mercoledì 21 luglio 2010

Poverino...

Non serviva Paul il polipo per prevedere che Berlusconi avrebbe distolto le attenzioni dalle sue difficoltà nel Milan buttandola in politica e cabaret. Meglio una barzelletta che lasciare la parola, anche una sola, a Massimiliano Allegri che è nuovo dell’ambiente e chissà cosa poteva dire: metti che sgonfiasse l’ottimismo presidenziale oppure le cifre dei sondaggi di cui Berlusconi parla sempre senza indicare la provenienza né l’attendibilità. Abbiamo assistito allo spettacolo surreale e mai visto di una presentazione nell’assoluto silenzio dei presentati. Passi per Amelia, Papastathopoulos e Yepes ma si sarebbe voluto sapere da Allegri e su Allegri qualcosa di meglio della considerazione berlusconiana: «È bello come un indossatore, avremmo dovuto farci pagare di più da Dolce&Gabbana».

Nell’irrefrenabile protagonismo, il premier non ha messo in conto l’imbarazzo del professionista che gli sedeva al fianco, sempre più a disagio. In una botta sola è riuscito a tratteggiare il nuovo tecnico come uno «yesman» di gradevole aspetto, il cui compito sarà allenare la squadra per farla giocare come vuole il Capo. Gli ha persino suggerito dove collocare Ronaldinho: dietro alle punte e guai a tenerlo fuori perché è l’attrazione del Milan. Insomma Allegri fa la figura del ragazzo di bottega cui il maestro indica dove mettere il colore. Avendoci raccontato di che pasta è fatto, l’impressione è che ieri Allegri abbia abbozzato per gentilezza: la prossima volta non lo farà. E il suo primo problema non sarà gestire i campioni, cui non è abituato, ma il presidente che ha conosciuto ieri.

di Marco Ansaldo; LA STAMPA

sabato 17 luglio 2010

Blah-Blah-Blah

Il possesso parola. Sottoposto ad analisi testuale un campione di partite dei recenti Mondiali (Sky e Rai), è risultato che la media generale del possesso parola dei telecronisti italiani si aggira intorno al 95%. Che, tradotto in parole povere, significa che non stanno mai zitti. Non abbiamo dati altrettanto sicuri sul resto del mondo (è probabile che tutti si comportino alla stessa maniera),ma il rilievo è estremamente significativo: i telecronisti sono rimasti alla radio; bisognerebbe avvertirli che nel frattempo è stata inventata la tv, persino l’HD.

Suppongo che la ragione di questo forsennato possesso parola (che, espressivamente significa rinunciare al fondamentale apporto dei rumori ambientali, e pazienza se in Sudafrica c’erano le vuvuzelas!) sia di origine psicologica. Il telecronista ha paura che la partita gli sfugga di mano, e quindi parla, parla, parla. Pure in apnea. La seconda voce è come se avesse rinunciato al commento squisitamente tecnico per fare da spalla alla prima voce (una decina di interventi a tempo sarebbe più che sufficiente). Entrambi, parlando a getto continuo, s’impossessano della partita, s’illudono che i giocatori siano figure immaginarie, create dalla loro fervida e ciarliera fantasia, e gli spettatori bambini cui raccontare una favola.

I telecronisti non conoscono il sex appeal del silenzio, una conquista eloquente di grandissimo valore. Il silenzio parla. Il silenzio conquista. Il silenzio affascina. I nostri telecronisti sono come alcuni personaggi di un romanzo di Natalia Ginzburg: «Parlano così per ingannare il silenzio. Parlano così perché non sanno più come parlare». Dopo l’esperienza sudafricana, i nostri telecronisti (tutti, indiscriminatamente) dovrebbero frequentare un corso di recupero del silenzio: com’è noto, non vince chi mantiene il possesso parola per più tempo, ma chi fa gol. Il silenzio non è assenza, il silenzio scuote le reti.

di Aldo Grasso; Corriere della Sera

mercoledì 14 luglio 2010

Resta dove sei

Il ritardo di sette minuti alla prima campanella dell’anno suonata da Rafa Benitez stavolta c’entra ben poco, così come le dimissioni presentate all’Associazione italiana calciatori. Mario Balotelli ha le valigie in mano (così dice il suo potente manager) e il «sistema Italia» si interroga, o almeno dovrebbe farlo. La domanda è semplice, le risposte confuse: se la Nazionale di Prandelli sarà multietnica e aperta agli oriundi, perché il nostro campionato sta per farsi soffiare uno dei suoi pochi, veri, talenti simbolo dell’integrazione? La decisione finale ovviamente spetta a Massimo Moratti, che di Supermario è il datore di lavoro. L’Inter ha cambiato filosofia, il mercato non è più terra di conquista da parte di un club che si è allineato al motto «prima si cede, poi si acquista...». Dunque, Balotelli non è più incedibile, Manchester (il City è in vantaggio sullo United) lo corteggia, e il presidente nerazzurro - forse piccato dagli ammiccamenti del giocatore e dall’attivismo dell’agente- ha affermato che non attaccherà il telefono in faccia a nessuno.

