

domenica 2 ottobre 2011

martedì 27 settembre 2011

CSKA Mosca-INTER 2-3

Bella partita. Vittoria molto pesante e oserei dire fondamentale. Fenomenale la rete decisiva di Zarate.

lunedì 26 settembre 2011

Singapore

I) Vettel Sebastian, 10 e lode: al solito dopo un paio di giri ha già ucciso la gara.
II) Button Jenson, 10: definirlo semplicemente il pilota più intelligente del paddock è riduttivo, perché sa guidare come pochi.
III) Webber Mark, 7: da tempo, in un modo o nell'altro, delude e prende mazzate da Vettel più che in passato.
IV) Alonso Fernando, 9: fa i salti mortali con una macchina spudoratamente disatrosa.
V) Hamilton Lewis, 8: va bene, sarà un un gradasso, ma senza di lui sai che sbadigli...
IX) Massa Felipe, 4: dissimula alla perfezione tutta la sua felicità: Hamilton gli offre una scusa più che plausibile.

sabato 24 settembre 2011

Bologna-INTER 1-3

Finalmente si torna alla vittoria subito dopo l'arrivo di mister Ranieri, ma ancora grazie a mister Gasperini, come ha sottilineato el Principe alla fine della partita.

venerdì 23 settembre 2011

mercoledì 21 settembre 2011

Che bello! Sbagliando non s'impara

Meno male che Fiorello (interista come il ministro La Russa che, essendo della Difesa, vorrebbe subito arruolare Zenga) è imitatore a tutto campo, sennò gli avrebbero tolto di mezzo un soggetto. Tutti consigliano Moratti, che di consigli non ha bisogno: sa sbagliare di suo.

«Non credo che resti» aveva detto quando gli si era fatto giorno, Massimo Moratti. L’allusione era per Gasperini, detto Gasp, che pare la parola d’un fumetto: la vignetta nerazzurra di stagione. Essendo Moratti il patron, per non dire il padrone, c’era da giurare che non sarebbe restato. E del resto quella panchina è sempre calda, per non dire scottante, sotto qualsiasi gluteo che non sia quello di Mourinho. Che ha deciso lui di andarsene e potrebbe decidere di tornare ora che al Real non si sente più a suo agio e che Guardiola, da Barcellona, gli fa ombra.

Ma questa è soluzione di giugno: vedovo di Mourinho l’Inter ha cercato di sposare Benitez, ma questi ha lasciato la panchina coniugale come del resto ha fatto Leonardo, che al petroliere che il petrolio raffina ha preferito gli sceicchi che il petrolio lo estraggono, basta una buchetta.

Gasperini, in realtà, era un ripiego, come sarebbe stata una sorellastra di Cenerentola per il principe nerazzurro. Prima la grande Inter aveva incassato una raffica di no, da Bielsa a Villar Boas, lungo tutto l’alfabeto.

Ora dice Moratti che non crede che l’Inter si affiderà a Baresi-Bernazzani, i due che l’hanno allenata ieri mattina dopo “la fatal Novara”, che ha tolto il sonno al vincitore Tesser, incapace di dormire per l’eccitazione, ma anche agli interisti, incapaci di prender sonno dopo la figuraccia. I nomi si rincorrono: Delio Rossi, oppure la scommessa Figo per farne il Pep della situazione, o l’olimpica calma di Claudio Ranieri, o magari Ancelotti (milanista doc sì, ma anche Leonardo), per non parlare di Spalletti che ha caldo in quel di San Pietroburgo. Del doman non c’è certezza.

Del resto chi ha certezze nel calcio? Spiritosamente, parlando d’altro ma è la famosa storia della nuora e della suocera, Luis Enrique ha commentato: «Alla Roma l’unica certezza è che l’allenatore sono io: per questa settimana».

Speriamo per la Roma di più.

di Piero Mei; Il Messaggero

Novara-INTER 3-1

Mi dispiace per noi tifosi e mi dispiace per mister Gasperini che sarà l'unico a pagare. Il minore dei colpevoli. Vero Presidente?

martedì 20 settembre 2011

giovedì 15 settembre 2011

INTER-Trabzonspor 0-1

Mister Gasperini, tenga duro. Datevi una mossa, ragazzi. Presidente, usi meglio e di più il cervello.

mercoledì 14 settembre 2011

Avanti Savoia

Continuare a pedalare.


Chi l'avrebbe mai detto

Quando Thiago Silva ha segnato la rete del pareggio ho (pacatamente) esultato. Forse perché contro il Milan ha giocato un Barcellona ricco di presuntuosi palloni gonfiati.


