L’«ufficio» di Fernando Alonso e Felipe Massa a Maranello è una cabina nera che sembra uscita da un film di alieni e oscilla su sei bracci telescopici. Si chiama simulatore di guida: un sistema che sta ai videogiochi come una Formula 1 a un’utilitaria. Oggi che i test in pista sono proibiti, è qui che i piloti si allenano, sviluppano la vettura e la preparano per i gran premi. La Ferrari per la prima volta l’ha fatto provare a quattro giornalisti dopo una selezione sul simulatore statico della pista di Fiorano. Il mio tempo sul circuito virtuale è 1’08’’, quello di riferimento del collaudatore Andrea Bertolini 59’’. Promosso all’«astronave».
L’ingresso avviene attraverso una botola. L’ingegnere mi consegna il casco, mi fissa le cinture di sicurezza e mi dà le istruzioni base: «Le gomme sono già calde, per frenare dai un pestone forte al pedale, ma non rallentare troppo sennò il motore stalla. E non toccare i pulsanti sul volante: non hai il tempo per capire come funzionano». Suggerimento superfluo: non mi sarei mai sognato di complicare una situazione già così complessa. Il test può cominciare: la stanza, grande come mezzo campo da tennis, è buia. Le uniche luci, oltre al maxischermo a 180 gradi che mi spalanca davanti la pista, sono i led sul volante. Un impianto home cinema fa vibrare il motore otto cilindri virtuale. Partenza lanciata, curva stretta e lungo rettilineo dove è un piacere cambiare fino alla settima. A 150 metri da un tornante, lanciato a 300 chilometri orari, mi sembra una buona idea frenare. Non lo è: premo il pedale sinistro (serve una pressione di 100 chili) e a 50 metri dalla curva mi ritrovo quasi fermo e con il motore spento. La voce paziente dell’ingegnere via radio mi avvisa: «Ricominciamo». Ricominciamo: curva stretta, rettilineo, frenata meno brusca e... prato, testacoda, la pista scomparsa, l’abitacolo che trema. L’unica notizia consolante è che il motore è rimasto acceso. «Bisogna frenare forte quando la velocità è elevata e diminuire la pressione sul pedale quando si rallenta e il carico aerodinamico diminuisce», mi spiegheranno poi davanti ai risultati della telemetria. L’esatto contrario di quanto si insegnava a scuola guida prima che venisse inventato l’abs.
Ritrovato l’asfalto, cerco di domare questo mostro imbizzarrito che a ogni accelerata minaccia di sbandare e a ogni frenata di spegnersi. Il movimento della cabina non si avverte: il mio cervello è convinto di essere su una monoposto vera. La difficoltà successiva è il tratto in salita sul ponte: la pista non si vede, perché la posizione di guida è infossata. Casualmente scelgo il punto giusto di staccata, ma mi domando come faccia un pilota in gara ad avere i punti di riferimento. Mi racconteranno della tecnica usata da Mika Hakkinen: un’ora prima del via si chiudeva in una stanza buia e ripassava mentalmente il percorso. Proseguo senza grossi problemi, anche se l’alta velocità è una roba differente. L’esperienza dura tre giri, il migliore in 1’20’’. L’unica consolazione, quando scendo, è non avere problemi di stomaco. «Raikkonen al simulatore si sentiva male» è la frase più incoraggiante che riescono a dirmi i tecnici al muretto. Già, però lui è Kimi Raikkonen.
L’ingresso avviene attraverso una botola. L’ingegnere mi consegna il casco, mi fissa le cinture di sicurezza e mi dà le istruzioni base: «Le gomme sono già calde, per frenare dai un pestone forte al pedale, ma non rallentare troppo sennò il motore stalla. E non toccare i pulsanti sul volante: non hai il tempo per capire come funzionano». Suggerimento superfluo: non mi sarei mai sognato di complicare una situazione già così complessa. Il test può cominciare: la stanza, grande come mezzo campo da tennis, è buia. Le uniche luci, oltre al maxischermo a 180 gradi che mi spalanca davanti la pista, sono i led sul volante. Un impianto home cinema fa vibrare il motore otto cilindri virtuale. Partenza lanciata, curva stretta e lungo rettilineo dove è un piacere cambiare fino alla settima. A 150 metri da un tornante, lanciato a 300 chilometri orari, mi sembra una buona idea frenare. Non lo è: premo il pedale sinistro (serve una pressione di 100 chili) e a 50 metri dalla curva mi ritrovo quasi fermo e con il motore spento. La voce paziente dell’ingegnere via radio mi avvisa: «Ricominciamo». Ricominciamo: curva stretta, rettilineo, frenata meno brusca e... prato, testacoda, la pista scomparsa, l’abitacolo che trema. L’unica notizia consolante è che il motore è rimasto acceso. «Bisogna frenare forte quando la velocità è elevata e diminuire la pressione sul pedale quando si rallenta e il carico aerodinamico diminuisce», mi spiegheranno poi davanti ai risultati della telemetria. L’esatto contrario di quanto si insegnava a scuola guida prima che venisse inventato l’abs.
Ritrovato l’asfalto, cerco di domare questo mostro imbizzarrito che a ogni accelerata minaccia di sbandare e a ogni frenata di spegnersi. Il movimento della cabina non si avverte: il mio cervello è convinto di essere su una monoposto vera. La difficoltà successiva è il tratto in salita sul ponte: la pista non si vede, perché la posizione di guida è infossata. Casualmente scelgo il punto giusto di staccata, ma mi domando come faccia un pilota in gara ad avere i punti di riferimento. Mi racconteranno della tecnica usata da Mika Hakkinen: un’ora prima del via si chiudeva in una stanza buia e ripassava mentalmente il percorso. Proseguo senza grossi problemi, anche se l’alta velocità è una roba differente. L’esperienza dura tre giri, il migliore in 1’20’’. L’unica consolazione, quando scendo, è non avere problemi di stomaco. «Raikkonen al simulatore si sentiva male» è la frase più incoraggiante che riescono a dirmi i tecnici al muretto. Già, però lui è Kimi Raikkonen.
di Stefano Mancini; LA STAMPA
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