Fin qui si potrebbe leggere il tutto come ordinarie schermaglie di mercato, domanda e offerta, vinca il più forte. Ma nel caso di Balotelli qualcosa sfugge, perché una sua cessione segnerebbe una nuova sconfitta del calcio italiano che si è appena leccato le ferite mondiali al grido «ripartiremo dall’interista». Cosa fare per evitare i saluti? Moratti sembra aver gettato la spugna e davanti alla chiamata giusta è pronto a inaugurare l’era del cosiddetto fair play finanziario (un occhio ai bilanci) proprio sacrificando il suo gioiello più invidiato: stranezze dei tempi e addio progetti a lunga scadenza.

L’Inter non costruisce muri invalicabili, dunque. Chi di variabili del calcio se ne intende, prova ad analizzare il possibile scenario. «All’estero Balotelli diventerebbe un vero professionista e più in fretta che da noi», così Arrigo Sacchi, il cui nome viene accostato alla Federcalcio per andarne a occupare un ruolo di grande consigliere nella gestione Prandelli. «Stiamo parlando di un giocatore dell’Inter e, a Moratti, spettano le scelte findamentali sul suo conto: i problemi del nostro calcio - continua Sacchi - sono quelli legati ai 16 esoneri di allenatori in una stagione, alla gente che gira con i coltelli e agli stadi come galere. Il miracolo l’abbiamo fatto quattro anni fa a Berlino, quanto accaduto in Sudafrica è lo specchio fedele della situazione». Balotelli via senza alterare i già fragili equilibri del sistema Italia, così la pensa l’ex ct azzurro di Pasadena ’94. Un altro tecnico, oggi alla guida dell’Under 21, sorride un po’ meno. «Premesso che non conosco la situazione e non so dove giocherà Balotelli la prossima stagione, posso dire che avere sotto gli occhi per tutto l’anno un giocatore forte e di talento sarebbe meglio», spiega Pierluigi Casiraghi che chiederà a Prandelli di lasciargli Balotelli per le sfide con Bosnia e Galles di settembre, incroci decisivi dove gli azzurrini si giocheranno il visto per le Olimpiadi di Londra 2012 (negli stessi giorni l’Italia debutterà nel girone di qualificazione per gli Europei del 2012).

L’Under 21 lo aspetta, la Nazionale anche, l’Inter lo ha messo sul mercato. L’effetto di un possibile trasloco all’estero di Balotelli spariglierebbe i giochi, ma non stravolgerebbe i piani di Prandelli. «Il nuovo ct è stato chiaro: non ha parlato di uomini, ma di attaccamento alla maglia e dell’orgoglio di sentirsi italiani. In Nazionale - precisa Demetrio Albertini, vice presidente della Figc e candidato a guidare il Club Italia - gioca chi merita e Balotelli deve meritarselo, nel nostro campionato o altrove. Una sconfitta per il nostro sistema? Il sistema Italia è stato rappresentato ai massimi livelli dall’Inter che ha vinto tutto. E, poi, stiamo parlando della possibile partenza di un talento, non di uno sconosciuto».

di Guglielmo Buccheri; LA STAMPA

martedì 13 luglio 2010

Mahut

Adesso non può fare due passi senza che qualcuno lo fermi e gli chieda un autografo. E si complimenti. Con enfasi. Per un insuccesso...

Succede più o meno dalla fine di giugno, data della sua sconfitta nel match più lungo della storia del tennis: il ko per 70 a 68 con il gigante americano John Isner al primo turno di Wimbledon. Roba da tre giorni tre di partita. E che match: splendido per intensità e qualità dei colpi.

Ma pur sempre una sconfitta per il francese Nicolas Mahut, talentuoso e tormentato giocatore francese, inseguito da troppo tempo dalla nomea di sicuro campione mai realizzato. Più volte sul punto di esplodere e affermare la sua chiara qualità dei colpi, puliti, classici e completi dal servizio alla volee, dopo le affermazioni da juniores, mai esploso nel traumatico salto nel mondo dei professionisti, l'Atp tour.

Nicolas quasi non se ne capacita. Si possono ottenere fama e gloria anche da sconfitto. Bello, tutto sommato, un po' l'essenza del vero sport, quello giocato sui campi e non saccentemente commentato dalle poltrone.

Wimbledon e l'erba sembrano essere nel suo destino. Nel bene e nel male. A Londra, da juniores, vinse addirittura il titolo sconfiggendo in finale un altro campione inespresso, Mario Ancic. Era il 2000. Dieci anni dopo, la sconfitta più maledettamente bella, epica e coraggiosa che gli potesse capitare. E, con questa, la sua vita da giocatore di mezza classifica che non sa sfruttare le sue reali capacità che cambia. Definitivamente. Mahut è nei libri dei primati, è nella storia del tennis. Comunque.