Il fantastico mondo di Devis, uomo vero

Al teatro del campionato di calcio 2011-2012 la prima scena madre è un dettaglio. Lo scoprono le telecamere di Sky nelle pieghe della notturna Palermo-Inter. Da una postazione a bordo campo inquadrano la panchina della squadra di casa. Seduto, l' allenatore per caso. Uno che si chiama Devis, più o meno come un' insalatiera per tennisti, «perché ai miei piaceva il suono». Uno che fino all' ultimo giorno di mercato allenava la Primavera e ora cavalca l' estate.E se ne sta lì, questo è il bello, a scrivere su un taccuino, il polso "ingioiellato" da un braccialetto di conchiglie e laccetti vari. Ai Mondiali di Germania il grande Edmondo Berselli scrisse che Lippi ostentava un «bracciale da bagnino» e s' aprì il cielo. Con Devis credo siamo ancora al tempo della opportuna semplicità e mi permetto quindi di ipotizzare che abbia beneficato un ambulante di Mondello, piuttosto che Cartier. Che l' uomo sia ancora praticabile lo sospetto per via della risposta dataa chi nel dopopartita gli chiedeva: «Mangia, che cosa scriveva su quel taccuino: appunti tattici alla Mourinho?». «Mah, niente, cose così, per distrarmi e scaricare la tensione». Ecco: è liberatorio pensare che mentre il tassametro Uefa correva, Moratti ingialliva, Gasperini sudava nel completo Versace, Miccoli ringiovaniva e il pubblico del Barbera s' innamorava, quest' uomo sbucato da una curva del nulla, infilato dentro un' insapore maglia grigia, stesse rilassandosi scrivendo dieci volte di seguito: «Zarate è un pirla», o giù di lì. È bastato poco per affezionarsi irrimediabilmente a Devis. In un mondo di manichini, quando spunta un uomo lo riconosci dal polso. E dalla storia. Mangia è stato annunciato dagli squilli di tromba dell' imprevedibile. Doveva stare al tavolo dei bambini, è finito con i grandi. È tutta estate che Zamparini freme, non ce la faceva a non essere all' altezza di se stesso o, almeno di Cellino. «Quello caccia l' allenatore prima del via e io no?». Il colpo di scena è stato che si sia fidato di uno sconosciuto anziché richiamare uno dei riservisti. Ma il bello della vita è anche nella sua capacità di riequilibrare l' inedito con lo scontato. Ieri sera a fine partita scommettevo con me stesso: «Domani Zamparini dice che ha scoperto il nuovo Sacchi e che se lo tiene per tutto l' anno». Con lui si sbaglia sempre per difetto: per i paragoni si è trasferito all' estero, evocando Wenger, e gli anni sicuri son diventati due. Che nemmeno la garanzia della Apple. Devis, che l' ha sgamato, preferisce vivere letteralmente alla giornata dicendo: «Mi sono assicurato un' altra domenica». Che arrivi da un mondo parallelo lo dimostra anche il fatto che si prende responsabilità non sue: «Se la Primavera del Palermo ha perso è colpa mia che ho fatto la preparazione». I suoi colleghi tendonoa scaricare anche le proprie accusando "disattenzioni" (Gasperini) o "episodi" (Bisoli). Ma la vera antitesi di Devisè Luis Enrique. Anche lui ex vice alla prima panchina, prelevato dal Barcellona, anziché dal Varese. Nella "scena matrigna" della prima giornata pure l' ispanico scrive qualcosa mentre il gioco scorre. Invece di un taccuino impiega però una "lavagna magica" su cui traccia i ghirigori di strategia della riscossa. Invece di tenerli per sé, li mostra a De Rossi spiegandogli che quella è la chiave della rimonta. E invece il Cagliari raddoppia, disegnandogli una seconda piega nell' abito blu. Il calcio sta diventando nostalgia canaglia per noi che l' abbiamo visto crescere. Fatichiamo a raccontare ai ragazzi di oggi le favole incredibili del Petisso Pesaola o del cremlinesco Giagnoni. A evocare giacche stazzonate, colbacchi, loden portafortuna indossati a maggio e tutto quel guardaroba di scaramanzie e caratteriali deviazioni che erano il segno distintivo di altrettante personalità. Per le ultime generazioni l' allenatore è una questione di stile, presenza mediatica e file sul computer. Ogni tanto si affaccia la prova contraria, flebile come un' ipotesi. Bisogna coglierla al volo e indicarla: guarda quell' uomo con le conchigliette che scarabocchia sul taccuino. Vedi che un' occasione può capitare anche alle persone semplici? Non cedere mai alla tentazione del rammarico, abbi fiducia nel destino e, perfino, in Zamparini. Almeno fino a domenica.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

