venerdì 31 dicembre 2010

Retrospettive (II)

FERRI MARIO
(rappresentante di bevanda energetica, in arte Falco)
La sua arte, diciamo così, è quella di invadere i campi di calcio, che giochi la nazionale o squadre di club. Sponsorizzato da un bar pescarese, a volte si maschera da Superman, spesso perora la causa di Cassano, una volta (in Real-Milan) quella di Sakineh. Ad Abu Dhabi gli è andata male. Carcere, tentativo di evasione, ripreso in fondo a una nave, messo in ceppi e rimesso in libertà lunedì scorso. In Italia è stato arrestato all'arrivo perché si è sottratto all'obbligo di firma dopo ripetute invasioni. Fa già parte del team di Lele Mora, studia recitazione (questa è una minaccia), non è pericoloso se non per se stesso. Mi sa che non ce ne libereremo tanto facilmente. Voto 3 di incoraggiamento.

FUENTES EUFEMIANO
(ginecologo spagnolo, anche noto come Doctor Sangre)
Dice, non dice, allude, si ritrae, tende a far pensare che dietro molte vittorie dello sport spagnolo (calcio incluso) vi siano sacche d'ombra, o di sangue. Un brillante cialtrone. Voto 1.

GARRONE RICCARDO
(presidente Sampdoria)
Nel caso-Cassano ci rimette anche dei soldi, ma non la faccia, e dimostra che il perdono non si compra e non si impone a furor di popolo. Bravo a tenere duro: 9.

GINNASTICA RITMICA
(squadra nazionale)
Vincere l'oro a Mosca nel concorso generale è un po' come vincere a calcio al Maracanà giocando in nove. Contro un esercizio perfetto nemmeno una giuria malevola (come fu quella di Pechino) può mettersi di traverso. Voto 10.

GRANDE FRATELLO
(trasmissione televisiva)
Non peggiora il voto dell'anno scorso: -15.

GUARDIOLA PEP
(allenatore Barcellona)
Imminente il rinnovo del contratto. Altrove il suo calcio è impensabile e forse irrealizzabile. 8,5 di stima.

IBRAHIMOVIC ZLATAN
(calciatore)
A prescindere dalla simpatia che ispira, dove va lui arriva lo scudetto e il gioco si semplifica. Sempre che poi non torni a complicarsi per acquisti azzardati. Voto 8.

IDEM JOSEFA
(canoista)
Medaglia nel '84 a Los Angeles, medaglia nel 2008 a Pechino, e in mezzo un'infinità di altre medaglie italiane, europee, mondiali, olimpiche. Ora nel mirino c'è Londra 2012. Sarebbe un miracolo agonistico, alla sua età, ma ai miracoli questa donna ci ha abituato. Voto 9,5.

INIESTA ANDRES
(calciatore)
Un anno fa gli consegnavo il mio Pallone d'oro personale. Ora che gli tocca quello vero (così pare, almeno) gli invento su misura un Premio Cartesio e gli confermo il 9.

INTERCITY 1589
(treno)
Parte alle 7.05 del 24 dicembre da Milano per Reggio Calabria. Non c'è una toilette agibile. Colpa degli utenti, dice il capotreno. Colpa un po' di tutti, aggiungerei, e comunque la sosta per pisciare, la prima, è alle porte di Roma. Episodio assurdo, come quello delle auto fatte entrare in autostrada pur sapendo che finiranno in una gola paurosa, interminabile. Pubblicità regresso, voto -10.

INZAGHI FILIPPO
(calciatore)
Raggiunto e scavalcato Gerd Müller nella classifica europea dei marcatori. Appena guarisce, stupirà ancora e migliorerà ancora. 8,5.

JABULANI
(modello di pallone usato agli ultimi Mondiali)
Mi prendo la responsabilità di votarlo a nome di tutti gli onesti portieri che ha ingannato: 2.

KUMARITASHVILI NODAR
(slittinista)
Arrivato a Vancouver per godersi la prima Olimpiade, muore in maniera assurda durante le prove.

LEONARDO
(allenatore Inter)
Al Milan, la cosa migliore, con un piede già fuori, fu la parabola degli specchi sul narcisismo di Berlusconi. Ha coraggio andando all'Inter, dove farà i conti con un ambiente molto difficile e con l'eredità non tanto di Benitez quanto di Mourinho. Voto per il passato 7,5 e per il futuro sospeso. Diamogli il tempo di lavorare.

LEPROUX ROBIN
(presidente Psg)
Per combattere gli ultrà, ha "sciolto" le curve e rivoluzionato l'assegnazione dei posti allo stadio. Ecco la prova che, volendo, qualcosa si può fare. 9.

LIPPI MARCELLO
(ex ct Nazionale di calcio)
La più brutta Italia mai vista in un Mondiale. Il debito di riconoscenza lo pagò anche Bearzot in Messico nell'86, ma c'è modo e modo. Voto 3.

LOEW JOACHIM
(ct Germania)
Un buon terzo posto per la sua squadra multietnica, dunque più brillante e leggera nel gioco. Voto 7,5.

MANASSERO MATTEO
(golfista)
A diciassette anni batte tutti i record di precocità e gioca come unno scafato professionista. È il futuro (ma anche il presente). Voto 8,5.

MARCHETTI FEDERICO
(calciatore)
Da titolare in nazionale a fuori rosa nel Cagliari. Scusate se insisto, ma se non è mobbing questo come dobbiamo chiamarlo. Cellinata? Voto all'episodio, non certo a Marchetti, 0,5.

MARCORÈ NERI
(attore)
"Per un pugno di libri", trasmissione tv che conduce da nove anni, ha un difetto per chi mangia pane e pallone: va in onda domenica pomeriggio. Me la gusto registrata e continuo a trovarla buona, senza effetti speciali ma di un'intelligenza che non pesa. 9.

MATERAZZI MARCO
(calciatore)
Parafrasando Scopigno, tutto mi sarei aspettato nella vita tranne che di vedere questo giocatore in Mondovisione prima campione del mondo per squadre nazionali e poi per squadre di club. Forse lascerà l'Inter perché si sente trascurato. I tifosi lo rimpiangeranno tantissimo, io meno. Però, quisque faber fortunae suae, una tenacia da 7,5.

MILITO DIEGO
(calciatore)
Forse era meglio salutare, dopo il triplete. O forse tornerà alla sua quota. Voto fino al cambio di passo e relativo 2-0 al Bayern: 9.

MOLINARI EDOARDO E FRANCESCO
(golfisti)
Vincitori di tornei mondiali e della prestigiosa Ryder Cup. Grazie a loro il golf prova a liberarsi dall'etichetta di sport elitario. 8,5.

MORACE CAROLINA
(ct Canada calcio femminile)
"In Canada leggono i curriculum e così mi hanno assunta". Pur lavorando in un paese che non ha un campionato femminile, ha vinto la Gold Cup e si presenta tra le outsider ai Mondiali in Germania. Voto 7,5.

MORANDI MATTEO
(ginnasta)
Si può festeggiare un bronzo mondiale come fosse un metallo più nobile? Sì, se lo si ottiene agli anelli, la specialità di Chechi, dietro a due cinesi di un altro pianeta. Si deve festeggiare così. Voto 8,5.