Quasi incredulo, lo ha realizzato concretamente quando è tornato in campo. Nel torneo più snob del circuito, a Newport. Erba, sempre erba, ma americana. E, soprattutto, sede della Hall of Fame del tennis, il museo degli immortali della racchetta, insomma. Ebbene, Nicolas, da attuale numero 143 del mondo, si è visto chiedere maglietta, pantaloncini e una scarpa indossati nella gara con Isner (gli era accaduta una cosa analoga per il museo di Wimbledon). In campo e nel club è stato travolto da una overdose di simpatia e popolarità. Al punto da fargli dire: "Io non posso credere che sta succedendo tutto ciò, la gente in fila per incontrarmi e congratularsi, io prendo energia da tutto questo, devo trarne nuovo vigore per la mia carriera".

A Newport non ha fatto molta strada. Arrendendosi al secondo turno. Ma è comprensibile. Deve smaltire, oltre alla stanchezza, anche queste nuove e decisamene insolite emozioni. "Adesso ho bisogno di un periodo di riposo, poi ripartirò", ha detto, per cercare di calarsi in questa nuova dimensione e tentare finalmente di affermarsi dando continuità ai risultati.

"Io sinceramente - ha confidato negli Stati Uniti - pensavo che la gente mi consolasse come uno sconfitto, mi sbagliavo alla grande, non fanno altro che dirmi: "Nicolas, non abbiamo mai visto nulla di simile su un campo da tennis, entrambi meritavate di vincere, sei stato grande, sei nella storia". Pazzesco".

Lo hanno corteggiato le telecamere di tutto il mondo, a Newport. E i fotoreporter hanno scattato centinaia di foto. La Espn, colosso dei network televisivi sportivi, poi, gli ha dedicato uno speciale con una lunga intervista. Nella quale Nicolas Pierre Armand Mahut, francese di Angers, figlio di un ingegnere specialista in informatica, orfano di madre (scomparsa cinque anni fa), tre fratelli più grandi, idoli sportivi Pete Sampras, Yannick Noah e Michael Jordan (insomma, non tre pellegrini...), film preferito Matrix, gusti musicali Oasis, John Mayer, tifosissimo del Paris Saint Germain, ha ammesso di essersi sentito "indistruttibile a un certo punto della partita con John Isner e quando ho perso, ovviamente, è stata una sensazione crudele".

Ma dopo ogni caduta bisogna rialzarsi. E i tennisti, che si confrontano quotidianamente con questa altalena di successi e ko, lo sanno bene. Ora tocca a te, Nicolas. Hai il gioco, il talento e il fisico. Scaccia i fantasmi ("Ogni tanto sogno di vincerlo ancora io quel match con Isner e devo ammettere che ci penso spesso") e cerca di riprenderti quello che ti spetta: una classifica degna della tua capacità. Vittorie sul campo. Qualche trofeo.
Il resto, la gloria e la fama, li hai già ottenuti. E il destino, beffardo, ti ha regalato tutto questo con una magnifica, indimenticabile sconfitta.

di Giovanni Marino; la Repubblica

lunedì 12 luglio 2010

Campioni

Iker Casillas ha sollevato la Coppa, la Spagna ha riempito il buco della propria storia e il calcio si chiede se siamo davanti al trionfo di una generazione o di un’idea. Qualunque successo ha alla base un gruppo di buoni giocatori con alcuni fuoriclasse e richiede che le loro qualità si esprimano al massimo nel periodo in cui si realizza l’evento.

L’Italia di quattro anni fa aveva pochi fenomeni veri, meno del Brasile, ad esempio, ma ottenne da tutti un rendimento straordinario nel mese decisivo: così andò oltre le attese. La dimostrazione è che quando quella generazione si è appannata ed è tornata nella normalità lo stesso metodo seguito da Lippi nel 2006 si è rivelato un fallimento. Nel caso della Spagna la vittoria suona meno casuale. Dietro ai giocatori c’è lo stile che ha fatto del Barcellona una delle squadre migliori dell’ultimo decennio. Dal successo di Vienna nel 2008 gli spagnoli erano tra i favoriti in Sudafrica perchè non c’era un motivo per cui il blocco di un club fortissimo non raccogliesse i frutti anche in Nazionale. Del Bosque ha rispettato la prima regola di un allenatore: non fare danni. Come Bearzot con il gruppo juventino del ’78 e dell’82, non ha cercato formule strane, non si è inventato trasformazioni dell’ultimo momento.

I suoi uomini hanno svolto i compiti cui sono abituati da sempre, l’ordito del Barça si è impreziosito là dove serviva (Casillas, Sergio Ramos, Villa, Xabi Alonso, Capdevila) e non ne è stato stravolto. Lippi sosteneva fino alla nausea che ogni giocatore italiano ha due squadre: il proprio club e la Nazionale. La forza degli spagnoli è stata che per molti di loro le due squadre coincidessero e che per gli altri fosse facile inserirsi in una macchina che gioca a memoria, con la fiducia nei propri mezzi.