lunedì 12 settembre 2011

Monza

Si torna a scuola e io do i voti alla F1:
I) Vettel Sebastian, 10: gara eccezionale dopo una partenza infelice.
II) Button Jenson, 9: solita rimonta silenziosa. Infila in un colpo solo Hamilton e Schumi.
III) Alonso Fernando, 8: partenza perfetta che gli regala la testa della gara. Viene riacciufato prima da Vettel e da Button perché guida un'auto palesemente più lenta.
IV) Hamilton Lewis, 5: un'altra delusione. E quando respira gli scarichi di Schumi si lamenta via radio come un bambino. Stranamente anonimo.
V) Schumacher Michael, 9: amarcord. Sfida d'altri tempi con Hamilton: lo tiene a bada con tutta la sua classe.
VI) Massa Felipe, 5: oggi può accampare una scusa vera, il tamponamento di Webber: ovviamente lo fa, ma è una bugia, perché l'australiano gli regala così una posizione.
IX) Senna Bruno, 8: con quel nome ha sempre molti occhi addosso. Acciuffa i primi punti della sua carriera, anche se in partenza perde qualche posizione per lo strike di Liuzzi.

Ritiro) Webber Mark,  3: pessima qualifica, partenza lenta, nella foga di rientrare nel gruppo che conta tampona Massa e perde il muso della sua RedBull. Cosa fa? Anzi, cosa non fa? Non se ne accorge (ipse dixit), si presenta alla curva dopo a tutta birra senza carico sull'anteriore, frena normalmente, ma le ruote non fanno altro che bloccarsi: arriva lungo, esce di pista e centra le barriere. Gara finita.
Ritiro) Liuzzi Vitantonio, 2: tenta di fare una partenza con i fiocchi passando buona parte del gruppo all'interno: è troppo interno, troppo veloce e troppo maldestro. Finisce sull'erba, perde il controllo e travolge e coinvolge una marea di disgraziati. Un disatro per sè, una calamità per gli altri. Come se non bastasse, con supponenza, si presenta ai microfoni incolpando Kovalainen.

Palermo-INTER 4-3

Cominciamo bene...

mercoledì 7 settembre 2011

ITALIA-Slovenia 1-0

Il Pazzo Pazzini, entrato dalla panchina, sblocca il risultato e ci qualifica aritmeticamente a EURO 2012. Balotelli gioca solo un quarto d'ora come sempre dovrebbe fare: a mente sgombra, tranquillo, niente broncio, senza cercare lo scontro con gli avversari, si diverte e ci diverte, fa sfracelli, dribbla e sfiora il gol con una bomba dai 35 metri e dagli spalti del Franchi tutti cantano il suo nome.

Isole Fær Øer-ITALIA 0-1

Pessima partita per un ottimo risultato.

giovedì 25 agosto 2011

Grazie a tutti

"Mi sembrano giusti e doverosi alcuni ringraziamenti a persone che mi hanno dato molto in questi due anni fantastici che ho trascorso nell'Inter. Vorrei, innanzitutto, rivolgere un sentito ringraziamento ed il mio saluto più cordiale al Presidente, Dott. Massimo Moratti, ed alla sua famiglia per tutto quanto ha fatto e per la disponibilità dimostrata nei miei confronti e dei miei cari. Rimarrò sempre legato al Dott. Moratti per la stima e l'affetto che mi ha dimostrato in questi splendidi anni. Per poi passare a tutti i compagni di squadra, consapevole che - senza il loro incoraggiamento ed aiuto in campo - l'Inter non sarebbe riuscita ad ottenere numerose ed importanti vittorie sia a livello nazionale che internazionale. Un particolarissimo saluto - anche - a tutti i calciatori italiani e stranieri che mi hanno permesso di essere migliore di partita in partita.

Un sentito ringraziamento anche agli allenatori dell'Inter di questi anni e, soprattutto, a Mister José Mourinho che mi ha voluto fortemente, per l'opportunità che mi ha dato portandomi a Milano.

Un caro saluto anche a Marco Branca, Direttore dell'Area Tecnica, al Direttore Sportivo, Piero Ausilio, al Team Manager, Andrea Butti, e a tutto il personale di F.C. Internazionale e del centro sportivo "Angelo Moratti" di Appiano Gentile: medici e fisioterapisti, accompagnatori, cuochi e camerieri, magazzinieri e giardinieri e a tutti le persone di Inter Channel.

Non dimenticherò mai l'affetto dei tifosi interisti (Mauro il più grande di tutti) che mi hanno fatto sentire uno di loro e che mi hanno sempre sostenuto ed aiutato. Così come a tutti i giornalisti che ho avuto il piacere di conoscere.

Sento, altresì, il dovere di ringraziare la mia 'mama italiana' - Ciacia Guzzetti - per il suo aiuto ed il mio Super Manager - Claudio Vigorelli - per l'impegno e la professionalità che ha dimostrato.

Grazie ad un interista doc mi sono sentito 'italiano': Marco Materazzi. Grazie fratellone mio.

Sperando di non aver dimenticato nessuno, ancora grazie a Voi tutti!"

Samuel Eto'o

... Mi permetto d'aggiungere "grazie a te, Samuel".