MORATTI LETIZIA
(sindaco di Milano)
Fosse una gara, sarebbe salto in basso. Difficilissimo fare peggio di Albertini ma ci è riuscita. Il titolo di peggior sindaco nella storia della città non glielo insidia nessuno. Voto 2.

MORATTI MASSIMO
(presidente Inter)
Dall'inizio alla fine del rapporto con Benitez il suo atteggiamento tra il distaccato e il gelido non mi è piaciuto, quindi 4. Quando il tecnico chiedeva di intervenire perché 4-5 titolari anziché la testa alzavano il gomito, era il caso di dargli retta. Se Leonardo non facesse l'allenatore potrebbe fare l'indossatore, quindi è da escludere che porti i calzini dei Simpson o quelle tremende cravatte violacee su camicie lilla, che un cinque per cento di iella in più secondo me l'hanno portato.

MORENO BYRON
(detenuto in attesa di giudizio)
Arrestato il 21 settembre all'aeroporto di Kennedy di New York mentre cercava di entrare negli Usa con sei chili di cocaina nascosti nelle mutande. Proprio un poveraccio, l'arbitro più insultato dai tifosi italiani. Altro che il gol annullato a Tommasi in Corea, errore più grave dell'espulsione di Totti. Banale anagramma di Moreno: no more. Voto 2.

MOSSE GERARD
(fantino)
A Melbourne lo multano di 230 euro perché manda un bacio alla folla mentre va a vincere in sella ad Americain. A Hong Kong altri 300 euro di multa per aver dato una pacca di incoraggiamento a Jolly Good nel canter di partenza. 7 di solidarietà è il minimo.

MOURINHO JOSÈ
(allenatore Real Madrid)
Dispiace che in Spagna non sappiano apprezzarne il senso dell'umorismo, la sportività, l'innata modestia. Il triplete comunque vale 9. Sui costi e conseguenze del triplete indagherà una commissione dell'Onu.

MUTU ADRIAN
(calciatore)
Gli resta da picchiare il presidente o l'allenatore e poi può lasciare una città dove si annoierebbe. Voto 2.

NAPOLI
(squadra di calcio)
Percorso da 8,5.

NIBALI VINCENZO
(ciclista)
Gli ultimi 10 km di arrampicata alla Bola del Mundo garantiscono che è un campione vero, di quelli che non perdono la testa neanche producendo il massimo sforzo. È la sua figurina che porteremo al Tour nella speranza che si tinga di giallo restando pulita. 9.

di Gianni Mura; la Repubblica

Retrospettive (I)

ADRIANO
(calciatore)
Perso a Milano, ritrovato a Rio col Flamengo, alza l'asticella della difficoltà (ritrovarsi in Italia con la Roma) ma non abbassa di molto quella della bilancia. Almeno due persone ci credono ancora, lui e Ranieri. Non è poco e la scommessa è ancora in piedi. Voto 6.

ALLEGRI MASSIMILIANO
(allenatore)
Mi piaceva di più il suo gioco a Cagliari e non devo essere l'unico, visto che gli era stata attribuita la Panchina d'oro preferendolo a Mourinho. Nei pochi mesi al Milan ha dimostrato di saperci fare, anche se da Galeone, che cita spesso, non pare aver preso granché. Voto 7.

ALONSO FERNANDO
(pilota)
Crede contro ogni evidenza nella conquista del Mondiale, si batte fino all'ultimo giorno, perde per una macroscopica svista della Ferrari e non lo fa pesare. Un signore d'altri tempi: 9.

BALDONI ENZO
(giornalista)
Era andato in Iraq per capire meglio. Sequestrato e ucciso in circostanze tutte da chiarire. I suoi pochi resti sono stati sepolti a Preci, il 27 novembre, nella più totale indifferenza. Ecco perché ricordarlo è un dovere.

BALLERINI FRANCO
(ct ciclismo)
Era il ct ideale, la giusta prosecuzione di Alfredo Martini, per uno sport tanto bello quanto malato. Era aperto, leale, disponibile, sincero. E troppo presto, in un incidente d'auto, è morto.

BARGNANI ANDREA
(cestista)
Spesso travolgente in una piccola squadra come Toronto, sogna di diventare il primo italiano a giocare l'All Star Game: 7,5.

BARILLARI SIMONE
(saggista)
Ha curato "Il Re che ride", elenco ragionato delle barzellette pronunciate da Silvio Berlusconi (ed. Marsilio, pagg. 207, euro 13,50). Detto così, può sembrare un'operazione di piaggeria. Tutt'altro. Barillari incastona con precisione le barzellette nel contesto in cui sono state pronunciate e risponde con una ricerca quasi psicanalitica, con una lettura obliqua e corrosiva, alla domanda che per stanchezza nessuno si pone più: ma chi glielo ha fatto fare? Voto 8.

BASSO IVAN
(ciclista)
Un Giro da 8 e un Tour da 4. Voto 6.

BEARZOT ENZO
(uomo di sport)
Avrei potuto scrivere ex ct, ma Bearzot non è mai stato ex di nulla. Al 1982 si lega il ricordo dell'ultima, vera, grande, spontanea festa collettiva di un Paese, il nostro. Negli anni successivi ha badato solo a non contaminare i suoi valori di cittadino e di sportivo mescolandoli a quelli, sempre più velocemente cadenti, di un Paese, sempre il nostro. Gli amici sognavano per lui un funerale senza applausi. Non c'è stato, ma bisogna dire che l'applauso è durato proprio poco.

BENITEZ RAFA
(allenatore)
Anche i più pazienti prima o poi sbottano e così ha fatto lui quando si sentiva non protetto (hai visto mai?) ma almeno parzialmente illuminato dal mondiale. Rafa è sbottato quando ha capito che il cerino sarebbe comunque rimasto sempre in mano sua. Non è esente da errori, ma sul piano comportamentale nessuno può insegnargli nulla. Stringi stringi, due vittorie al medagliere le ha pure portate. Gli resta un record difficilmente battibile, anche da parte di Mourinho: unico allenatore cui Moratti non abbia comprato un giocatore. Stretta di mano e 7,5.

BERLUSCONI SILVIO
(raccontatore di barzellette)
Nel campo, si rivela molto meglio dei Fichi d'India e molto peggio di Gino Bramieri. Non fosse vagamente distratto dalla politica, gli consiglierei di rinfrescare il pur vasto repertorio. La barzelletta sui romagnoli razzisti circolava già quando ero al liceo, ma ambientata a Milano. E quell'altra, che parla di un tatuaggio che si rivela essere San Benedetto del Tronto, circolava quando ero alle medie. Voto 5,5.

BERSANI PIERLUIGI
(politico)
Onesto, non si discute. E poi le maniche rimboccate, che ideona. Ma io continuo a vedermelo in una riunione di condominio: il calorifero nel salotto della signora Rossetti non scalda, poi c'è da mettere a norma la caldaia, abbiamo chiesto due preventivi, e sono da sostituire due citofoni. Voto 6.