Certamente nel successo della Spagna c’è anche la qualità degli uomini. Ma come si spiega che dalla generazione che vinse il Mondiale Under 20 nel ’99 si sia passati a quella di Iniesta e Torres, fino ai più giovani Busquets e Pedro senza che si noti una frattura? E’ come se fossero passati tutti dalla stessa scuola in cui si insegnano ai giovani la tecnica, il palleggio, lo sviluppo dell’azione. Il successo della Spagna benedice quindi il ritorno a un football in cui l’aspetto atletico e l’esasperazione della tattica non sono tutto. Torneranno anche per loro i giorni bui ma per ora a lezione ci vanno gli altri.

di Marco Ansaldo; LA STAMPA

Spagna-Olanda 1-0

I più belli del mondo ne diventano i padroni: non succede sempre, dunque l'epilogo della Coppa 2010 è anche un atto di giustizia. Giusto che la Spagna faccia perdere all'Olanda la terza finale della sua storia: e se nel '74 e nel '78 gli oranje avevano smarrito un mondiale che viceversa sarebbe stato loro di diritto, stavolta hanno saputo quasi solo picchiare. Un espulso (Heitinga) e un elenco di ammoniti più lungo della guida telefonica di New York. Pesa, sulla sconfitta olandese, un grave errore di Robben che però è stato anche una parata miracolosa di Iker Casillas, migliore in campo, colui che alla fine ha alzato il trofeo tutto d'oro: non accadeva dal 1982 che un portiere lo sollevasse, quella volta era toccato a un altleta leggendario di nome Dino Zoff. Era, guarda caso, un altro 11 luglio e c'entrava anche allora la Spagna.
Non è stata una finale-spettacolo. In questi casi, se qualcuno segna subito ci si può divertire, viceversa si gioca a sudoku. E i numeretti non sempre tornano. L'Olanda ha cercato di soffocare il formidabile centrocampo spagnolo, preso in blocco dal Barcellona, la più bella squadra di club del pianeta (a volte però s'incarta per eccesso di contemplazione, dunque di accademia: vedi la Champions contro l'Inter). L'operazione ha funzionato per un po', finché gli arancioni non si sono disuniti per stanchezza, per troppi falli e alla fine, nei supplementari, per inferiorità numerica. Quando il match non è più stato chiuso in cassaforte, chi sa giocare meglio l'ha giocato di più, e l'ha vinto.
Mai, nella sua storia, la Spagna era riuscita ad arrivare tra le prime tre. E dopo 80 anni di mondiale, ecco un nome nuovo che permette alla vecchia Europa di superare il Sudamerica (10 a 9), e tra quattro anni in Brasile ci sarà l'occasione per una rivincita. Anche se poi, a ben guardare, poche squadre sono più "sudamericane" di questa Spagna, che se non diventa leziosa è irresistibile. Aveva perso la prima gara contro la piccola Svizzera, eppure ha saputo trovare il passo magnifico che le aveva permesso di vincere l'Europeo due anni fa: dunque, il mondiale sudafricano rappresenta la migliore evoluzione possibile del percorso. E quando vincono i più bravi, e i più belli, c'è solo da essere contenti.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

domenica 11 luglio 2010

Ex

Ancora poche ore e sarò un ex campione del mondo. Mi spiace, ma potrò sempre dire di esserci passato, quella Coppa l’ho alzata ed è un privilegio che non capita a chiunque. Da bambino ci speravo, la vita mi ha fatto anche questo regalo.

Intanto per quattro anni il campione del mondo sono stato io assieme ai miei compagni. La notte di Berlino resterà indimenticabile e siccome sono pronto a ripartire per un’altra avventura con Prandelli, magari nel 2014 in Brasile rivivrò le stesse emozioni. Per adesso prendono il sopravvento i ricordi. Prima della finale con la Francia avevo sensazioni buone. L’ottimismo era il sentimento prevalente in me e in tutti noi. Ripensavo alle vittorie ottenute, soprattutto a quella contro la Germania in semifinale, e sapevo che avevamo tutto per tornare a casa da trionfatori. Sono qui al mare con i miei figli ed Alena e un poco invidio olandesi e spagnoli. Ma si sapeva che sarebbe stata dura riprovarci, che sarebbe stato un sogno quasi irrealizzabile.

Nello sport c’è un tempo per ogni cosa: per le vittorie, e per le grandi delusioni. Siamo passati attraverso questo momento negativo, ma la voglia non mi è passata. Sarà difficile ripartire, però un’altra notte fantastica vorrei dedicarmela. Stasera darò un’occhiata alla partita ma non riuscirò a farmi catturare del tutto. La penso come il polpo Paul, la Spagna è favorita, è la più forte in assoluto, gioca il calcio migliore. Anche se gli olandesi sono tosti.

Gianluigi Buffon

sabato 10 luglio 2010

Si cambia(?)

Roby Baggio torna a... Coverciano. L'ex campione, dopo aver rifiutato tantissime proposte (ultima quella della Rai per fare l'opinionista) ha detto di sì al suo ex allenatore, Renzo Ulivieri. E' lo stesso Ulivieri, presidente dell'Aiac (Associazione italiana allenatori calcio), a spiegarcelo: "Conosco bene Roberto perché l'ho avuto come calciatore e mi sembrava quindi interessante proporgli la presidenza del Settore tecnico. Mi ha subito risposto con entusiasmo: 'la cosa mi garba ma dovete darmi una mano...'. Appena saputo della sua disponibilità, nel pieno rispetto dei miei compiti, ho chiamato subito il direttore generale della Figc, Antonello Valentini, e mi sono messo in contatto con il presidente, Giancarlo Abete. Ripeto: Roberto è stato un grande calciatore, è un uomo di prestigio e penso che potrebbe fare bene, con quella umiltà che l'ha sempre contraddistinto anche quando giocava".

La scelta di Baggio non è certo economica: per ricoprire il ruolo che è stato di Azeglio Vicini, il cui contratto è scaduto il 30 giugno scorso, la Federcalcio mette a disposizione soltanto una diaria e i rimborsi spese, circa 10 mila euro all'anno. Poca roba. Ma Baggio è tentato di rientrare nel mondo del calcio con un incarico di grande prestigio. Sarebbe un bel colpo per Giancarlo Abete impegnato a rilanciare la Federcalcio dopo il flop mondiale. Demetrio Albertini sarà il presidente del Club Italia, coordinerà tutte le Nazionali, dalla giovanile alla maggiore. Paolo Maldini dovrebbe infine prendere il posto di Massimo Giacomini come responsabile del Settore Giovanile e scolastico. Queste (probabili) nomine hanno creato però un po' di scalpore nel mondo della Figc: i vicepresidenti federali, Carlo Tavecchi e Mario Macalli ne erano all'oscuro. Ne parleranno martedì prossimo in una riunione che avranno martedì prossimo a Roma con Abete in previsione del Consiglio federale del 16 luglio.

di Fulvio Bianchi; la Repubblica

La scelta del Prescelto

Gli amici contano più dei soldi: con questa motivazione il campione della Nba LeBron James ha sciolto la riserva in diretta sulla tv Espn facendo sapere all’America il nome della squadra con cui ha scelto di giocare. Si tratta dei Miami Heat e se il 25enne cestista li ha preferiti ai Knicks di New York, il cui terreno di casa è il Madison Square Garden, ai Cavaliers di Cleveland, dove ha giocato negli ultimi sette anni, e ad altri quattro club della Nba è perché vuole militare nella stessa squadra di altri due campioni: Dwyane Wade e Chris Bosh.

Le tre stelle hanno molto in comune. Debuttarono nello stesso anno, 2003, hanno consentito alla Nazionale Usa di vincere l’oro a Pechino riscattando l’umiliazione di Atene e ora sono convinte che assieme possono «iniziare una serie di vittorie in campionato» come lo stesso LeBron ha fatto capire. «Quest’autunno porterò i miei talenti a South Beach - sono state le parole di "King James" - e ciò che più mi ha spinto a questo è che si tratta della migliore opportunità di vincere, vincere adesso e vincere in futuro». Il titolo Nba è infatti ciò che più manca a record e trionfi di LeBron e fra i commentatori di basket, da Chad Ford a John Hollinger, è radicata l’opinione che «la sinergia a tre» non solo proietta i Miami Heat fra i club favoriti per la vittoria nel prossimo anno - assieme a Lakers, Magic, Spurs e Celtic - ma gli consente di poter sognare «più titoli nei prossimi cinque anni». Sebbene vi sia chi obietta, come Marc Stein di Espn, che il rischio è di «avere caos in campo» per le troppe stelle.

Vestito casual sul set di Espn circondato dai giovani cestisti del «Boys & Girl Club» di Greenwich, in Connecticut, LeBron ha detto all’intervistatore Jim Gray di aver avuto «con mia madre questa mattina» la conversazione «decisiva» per scegliere fra l’arena di Manhattan, i 127 milioni di dollari messi sul piatto da Cleveland e i 97 che invece erano stati offerti da Pat Riley, l’ex Knicks presidente degli Heat di Miami. Ma è difficile non immaginare che anche Wade e Bosh siano stati interpellati da LeBron, tanto più che contemporaneamente all’annuncio l’Hotel W di South Beach a Miami registrava la prenotazione di 25 suite con vista sull’Oceano per ospitare amici e parenti del campione in occasione del debutto. A conferma che l’operazione-Miami era in corso da tempo.

Aver rinunciato a 30 milioni di dollari - la differenza fra l’offerta di Miami e quella di Cleveland - dà la misura della scommessa fatta dal campione citato dal presidente Barack Obama e dal veterano dei senatori John Kerry come modello di invincibilità quando la sfida diventa più dura.