BLATTER JOSEF
(presidente Fifa)
I primi Mondiali giocati in Africa, i primi Mondiali assegnati alla Russia, i primi Mondiali a un paese arabo. Stavolta sì che merita un voto alto: 5.

BOIVIN
(ristorante)
A Levico Terme (Trento), miglior cena del 2010 con un menu fisso di 30 euro (vini esclusi).

BRONDI VASCO
(cantante, nome d'arte Le Luci della centrale elettrica)
Di nuovo in giro c'è poco. Col secondo cd si conferma questo ferrarese specializzato nel cantare precarietà lavorative e sentimentali. 7,5.[

BRONZINI GIORGIA
(ciclista)
Lo sprint con cui vince l'oro su strada in Australia è degno di un Saronni. Voto 8.

CANTARINI GERMANA
(giocatrice di bocce)
Cremonese, parrucchiera, 46 anni, già conquistati sei titoli mondiali (si gioca ogni quattro anni). L'ultimo quest'anno, specialità raffa, unica italiana in gara. Era stata ferma un anno per curare un tumore al seno. "Volevo giocare ma durante la chemio le gambe non mi reggevano". Il ritorno alle gare non era stato facile: "Mi hanno tolto diciassette linfonodi nella parte destra e io sono destra. I primi tiri sono stati molto dolorosi, ma non mi sono persa d'animo. Voto 10 (storia letta su Sportweek).

CASSANO ANTONIO
(calciatore)
I bookmakers non hanno ancora deciso chi sarà il primo milanista a litigare con lui. Io sì: nell'ordine, Ibrahimovic, Ambrosini o Boateng. Gattuso no perché ha deciso che gli farà da tutore. Col nuovo presidente parlerà d'altro e andranno d'accordissimo.

CECINI GIUSEPPE E RINALDI GIUSEPPE
(pensionati)
Ex sindaco, 83 anni, il primo, presidente provinciale dell'Anpi, 87 anni, il secondo. A Grosio (Sondrio) viene ripristinata sulla facciata del municipio una scritta fascista. La spiegazione è che fa parte della nostra storia. Il 25 luglio, di notte, i due agganciano un pennello a una canna da pesca e scrivono sulla stessa facciata: "Vergogna". Giovanotti in giro in moto gli dicono che queste cose non si fanno. Sì, invece, voto 9. Denunciati per imbrattamento, saranno processati e ci tengono molto a essere processati.

CLUB TENCO
Sempre più difficile il lavoro, con i migliori che se ne vanno e i fondi continuamente tagliati. Pure, l'ultima edizione, in forse fino all'ultimo, se l'è cavata bene: 7,5.

CONSTANT KEVIN
(calciatore)
Per ora è al Chievo. Bravo il ds Sartori a scovarlo nello Châteauroux, serie B francese. È già scattata la sfida tra Milan e Inter a chi lo compra prima. Centrocampista di origine guineane, vede poco la porta ma corre per due. Voto 7.

CONTADOR ALBERTO
(ciclista)
Film già visto, vincitore del Tour accusato di doping (clenbuterolo) si difende accusando un filetto di manzo. Insorgono in Spagna gli allevatori di manzi. Lui dice che la verità verrà a galla e noi aspettiamo che qualcosa venga a galla, se poi è la verità meglio. Voto sospeso.

CONTI BRUNO
(dirigente Roma)
Il migliore degli azzurri al Mundial di Spagna. Lo disse Pelè, che di calcio capisce. Si legge volentieri la sua storia in "Essere Bruno Conti" (ed. Castelvecchi, 190 pagine, 14,90 euro), biografia non banale scritta da Gabriella Greison.

DEL BOSQUE VICENTE
(ct Spagna)
La foto più bella del Mondiale è quella che lo vede correre incontro al figlio down. Negli occhi del padre e del figlio il flash ha fissato un mondo. Voto 9.

DE PAOLI EUGENIO
(Rai)
Grandi e lunghi (anche troppo) dibattiti, a inizio campionato, quando annunciò che avrebbe mandato in pensione la moviola, oppure l'avrebbe utilizzata al minimo. Poi, silenzio (anche troppo). Invece, a bocce ferme, è il caso di dire che della moviola in tv e nella vita di tutti i giorni si può fare benissimo a meno. Quindi, non era una brutta idea: 7,5.

DI FRANCISCA ELISA
(fiorettista)
E le ragazze, cosa combinano le nostre schermitrici? Vincono l'ennesimo Mondiale con l'ennesimo fiore della scuola (o serra) di Jesi. Voto 8.

DI NARDO FRANCESCO
(giudice sportivo Comitato Lombardia)
Nel campionato Allievi infligge due giornate di squalifica a un'intera squadra di Casal Pusterlengo per comportamento razzista nei confronti di un avversario. Ben fatto, 8.

DOMENECH RAYMOND
(ex ct Francia)
Definisce una pagliacciata l'ammutinamento, molto serio, dei suoi giocatori in Sudafrica, va a casa al primo turno (come l'Italia, con cui aveva giocato la finale quattro anni prima). Non stringe la mano al ct avversario, Parreira, dopo l'eliminazione. Persa la panchina, si iscrive alle liste di collocamento. Da giocatore era un provocatore e tale è rimasto. Per me, bastava un episodio del '96 ad Atlanta (vendeva da bagarino i biglietti delle partite) a inquadrarlo. Voto 3.

EDWARDS JONATHAN
(ex atleta)
Primatista del salto triplo e simbolo di fede nello sport, annuncia di essersi convertito al darwinismo. Fatti suoi, ma qui si premia la trasparenza della comunicazione: 8.

FAZIO FABIO
(intrattenitore televisivo)
Il suo programma, con Roberto Saviano, ha bloccato fino a dieci milioni di italiani davanti ai teleschermi. Non era un programma leggero, né di futili contenuti, anzi. Due le reazioni, forse collegate. Dunque c'è un'altra Rai. Dunque c'è un'altra Italia. Voto 9, un dubbio c'è: una trasmissione così rimarrà piantata come un obelisco tra i nanetti da giardino o ne produrrà altre? Se penso a Masi (2) ho già la risposta.

FEDERER ROGER
(tennista)
Passano le stagioni e lui è sempre il signore che conosciamo. 9.

di Gianni Mura; la Repubblica

venerdì 24 dicembre 2010

Si volta pagina

Dopo l'addio al tanto bistrattato Rafa, ecco il buon Leo, da oggi un ex milanista a tutti gli effetti. Uno che le ha cantate al Silvio come neanche il Gianfranco.
In culo alla balena. E forza Inter!!!

mercoledì 22 dicembre 2010

Il Vecio (II)

Non è vero che italiani come Bearzot non ne nascono più. È vero invece che nascono quasi sempre negli stessi posti: vicino a un confine.

Là dove dell’italianità, evidentemente, arrivano solo gli effluvi e non le pestilenze. Italiani di confine erano i piemontesi Cavour e Gobetti, il trentino De Gasperi e - per rimanere nel paradiso ristretto dei commissari tecnici campioni del mondo - l’alpino torinese Vittorio Pozzo. Dell’italiano di confine, Enzo Bearzot da Aiello del Friuli aveva tutte le caratteristiche, a cominciare dal cattivo carattere che è tipico, diceva Montanelli, di chi un carattere ce l’ha.