LeBron è convinto che il trio con Bosh e Wade gli possa far vincere una raffica di titoli Nba - spodestando i Lakers di Kobe Bryant - portandogli tali e tanti introiti pubblicitari da polverizzare il plusvalore messo sul piatto dai Cavaliers nell’ultimo, disperato tentativo di trattenerlo allorché l’1 luglio King James è diventato proprietario di se stesso. In Ohio i fans l’hanno presa malissimo, bruciando le magliette dell’ex paladino sulla piazza di Cleveland con un’aggressività da spingere la polizia a dispiegarsi in massa a difesa della casa dove risiede. Per calmare gli animi LeBron ha assicurato che non lascerà Cleveland perché la natìa «Akron resterà per sempre la mia casa», ma ciò non ha fatto che moltiplicare la rabbia. «E’ un bugiardo e un traditore» ha gridato dagli schermi di una tv locale un fan dell’Ohio mentre nei pub di Manhattan i supporter dei Knicks venivano presi dallo sconforto per l’illusione svanita. A South Beach invece è festa grande.

di Maurizio Molinari; LA STAMPA

martedì 6 luglio 2010

Orania

Il nome è da fantascienza. Da pianeta surreale. Ma Orania è su questa terra, a metà del Sudafrica, un ombelico nel mezzo del niente, nella regione Karoo. Una landa desolata, da Wile il Coyote, o da Spike, il fratello di Snoopy. Cactus, cespugli, polvere, strade sterrate, il fiume Orange. E tante bandiere arancioni. È una comunità afrikaner: gote rosse, occhi chiari, visi che sembrano dipinti da Rembrandt e da Vermeer. Un po' paffuti, dolci, da colonia sfuggita alla storia. Orania vive accanto a 48 milioni neri, ma non ne sente il respiro. Qui non sono graditi. È una comunità solo per banchi. La fondò un gruppo di 11 persone, comprandola per 200 mila dollari dal governo, che l'aveva costruita come campo-base e cantiere per gli operai che lavoravano all'acquedotto.

Era il dicembre 1990, Mandela non era più in prigione e l'apartheid era stato abolito. La risposta di Carel Boshoff, genero dell'ex premier Hendrik Verwoerd, l'architetto della segregazione fu: e noi ci facciamo una città e una repubblica tutta nostra, "only whites". Il posto, ormai in rovina, non era tra i più belli, solo una pioggia all'anno, accanto alla miniere di Kimberly. A metà tra la comunità Amish e una setta di fanatici con la zappa in mano. "Non vogliamo essere comandati da chi non è Afrikaner. La nostra cultura è oppressa e ai nostri bambini con la lingua inglese viene fatto il lavaggio del cervello".

A Orania oggi vivono 700 persone, gran parte impegnati nei lavori agricoli. C'è grano, miglio, e noci (esportate in Cina). E un tifo dichiarato per l'Olanda, anche se ormai una madrepatria lontana e stinta. A Orania c'è il campo di rugby e una piscina. E quello da calcio? "Scherziamo? Il football è roba da neri, a noi non interessa, però i nostri bambini qualche volta lo praticano". Bè, non gli rovinerà la pelle. "Non è quello, nelle nostre scuole vige un sistema educativo che abbiamo preparato noi, abbiamo anche i computer, che non prevede la contaminazione. Per noi i soldi non sono un valore, lo è l'indipendenza che si ottiene con il lavoro anche manuale. Siamo calvinisti. La maggior parte dei comuni sudafricani è in bancarotta, il nostro no. Noi non strapaghiamo i fannulloni, noi non mendichiamo. Il resto dell'Africa campa sulla beneficenza. Pretendevano che la squadra del Sudafrica andasse avanti, e in base a cosa, ai sogni? Bisogna meritarseli certi traguardi, non sperare nella bontà di un regalo".

Orania ha case basse, alcune ristrutturate, sembra un camping dell'Adriatico, senza il mare, popolato da corpi contadini. Della polizia non c'è bisogno, la criminalità qui va a letto presto. "Ci conosciamo tutti" dice l'ex dottore John Strydon, 55 anni, portavoce della comunità. " E se passa una macchina sconosciuta, prendo subito la targa e passo parola". Ah, bene. Non sarà facile per i giovani vivere qui? "Soprattutto per i singles, per quelli che non hanno famiglia, e che la sera sono stanchi morti. Il Sudafrica ha sempre delegato ai suoi schiavi neri i lavori più umili, anche perché la manodopera non costava niente. Ma qui i neri non ci sono. Ognuno deve darsi da fare da sé. E questo per la gioventù è psicologicamente inaccettabile ". Stasera tutti al bar a tifare per gli arancioni? "Non esageriamo, solo quelli che all'indomani non lavorano, e magari a casa davanti alla tv. Le fans più scatenate da noi sono le donne, Madelein e Mara non si perdono un giocatore". Magari qui la vita sentimentale è noiosetta? "Ci si sposa, si fanno tre figli, si va in chiesa". Ecco, appunto, uno spasso. "Per quello c'è l'auditorium dove proiettiamo vecchi film". Hollywwodiani? "No, afrikaner, per promuovere la nostra cultura".

Orania ha cartelli e insegne afrikaner, piccoli studi medici, panetteria e supermercato. "Ci autogestiamo fino quando possiamo, poi andiamo in città". Quando Mandela dovette far capire al paese che non cercava vendetta, venne qui, ad incontrare per un tè, la fragile 94enne Betsy Verwoerd, vedova dell'uomo che aveva costruito l'apartheid. Come fu l'incontro? "Passiamo ad altro". Però Orania ha festeggiato i dieci anni della liberazione di Mandela a suo modo, stampando una propria moneta. Anzi dei voucher da 10,20,50,100 rand. Con disegni tipo Hendrick il coraggioso e leggende afrikaner. Bianchissimi. Ad Orania c'è anche una radio, che trasmette nel raggio di 60 chilometri. Va in onda dalle 17 alle 22. E prima? "Non serve, la gente sta nei campi". La conducono in due: un tecnico e un presentatore. Parlate di calcio, di Robben, dei mondiali? "No, delle condizioni meteorologiche e leggiamo il Vangelo". Pure se oggi l'Olanda segna che non speri in un fuoriorario. Però la preghiera è garantita. Qui Orania, a voi mondo.

di Emanuela Audisio; la Repubblica

sabato 3 luglio 2010

Germania-Argentina 4-0

Le hanno prese, eccome...

Wesley

L'hanno educato per una vita da mediano, se l'è conquistata da trequartista. L'hanno ribattezzato Whisky Sneijder perché non potendo giocare beveva, oggi stappa champagne alla faccia loro. L'hanno venduto per fare spazio a Kakà e adesso guardali sul prato, vedi un po' dei due chi è quello che ride ultimo, felice e meritevole. Wesley Sneijder, se giochi a calcio è uno che vorresti avere accanto, sempre. Probabilmente Platini arriccerebbe il naso: "Non è un dieci, ma un nove e mezzo". Monsieur, questo è un dieci e mezzo: corre e ragiona, passa e tira, ha giocato incontrista, ala, interno e oggi fa semplicemente l'uomo squadra. Quello che ha mandato a casa il Brasile, non da solo, ma quasi.

Per spiegare chi è Sneijder e arrivare alla partita di ieri vorrei partire da un altro punto nel tempo, dal quale è possibile tirare una linea retta fino al quarto di finale sudafricano. Non vado neppure troppo lontano: al 16 agosto dell'anno scorso. È una sera calda in Spagna. Tutto il Paese è percorso da una brezza di leggera follia. A Barcellona hanno comprato Ibrahimovic dando Eto'o e 50 milioni di euro. A Madrid pensano come eguagliare il colpo di genio. Già hanno preso quel che resta di Kakà, il magnifico giocatore che i medici da due anni consigliano al Milan di dar via, per 68 milioni. A questo punto, decidono: svendiamo Sneijder: a che serve? Glielo dicono. Le parole sono più o meno queste, Florentino Perez signore lo nacque. Wesley ci resta male, vorrebbe restare, ama Madrid, gli piacciono i locali dove tira tardi la notte perché non ha una partita da aspettare. Prova a resistere, ma il Real, che l'ha pagato 27 milioni all'Ajax nel 2007, lo ha già promesso all'Inter per 16. Praticamente, lui e 52 milioni per Kakà. Sono riusciti a battere il Barcellona, complimenti. Sneijder prepara le valigie, ma lo chiamano per l'ultima partita. Potrebbe mandarli dove meritano, invece va in campo. C'è una punizione da tirare. Ci pensa lui. Segna. Come Liam Brady nell'ultima recita con la Juve: rigore al Catanzaro e scudetto. Anche lui, un dieci e qualcosa. Quelli senza spocchia né sregolatezza, quelli che non bestemmiano e non pregano, giocano. Da quando li mettono in campo a quando è finita. Infatti Sneijder arriva a Milano, non disfa neppure le valigie, debutta nel derby con il Milan e si capisce che oltre le chiavi di casa gli hanno dato quelle della squadra. Lui le infila nella serratura e apre la porta al migliore dei futuri possibili.

Questa serie di articoli si chiama "L'uomo del giorno", ma fin da ora Wesley è "L'uomo dell'anno". Perché è stato il cervello in campo della formidabile stagione interista ed è mente e braccio di quest'Olanda che veleggia verso la finale di tutte le vendette. Dove non è riuscito Cruyff, sta a vedere che riesce questo. Impossibile? Sneijder è alto 1,70 e ieri l'ha messa dentro di testa in mezzo a una difesa che schierava colossi come Lucio e Maicon: il gigante era lui. Siamo a cinque partite nel mondiale e ha già segnato tre gol. È il miglior marcatore dell'Olanda, ma sarebbe insufficiente valutarlo per questo. È il consigliere personale dell'allenatore. È quello che ha messo in riga il capriccioso Van Persie, indispettito per la sostituzione contro la Slovacchia. Ehi, numero 9 (8 e mezzo sarebbe troppo bello per te) quanti gol hai fatto tu? È l'anima del collettivo, quello che digrigna i denti quando gli altri mollano la presa. Riguardatevi l'assurda partita di ieri. Il Brasile domina, l'Olanda svalvola, c'è un uomo che guarda i compagni stringendo i pugni a dire: possiamo farcela. Ha la maglia numero 10. Non crede nel Signore di tutti i destini, come Kakà. Crede nei piedi, nell'umana fortuna, nelle bizze del caso. Stravolge il corso degli eventi con un episodio. Butta in mezzo una palla e vai a credere che (non dico Felipe Melo, ma) Julio Cesar inventa una fesseria. Quel che succede dopo è che Sneijder corre verso la telecamera, ci sbatte la mano contro, esaltato oltre la misura delle cose. Il punto è, padroni di non crederci, che lui ha capito: si è aperta una crepa, diventerà una falla. Il Brasile è una squadra afflitta dall'ignoranza del dolore. Sono tutti ragazzi spensierati. Numeri incompleti, ma per difetto. Il nove e mezzo è Kakà. Felipe Melo: uno 0,5.