Nella patria dei vittimisti che scaricano di continuo le proprie responsabilità, lui era uno che si assumeva spesso anche quelle degli altri. Proteggeva i suoi miliardari in mutande come un papà. Ma non come un papà moderno e cioè dando loro sempre ragione. Sapeva ascoltarli, sgridarli e poi aspettarli, per mesi o per anni come con Paolo Rossi, trasmettendo sicurezza a quei cuori fragili. Nella patria dei disfattisti seppe raccogliere i cocci di un ambiente distrutto dal calcio-scommesse e trasformare le polemiche con la stampa in benzina reattiva. Nella patria dei cinici impose una sua visione romantica del calcio, senza però mai dimenticarsi che il contropiede non è una parolaccia ma l’essenza di una nazione che, dal Piave al Bernabeu, in contropiede ha vinto tutte le battaglie reali o metaforiche della sua storia.

Nella patria dei raccomandati lui, ex capitano e tifoso del Toro, penalizzò in Nazionale le bandiere granata a beneficio delle maglie juventine che aveva combattuto all’ultimo sangue in tanti derby. Nella patria dei gerontocrati lanciò Rossi e Cabrini a vent’anni e Bergomi a diciotto nella finale Mundial. E, quel che più conta, nella patria degli opportunisti non trasse alcun vantaggio dall’impresa spagnola che fece di lui e della sua pipa l’icona di almeno due generazione di italiani. Finita l’avventura in azzurro non gironzolò per talk show, non firmò contratti pubblicitari o di consulenza, anche quando per molti club sarebbe stato un onore potersi fregiare della sua collaborazione. Semplicemente si mise da parte, con un senso impeccabile dell’uscita di scena, senza aggrapparsi alla coda filante della gloria perché non ne aveva la nostalgia né il rimpianto. Gli era più che sufficiente serbarne il ricordo.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 21 dicembre 2010

El Matador

Anche in questo preciso momento, mentre voi leggete e ogni cosa sembra accaduta, la messa finita, i tifosi andati in pace, anche ora non si può escludere che Edinson Cavani stia segnando. Fuori tempo massimo, fuori da ogni logica, ma che altro è la fede? La partita di calcio è un rito collettivo, la celebrazione di una speranza condivisa. Sintesi di questo supremo anelito è l'idea di una vita oltre la vita, ovvero di un gol oltre il novantesimo che per definizione, finanche televisiva, rappresenta il sipario. Laddove la sua calata non venga accolta come un nuovo inizio.

Accade a Napoli, dove altro sennò? La città si presta, la sua anima lo pretende. Quando il quarto uomo alza il tabellone dell'agonia supplementare altrove si mettono la sciarpa e s'incamminano, al San Paolo si tolgono la giacca e se la giocano. Cominciò già l'anno scorso, all'arrivo di Mazzarri in panchina. Era chiaramente un rito, lui in maniche di camicia biancotalare, muta la folla, un cielo squarciato d'azzurro, il riverbero di tutti i momenti di sacra follia partenopea: le lacrime di sangue sul volto di San Gennaro, la Bibbia tradotta da Erri De Luca evocando angelici voli dai terrazzi di Montedidio, la telecronaca di Alvino & Auriemma da Torino al gol del 3 a 2 sulla Juventus: "Vogliamo morire adesso, seppelliteci qui!", "Grazie Dio che m'hai fatto tifoso del Napoli!". Mancava, era evidente, soltanto un sacerdote all'altezza della cerimonia. Maggio, Hamsik, Lavezzi erano chierichetti. Poi l'estate scorsa è arrivato lui, don Edinson Cavani, il centravanti in missione per conto di Dio.

Nell'infanzia la sola vocazione che gli si era presentata era quella calcistica, ma già il padre lo portava al campetto come a una funzione domenicale e gli insegnava che c'è una provvidenza dietro gli schemi. Tortuose le sue strade. Il profeta s'affacciò al giovane Edinson sulle rive del Danubio, intesa come squadra in cui giocava diciottenne. Si chiamava Julio Cesar Gonzales e gli parlò di Cristo mentre tornavano dall'allenamento, le borse in spalla. Cavani domandava, quello rispondeva, non era una chiamata, soltanto uno squillo. Ma pochi anni dopo, sbarcato a Palermo, se lo ritrovò curiosamente davanti, senza né ingaggio né futuro. Date un tetto a chi non ce l'ha. L'accolse, ne ascoltò la parola, luce fu. Cavani prese il numero 7, che l'Antico Testamento ricopre di significati. Quando arriverà a Napoli esigerà, soddisfatto, che se ne svesta per darglielo addirittura Lavezzi.

Il Cavani di Palermo è una promessa, un giovane dotato con l'apparecchio ai denti e la moglie ragazzina. Uno la cui casa è aperta a tutti, inclusa la suocera e il gatto Simplicio. Più che un appartamento, una parrocchia. Gioca, quando gioca, seconda punta. Reclama la prima fila, invano. Delio Rossi trova difficile parlargli. Devoto, ma spigoloso. Chi lo ha visto nel fortunato mondiale dell'Uruguay non si è lasciato convertire: chiuso tra l'onnipotenza di Forlan e le diavolerie di Suarez è sembrato un mistero glorioso. Come misteriosa è rimasta l'aggressione del 9 dicembre 2009, l'auto su cui viaggiava presa a colpi di catene da sconosciuti per motivi mai chiariti. L'effetto: chiede a Zamparini di essere ceduto. A chi? A chi lo faccia giocare prima punta, a chi gli dia tutto lo spazio e il tempo disponibili e anche quelli che non lo sarebbero, a chi creda in lui e in Lui. Che finisca a Napoli è quasi doveroso. All'inizio sembra che lo prendano al posto di Denis. Poi vendono Quagliarella. Infine si fa male Lucarelli. E Cavani resta solo, come voleva e come era scritto: uno, ma come fosse trino. Si stabilisce fuori città. Riceve a domicilio il messo evangelico.

Mette incinta la moglie. Non risponde a domande sulla camorra. Va in campo e segna. Praticamente sempre. Se Quagliarella faceva (e fa) i gol impossibili, Cavani li fa tutti. San Paolo stadio adora il suo volto da Gesù Cristo pasoliniano (benché al prosaico presidente De Laurentis ricordi più Massimo Ranieri). Gli dedicano una pizza, un amico campano solitamente misurato mi scrive: "Quando segna Cavani penso alla pace nel mondo". Da piccolo era El Botilla per l'esile struttura, da grande è diventato El Matador per come trionfa nell'arena, ma ecco affacciarsi El Salvador, dispensatore di miracoli annunciati. Perché quando la fede diventa pratica domenicale il pubblico comincia ad aspettarsi che ogni volta l'evento si compia. A esser laici non è altro che una scelta strategica: non accontentarsi del pareggio, piuttosto perdere, ma provare a vincere, dunque aprirsi e rischiare, Grava salva sulla linea evitando lo 0 a 1, poi palla avanti. Ma è difficile restare scettici quando il 7 azzurro prende quel pallone inoffensivo e compie una transustanziazione sportiva, due gesti, una prece e lo trasforma in gol, furor di popolo, liberazione. Ora, proprio in nome di Dio, il calcio si ferma. Qualcuno lo dica a Cavani.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

Il Vecio

Con quel profilo azteco, Enzo Bearzot pareva già un personaggio storico quando ancora andava in panchina, lui e la sua pipa, lui e il suo labbro tremulo per troppa emozione. Erano tempi in cui la gente tutta d'un pezzo controllava quasi ogni parte del corpo, nel tumulto emotivo: non era freddezza, era decoro. Poi, tanto, sarebbe di certo venuto il giorno della gioia piena e suprema, incontenibile. Basta aspettare, e lavorare, basta essere seri e veri.

Stava male da tempo, e da tempo non concedeva interviste, pareri, commenti, giusto qualche pezzo sulla Gazzetta. Era anche ritrosia, o forse amarezza: non poteva, il vecio, sentirsi contemporaneo di questo calcio volgare e cialtrone che pure lui non offese mai: meglio il silenzio, più dignitoso. Il silenzio che nasce per misericordia, e pudore.

Nei giorni del mundial spagnolo, i primi e più difficili, Enzo Bearzot venne ferocemente criticato da tutti. Perché si ostinava con Paolo Rossi. Perché l'Italia giocava male e lui niente, avanti così. Un testone. La sua squadra bellissima, la migliore tra quelle azzurre del dopoguerra e forse di sempre (addirittura inarrivabile per brio, freschezza, classe) fu quella del mondiale argentino del '78, dove nacque il trionfo di quattro anni più tardi. Gli "argentini" giocarono anche meglio degli "spagnoli".

Lui, Zoff, Scirea, i tre angoli di pietra di una squadra di uomini. Gente robusta dentro, pochissime parole, solo fare bene e lasciar dire. Gente come non se ne trova più, oppure bisogna saperla cercare. Gente che, nel calcio, e tra gli allenatori, non a caso arriva spesso dal Friuli, terra di valore e valori: Bearzot, Capello, ora Reja e Delneri. Perché per insegnare bisogna sapere, e per saper insegnare bisogna essere.

Enzo Bearzot appartiene ai padri della patria, non pensiamo sia un'esagerazione dirlo, e scriverlo. È nella storia vera, quella che si fa senza chiacchiere, perché lo sport è vita al quadrato, è emozione, forza, tenacia, educazione, lo sport è la strada attraversata dai sogni quando i sogni prendono corpo, e ogni tanto succede. Bearzot era perfetto, accanto a Pertini: due gemelli, non solo per la passione delle carte e dello scopone.

In un tempo che fatica a ritrovarsi, dove gli esempi e i riferimenti svaniscono e sbiadiscono, figure come Enzo Bearzot sono stelle polari, anche adesso che tutto cambia, forse più adesso di prima. Non tutto è perduto se resta la memoria, e se raccontiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti di come lottarono e vinsero quegli azzurri, soli contro tutti, anche se poi non è mica una coppa del mondo il vero trionfo. Il trionfo è essere com'era Bearzot, come dovrebbero essere tutti quelli che amano, insegnano e praticano lo sport. Schivi quanto basta, sinceri e concreti sempre. Una leggenda, una specie di zio nei ricordi di tanti. Un punto di riferimento non per ieri, ma per domani. E grazie, di cuore, per quella gioia lontana che pure non finisce mai.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

sabato 18 dicembre 2010

Pupi (& Co.)

Mostrare la coppa al mondo. Alzarla più in alto che si può. Sollevarla con i compagni. Meritarsela tutta, dal primo all'ultimo grammo, dalla prima all'ultima stilla di sudore, dal primo all'ultimo giorno di Inter. Javier Zanetti mostra la coppa del mondo che il suo club ha appena vinto, regolando senza problemi i congolesi del Mazembe, e in quell'ostensione c'è una storia di vita e di sport che è un esempio per chiunque. Zanetti e l'Inter, ormai, sono una cosa sola.

Il capitano è all'Inter dal 1995. Ne ha attraversato tutta la storia recente, che tra l'altro coincide con la presidenza Moratti. E' stato il simbolo delle sconfitte più atroci: l'Inter dei perdenti si identificava in lui, in quel suo correre sempre uguale e sempre potente, ma alla fine mai produttivo, o comunque mai vincente. Lui ha avuto la capacità di rimanere fedele a se stesso, sempre puntando sulla professionalità, sull'impegno nel lavoro e negli allenamenti, sulla correttezza cristallina in campo e fuori. Un esempio per i compagni di squadra, un avversario stimato da tutti i giocatori delle altre squadra. Ha attraversato e vissuto sulla propria pelle i tracolli interisti più drammatici, come quello del 5 maggio 2002. Ha lasciato il segno però nell'unico trofeo vinto da Moratti nel suo primo decennio di presidenza, quella Coppa Uefa del 1998 che lo vide protagonista in finale contro la Lazio, segnando persino un gol bellissimo, lui che non ne segna quasi mai. Poi è rimasto il simbolo dell'Inter anche negli anni della risalita, quando le distanze da Juve e Milan si sono annullate dopo il terremoto di Calciopoli, e il suo club ha iniziato a vincere gli scudetti inseguiti per tanto tempo. E Zanetti sempre lì, sempre pettinato allo stesso modo, sempre professionale e impeccabile, anche nel nuovo ruolo di centrocampista che gli ritaglia Mancini.

Arriva Mourinho e si pensa che Zanetti potrà avere qualche problema: macché. Il capitano rimane una colonna anche col portoghese, irrinunciabile in qualsiasi frangente, da terzino di destra o di sinistra, da centrocampista multiforme. Passano gli anni e il capitano è sempre lì, mai una flessione di rendimento. E' giusto che a Madrid alzi lui la Champions, ed è persino sacrosanto che la vittoria arrivi nel giorno in cui lui festeggia la partita numero 700 con la maglia nerazzurra. Poi si arriva ad Abu Dhabi e il capitano, quello che non segna quasi mai, realizza il gol del 2-0 in semifinale. La finale col Mazembe ha poca storia, e anche grazie a Zanetti, che dopo l'1-0 di Pandev avvia e perfeziona con un assist l'azione del 2-0, prima del 3-0 nella ripresa di Biabiany. Il trionfo è completo, assoluto. Quasi sedici anni di Inter, una vita dentro e per il suo club. Dietro quella coppa del mondo che il capitano alza nella notte araba, c'è una meravigliosa vita di sport che tutti vorrebbero imitare.

di Andrea Sorrentino; la Repubblica

Mazembe-INTER 0-3


Kifumpa

Si chiama Kifumpa. E a Lumunbashi, la città casa del Mazembe, tutto gira intorno al gioco più bello del mondo. Non serve un pallone di cuoio, basta una kifumpa. Stracci cuciti insieme da un filo resistente, la forma è rotonda, la sostanza è una palla da prendere a calci. Il settanta per cento dei bambini ci gioca per strada, il Mazembe è una società ricca, molto ricca con un budget da 10 milioni all'anno garantiti dal presidente Moise Katumbi Chapwe, governatore del Katanga, benestante regione del Congo. Sessanta milioni di abitanti, il rame è la miniera d'oro: il Mazembe rappresenta l'avanguardia del calcio e anche del Paese.