Sneijder prende per mano i suoi e spiega loro che, se non un altro mondo, un altro mondiale è possibile. Uno senza più il Brasile, d'incanto. Dove la parte di Robinho la fa un sontuoso Kuyt e quella di Julio Cesar il sempre più encomiabile Stekelenburg. E dove il fantasista (ma anche la diga, l'uomo gol e un po' l'allenatore) lo fa lui. Non so quante volte gli olandesi abbiano provato lo schema del calcio d'angolo: batte Robben, la alza Kuyt, la schiaccia Sneijder. Forse tante per eseguirlo così, forse mai perché era una pazzia. Magari non doveva essere lui, così diversamente alto, il terminale dell'azione. Ma è il suo momento, il suo giorno, il suo anno: tutti i passaggi portano a Wesley. Dopo, sai già come va a finire.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

venerdì 2 luglio 2010

Dettagli

"Noi fuori per colpa di dettagli."
Kakà

Sì, avere Felipe Melo in campo è un piccolo dettaglio.

Abdicò

Sorpresa, chi era costei? E' una sorpresa che Roger Federer, il maggior tennista di ogni tempo (secondo i malinformati), non sarà in grado di vincere un' altra edizione di Wimbledon, dopo esserci riuscito sei volte su sette, perdendo solo una volta per un pelo da Nadal, che oggi non ha incontrato? E' una sorpresa che, dopo esser stato battuto quest' anno otto volte, da giocatori anche mediocri, sia riuscito a perdere la nona contro un tipo possente ma, sin qui, diseguale e non certo realizzato quale Berdych? Non è una sorpresa per chi, come lo Scriba, l' abbia visto sconfitto nelle ultime settimane, una volta a Roma da Gulbis, un' altra a Parigi da Soderling, e una terza qui, oggi, da Berdych. A conferma non certo delle mie qualità divinatorie, ma di un minimo di buon senso, l' avevo anticipato nel mio pezzetto del 27 giugno. Roger era già stato in pericolo, e quanto, nel match d' esordio, contro un tennista, il colombiano Falla, che aveva soprattutto il pregio di essere mancino. Si era salvato, ancor prima che per meriti propri, per demeriti di quell' avversario. Aveva migliorato, ma non di tanto, in un secondo turno non semplice contro il serbo Bozoljac, per passare ad allenarsi contro due gregari quali lo ex Clemente l' austriaco Melzer. Simile sequenza aveva provocato la facile impressione che il peggio fosse alle spalle, e che Federer stesse ritrovando via via la forma, all' inizio davvero pallida. E' invece stato sufficiente ritrovare un tennista quale Berdych spesso incostante ma in buona giornata, per non trovare risorse utili a meglio difendersi. Un tennista, il ceco, con il quale Roger vantava nei passati testa a testa un vantaggio di ben otto match a due, avendo tuttavia perduto l' ultimo, a Miami, a furor di tiebreak, stretta in cui la creatività e l' ego di Federer non faticano troppo ad affermarsi. Non è stato così, oggi, in una giornata in cui la grande varietà di colpi e rotazioni di Federer è stata insidiata dalla sua propria irregolarità (41 % dal fondo) e da un autentico bombardamento di Berdych, superiore non solo al servizio (82 % nelle terribili prime, varianti tra i 210-220 orari) ma anche di molto (25% in più) nelle complementari reciproche ribattute. La spiegazione di tutto ciò, più che evidente per chi ha assistito senza occhiali neri al match, non è certo stata offerta da Federer, meno brillante del solito anche al microfono. «Sto battendomi un tantino con la gamba destra e la schiena, e questo mi fa sentire meno a mio agio sul campo. Ciò mi mette in qualche difficoltà soprattutto sulle palle basse, e mi lascia con lo svantaggio di non poter colpire fluidamente». E, a proposito dell' aspetto tattico della partita, si è spinto a dire: «Ho avuto anch' io le mie chances. Non credo avrei dovuto cambiare molto la mia tattica. Per quanto riguarda le ribattute, avrei potuto vincere io». Rimanevo incredulo nell' udire simile disamina, e ho sufficiente stima del tennista, e umana compassione, per non ritornare con la memoria al giorno in cui gli chiesi se conoscesse Freud, ricevendone una risposta interrogativa. Mi affrettavo quindi a abbandonare la sala nella quale gli specialisti del virgolettato rimaneva a costruire i loro articoli privi di personali opinioni. Confesso di non essere deluso che la mancanza di spazio non mi permetta di accennare alle altre tre partite. Sono deluso che Federer non mi abbia consentito di sbagliare un pronostico sin troppo facile. Spero ritorni Federerissimo, ma ho qualche dubbio.

di Gianni Clerici; la Repubblica