Stipendi che superano i 40 mila dollari al mese in una nazione dal reddito pro capite intorno ai 300 dollari mensili. Una Accademy che raccoglie 300 giovani, dai pulcini fino all'uscio della prima squadra: dal kifumpa al pallone dei grandi. Democrazia fresca, ancora sotto osservazione, il problema a sentire chi vive in quelle zone sono le vie di comunicazione: ipotesi di strade cui linee aeree non proprio affidabili cercano di supplire. Per la Farnesina è ancora un Paese a rischio, il Mazembe anche per questo vuole vincere il Mondiale per club: «E' arrivato il momento di voltare pagina, l'Africa può giocarsela con una delle squadre più forti del mondo. Non deluderemo i nostri tifosi». Nella sera della vittoria contro l'Internacional di Porto Alegre ce ne erano almeno mille in tribuna, molti di loro spesati proprio dal presidente. Lumunbashi attende con trepidazione la finale di Abu Dhabi, la birra è pronta a scorrere, per l'ultima vittoria nella Champions africana del Mazembe i tifosi hanno invaso le strade e cominciato a girare nudi.

Lamine N'Diaye, tecnico del Mazembe, è senegalese e musulmano. La squadra, tutti cattolici, prega prima della partita e nell'intervallo, tutti in ginocchio sulla linea di porta. Lui prega da solo, in silenzio, sa che Abu Dhabi può entrare nella storia del calcio africano: mai nessuna squadra di questo continente ha vinto un titolo mondiale. Due tv al seguito Nyota, (Stella), emittente di Lumumbashi, e Rtnz, la tv di stato. Cinque giornalisti della carta stampata e un tifoso-accompagnatore: Gabriele Salmi, dal 2004 in Congo con una Ong (Alba, si occupa dei bambini) è entrato in contatto con il Mazembe proprio grazie al pallone. E così quando la squadra congolese cercava un posto per il ritiro prima della finale di Champions League in Tunisia hanno chiesto a Gabriele: lui li ha portati a Licata, clima simile alla Tunisia e ospitalità da vendere. Ora li segue in tutte le trasferte e sarà il primo bianco a gioire in caso di vittoria sull'Inter. Mazembe: un coccodrillo che mangia il pallone ne è il simbolo. L'Inter è avvisata, le fauci sono già spalancate.

di Paolo Brusorio; LA STAMPA

mercoledì 15 dicembre 2010

Seongnam-INTER 0-3

Il ritorno del Principe Milito, autore di un goal (il terzo della serata) e di un magnifico colpo di tacco che ha liberato Zanetti per il raddoppio, che ha seguito la rete d'apertura di Stankovic.
Sabato nella finalissima ce la vedremo con il Mazembe, dal Congo.

La numero 3

La prima immagine di papà Giacinto sui campi è legata ad Appiano Gentile. Casa Inter, insomma. "Ero piccolissimo, ricordo quelle tute nero azzurre attorno a me che correvano. Io li guardavo, mi sembravano tutti giganti. Erano gentili, si divertivano a farmi calciare un pallone. Sì, ero un bimbo tra i giganti, un bimbo in un mondo magico". Gianfelice Facchetti ha la stessa aria pulita di suo padre Giacinto, lo stesso tono sobrio ed elegante. Giacinto Facchetti: in una parola una leggenda del calcio nazionale e internazionale. Il primo terzino sinistro a difendere e ad attaccare. Il primo terzino sinistro a segnare come un bomber. E a conquistare il mondo con l'Inter. Giacinto se n'è andato qualche anno fa, prima che l'Inter di Massimo Moratti prendesse a vincere ovunque e a raffica. Come lui avrebbe fortemente voluto. Gianfelice, attore-regista di teatro, è uno dei figli, impegnato nel custodirne i valori e lo spirito. Con uno stile inconfondibile, quello di casa Facchetti.

LA TIMIDEZZA DEL CAMPIONE - "Papà - così apre il libro dei ricordi Gianfelice - aveva molto pudore a parlare di sè come giocatore. Non si è mai autocelebrato. Ha vinto tutto, eppure non stava lì a ricordarlo a nessuno. Tantomeno a noi. Sembrerà strano ma solo negli ultimi tempi, grazie a Roberto Boninsegna, con cui pranzava spesso, prese a parlarne. Sembrerà paradossale, ma io, suo figlio, in qualche modo ho recuperato tutta la sua storia sportiva da quando non c'è più.
Così ho scoperto quel papà così "normale" che vinceva le Coppe Intercontinentali ed era ammirato in tutto il mondo...".

NOTTE MAGICA COL LIVERPOOL - Ma di tante galoppate sulla fascia, di tante partite epocali, cosa era rimasto nella mente del capitano della Nazionale? "La partita di San Siro con il Liverpool, quella su tutti. Ne avevano prese di santa ragione in Inghilterra, 3 a 1 con cori di sfottò e quel when the saints go marching in che risuonava ancora nelle orecchie di tutti gli interisti. Papà mi raccontava che al ritorno fu tutto magico, che non aveva mai visto lo stadio milanese così carico, al punto da spingere letteralmente tutta la squadra alla clamorosa rimonta. Finì tre a zero per la Grande Inter e papà segno una grandissima rete. Così la canzoncina degli inglesi stavolta la cantammo noi, con qualche parolina cambiata...".

LA MONETINA EUROPEA - Con l'Italia, Giacinto ha raggiunto anche la finale mondiale del '70, il torneo di Italia-Germania 4 a 3. Tuttavia, dice Gianfelice, della sua lunga e ricca carriera azzurra, papà Giacinto amava ricordare un trionfo passato anche per la dea bendata. "La vittoria del campionato europeo a Roma, nel 1968, lo inorgogliva e lo divertiva anche per come era avvenuta. In semifinale, a Napoli, finì zero a zero con l'Urss, anche dopo i supplementari. Allora i rigori non venivano proprio contemplati. Così fu il lancio della monetina a decidere il finalista. Il sorteggio favorì l'Italia che poi affrontò due volte la Jugoslavia in finale, la prima finì uno pari, la seconda vincemmo per due a zero. Questo è il ricordo più azzurro di mio padre".

L'INTERCONTINENTALE E LE MINI-COPPE - Tra i successi di Facchetti, naturalmente, le due Intercontinentali. "Che tempi: figurarsi che il premio, mi raccontava papà, allora consisteva nel potersi tenere la maglietta con cui si era giocato e nella consegna di piccole riproduzioni del trofeo mondiale. Adesso sinceramente non so dove siano finite le due mini-Intercontinentali, devono essere da qualche parte. So che la riroduzione della prima Coppacampioni papà l'aveva data a sua sorella".

PICCOLETTI TERRIBILI - Tante gioie e soddisfazioni sui campi verdi, si perde nella notte dei tempi il ricordo di un Giacinto in difficoltà. "Beh, forte era forte ma c'era un certo tipo di giocatore che gli dava molto fastidio". Chi, Gianfelice? "Mi raccontò di avere sofferto le pene dell'inferno nel marcare quegli attaccanti, ali soprattutto, piccoli di statura e molto rapidi di gambe. Lui, così alto, faceva una gran fatica. Mi parlò in particolare di Giancarlo Danova, detto Pantera, del Milan, con cui poi divenne grande amico; e di Igor Cislenko, ala sinistra dell'Unione Sovietica. Con loro, ammise, non fu facile".

BONIMBA CHE AMICO - Ma chi era il compagno di squadra più vicino a Giacinto? Sorpresa, non proprio uno della Grande Inter anni Sessanta, ma comunque sempre un grandissimo nerazzurro come Roberto Boninsegna, il goleador dello scudetto del 1971 e della Coppacampioni persa l'anno successivo con il fortissimo Ajax di Cruijff. "Già, Bonimba, che amico per papà. Ce lo siamo ritrovati sempre vicino soprattutto nei momenti brutti, quelli della malattia. Sì, d'accordo, magari erano molto differenti come indole e carattere, ma si trovavano nei valori importanti. Nell'amicizia. Devo dire grazie a Roberto Boninsegna per il tempo che ha passato con noi, Bobo spronava il suo vecchio compagno di squadra a uscire dal suo riserbo, a ricordare. Quando doveva esserci, Bonimba c'era".

SARTI, BURGNICH, FACCHETTI - Nello scioglilingua che qualsiasi interista ha mandato a memoria, altri rapporti di amicizia. "Papà era legatissimo a Tarcisio Burgnich, suo compagno di squadra nella Grande Inter. E poi ad Aristide Guarneri, con cui si vedeva spesso. Personalmente, poi, mi ha davvero colpito Giuliano Sarti, l'ho incontrato solo nel 2008 e, ascoltandolo, mi sono reso conto di quanto fosse simile e vicino a mio padre".

I RAPPORTI CON MAZZOLA - Nei filmati di repertorio, un classico Inter è l'abbraccio tra Sandrino Mazzola e Giacinto Facchetti dopo le innumerevoli giocate vincenti confezionate dai due. Eppure, qualcosa, negli ultimi anni, si era rotto tra il Baffo e il terzino goleador. "Sì, c'era stato qualche screzio ed era calato un certo gelo, non ne conosco i motivi; però devo aggiungere una cosa importante - afferma Gianfelice - quando qualcuno in questi tempi balordi si è permesso di diffamare mio padre, il primo a intervenire con durezza per prendere le parti di chi non c'è più è stato proprio Mazzola. Un giorno, a una presentazione di un libro su mio padre, dove c'era poca gente e nessuna telecamera, intervenne Sandrino, di cui avevo sempre sentito parlare senza mai conoscerlo personalmente. Ebbene, disse cose splendide su papà. Poi gli parlai e, con grande umanità e umiltà, mi spiegò che sì, erano stati davvero molto amici ma poi qualcosa si era rotto. Aggiunse: "Ma forse, se questo è accaduto è perchè ho sbagliato qualcosa io, così come lui, insomma abbiamo sbagliato entrambi". E' bello sapere che, oggi, Mazzola difende sempre l'onore di papà".

CAMBIASSO E LA NUMERO 3 - E oggi, c'è ancora chi festeggia i nuovi trionfi interisti con il numero 3 sulle spalle: è Esteban Cambiasso. Un retroscena che Gianfelice racconta con piacere: "Quando l'Inter vinse il primo scudetto sul campo del Siena, Cambiasso mi telefonò: "Buonasera, sono Esteban, potrei avere una maglia di suo padre, vorrei indossarla e fare festa per il titolo che lui avrebbe voluto vedere e vivere, sa ho conosciuto Giaginto e mi sento molto legato a lui". Gliela diedi, ne abbiamo pochine ormai, di maglie. Il tempo passa, no? La indossò con orgoglio. Poi me la riportò lavata e stirata. Gli dissi: "Esteban, è tua, tienila". Poi ha indossato ancora la 3 nella notte di Madrid. Bello. Dei giocatori attuali lui e Ivan Ramiro Cordoba sono i più vicini a noi, assieme a Javier Zanetti".

I QUADERNI DEL MAGO - Difficile scegliere tra i mille aneddoti che Gianfelice ha ereditato da papà Giacinto. Irrununciabile quello su Helenio Herrera. "Papà aveva una devozione per il Mago. Fu lui a lanciarlo e soprattutto fu lui a difenderlo perchè, sì, pochi lo ricorderanno, ma all'inizio il pubblico di San Siro prese di mira quel terzino così alto che si spingeva così in avanti. Mago Helenio non fece una piega e lo tenne in campo. Coerente e coraggioso. I due si stimavano molto. Non è un caso se poi Herrera ha voluto che uno dei suoi celebri quaderni con gli appunti sulla Grande Inter finisse proprio al suo terzino. Ogni tanto sfoglio quelle pagine e ritrovo anche mio padre".

FIGURINE DI PAPA' - Gianfelice continua a "recuperare" la memoria di quel campione inimitabile e di quel padre così discreto rispetto ai suoi successi. Uno dei tanti modi è legato alle figurine. Spiega: "Mi piace trovare tutte le sue immagini sparse per il mondo. Raccogliere le figurine di ogni tipo sparse per le varie nazioni. Sono tantissime, non ci credereste. Foto di ogni tipo, caricature comprese. Rivedo papà Giacinto, rivedo tutte le sue espressioni. Lo rivedo giovane, forte e campione".

di Giovanni Marino; la Repubblica

L'altro calcio

Il nostro calcio scoppia: in Italia ci sono 127 club professionistici (perché lo scorso anno la Lega Pro ha ridotto gli organici di 5 unità, da 90 a 85). Un record che ci sta portando a fondo. Basta pensare che in Inghilterra i club "pro" sono in tutto 92, in Germania 56, in Spagna 42, in Francia 40 e che nello sport Usa, poi, ci sono solo 30 club nell'Nba, nel Mlb e Nhl (basket, baseball e hockey ghiaccio) e 32 nel Nfl (football). Per il calcio italiano una situazione insostenibile, fuori da ogni logica. "E questa -ammonisce Mario Macalli, presidente della Lega Pro - è solo la punta dell'iceberg: quello che sta sotto è molto peggio...". Quello che si sa è che in A il Bologna annaspa e cerca di salvarsi con l'azionariato popolare, in serie B l'Ascoli ha 5 punti di penalizzazione per stipendi non pagati, in Lega Pro i calciatori di Pro Patria (prima in seconda divisione, girone A) e Catanzaro (ultimo in seconda divisione, girone C) si sono fermati per un minuto all'inizio della partita perché da luglio non hanno visto un centesimo. Ora metteranno in mora i club, e si svincoleranno: a Catanzaro, giocano addirittura a porte chiuse perché non hanno i soldi per aprire lo stadio e pagare gli steward. "Noi come Lega dovremmo chiedere i danni d'immagine a questi due club -tuona Macalli - Così non possiamo più andare avanti: io credo che siano una trentina i club che non pagano gli stipendi. E ora siamo solo a dicembre, figuriamoci a maggio... Una situazione disastrosa: sarà un campionato pieno zeppo di penalizzazioni. Ma che senso ha?".

Per ora sono state già penalizzate Spal, Salernitana, Lumezzane, Foggia, Cavese, Foligno (prima divisione), Rodengo, Canavese, Sangiovannese, Villacidrese e lo stesso Catanzaro (seconda divisione). Altre se ne aggiungeranno presto, dopo gli ultimi controlli Covisoc e i deferimenti di ieri della procura federale nei confronti di Catanzaro (ancora...), Cavese, Sangiovannese e Ternana. In difficoltà anche il Como: tra l'altro, sabato scorso sono state bloccate le puntate sul "2" (la partita Como-Spal, giocata domenica, è finita guarda caso 2-3...). E anche quello delle scommesse, soprattutto in Lega Pro, è un fronte sempre ad altissimo rischio. "Bisogna monitorare il sistema per garantire la legalità", ha detto Giancarlo Abete, presidente Figc. Il 21 dicembre, nell'ultimo consiglio federale dell'anno, sia Macalli che Carlo Tavecchio (Lega Dilettanti) proporranno il blocco dei ripescaggi, "l'unico sistema per fare una riforma dei campionati". Il sindacato calciatori è contrario. "Si vota - insiste Macalli - e se non passa conosceremo i nomi dei responsabili: noi abbiamo proposto tre gironi da 20 ciascuno, un'autoriduzione. Non vogliono fare nulla? Lo dicano: chissà quanti club potranno iscriversi al prossimo campionato?".

di Fulvio Bianchi; la Repubblica

giovedì 9 dicembre 2010

Viva i calciatori

Primo. Le rivendicazioni dello sciopero erano legittime. Nella bozza proposta dalla Lega calcio, un organismo dominato da Adriano Galliani e Claudio Lotito per tramite del giornalista-manager Maurizio Beretta, c'erano clausole contro la legge. Il meccanismo del trasferimento forzato e degli allenamenti a parte per i fuori rosa è discriminatorio e Lotito è già stato condannato per averlo praticato alla Lazio.

Secondo. I tifosi sembrano credere che i calciatori non siano lavoratori. Il peggiore dei cori da stadio per una squadra di scarso rendimento è: andate a lavorare. Notizia: i calciatori sono lavoratori. Hanno una carriera breve e, fra loro, disparità di trattamento economico colossali. Altra notizia: non è vero che guadagnano sempre di più. La maggioranza guadagna sempre di meno e, a parte il caso del Bologna in serie A, i mancati stipendi sono la regola nelle serie professionistiche inferiori.

Terzo. Se il calcio è devastato dagli stipendi dei campioni, la colpa non è dei campioni. Se Messi riempie lo stadio e, con tutto il rispetto, Moscardelli no, la legge di mercato deve premiare Messi. Il calcio è un mestiere di tipo artigianale. Un artigiano molto bravo si chiama artista e se nessuno si scandalizza del prezzo di un Andy Warhol, non si vede perché scandalizzarsi dello stipendio di Ibrahimovic. Warhol e Ibrahimovic basta non comprarli.

Quarto. Il modello economico del calcio è un caso lampante di liberismo integralista e autolesionista. I proprietari dei club sono abituati a non avere regole. Il calcio è un'impresa come le altre, diceva il distruttore di imprese Sergio Cragnotti. Aveva torto. Infatti, la sua Cirio è finita in bancarotta. La sua Lazio è stata salvata.

Quinto. Tutte le terapie proposte per salvare i conti del calcio, dal salary cap alla proprietà degli stadi, sono o impraticabili o palliative.

L'unica cura, semplicissima, è: spendere in base ai ricavi. Se ogni anno un club perde un mare di soldi, come capita a tutti i grandi, deve essere penalizzato in classifica.

Grosso modo, è la strada che tenta di imboccare Michel Platini, il cosiddetto fair play finanziario. È la l'unica soluzione, se davvero gli oligarchi del calcio continentale non si metteranno di traverso. C'è da avere qualche dubbio perché, con il fair play di bilancio, vincerà chi è bravo non chi è ricco o chi perseguita meglio le maestranze.
Meglio i dribbling del mobbing.

di Gianfrancesco Turano; L'ESPRESSO

mercoledì 8 dicembre 2010

Werder Brema-INTER 3-0

Il Presidente pretende di non vedere altre cavolate? Eccolo servito con l'ennesima grande prestazione collettiva.
...E Arnautovic è proprio scarso.

domenica 28 novembre 2010

INTER-Parma 5-2

Partita sempre in bilico, nonostante il risultato possa far intuire altro. Protagonisti dell'incontro, ovviamente, i marcatori: Crespo (doppietta), Stankovic (tripletta), Cambiasso e Thiago Motta, al rientro. Ma anche Jonathan Biabiany, imprendibile.

sabato 27 novembre 2010

Abbiamo capito

Viene a trovarmi il mio amico Carlo Zuccoli, uno dei maggiori esperti italiani di ippica, e tennista non vile. Da grande competente, Carlo sa tutto sulle scommesse e, come ci sediamo in tribuna, mi domanda perché non porti con me il mio computer, e si sorprende, nel sentirmi rispondere che è proibito, e che addirittura potrebbero sequestrarmelo. La ragione è più che evidente. Da addetto ai lavori potrei conoscere le condizioni di salute dei tennisti, come accadde in un famoso match in Polonia tra Davydenko e Vassallo Arguello, in cui le puntate piovvero sull' argentino prima che il russo, favoritissimo ma infortunato, si ritirasse.O addirittura potrei comunicare in tempo reale chi ha segnato il punto, e scommetterci prima che giungano, sui televisori, le relative immagini. Zuccoli cava di tasca sorridendo un palmare, si collega a Bet Fair e ad un altro Bookmaker, per dirmi che le quote dei giocatori che stanno palleggiando, Federer e Soderling, sono 1.15 e 4 ½. Poi, sorridendo, mi invita a seguire, ad ogni punto, i mutamenti delle quote. «Non accadrà come nel famoso match di Davydenko», obbietto.
«Me lo auguro», risponde, «ma stiamo a vedere».
Inizia il match, Federer va in testa, si fa ripigliare, infine raggiunge il suo quinto gioco e, grazie all' ignobile formula del quoziente game, è a questo punto qualificato per la semifinale. Simile successo parziale, che potrebbe provocare nello svizzero un rilassamento, non sembra invece riguardarlo, tanto che sussurro al mio amico: «Vincendo il match, Roger non solo si qualificherebbe per le semifinali, ma al primo posto del suo gironcino». L' amico sorride, e mi mostra, sul suo palmare, il mutamento delle quote. Federer è disceso alla pari, Soderling è salito a 5 e ½. Non è finita. Dopo il sei pari, e un tiebreak in cui Roger servirà sempre la prima e fulminerà tre ace, eccolo classificato al primo posto nel girone, sempre grazie ai fottuti regolamenti, come li chiama il mio amico. Mi sottopone nuovamente le quote, con un Federer sceso sotto la pari, e Soderling salito tra l' otto e il nove.
«A questo punto - soggiunge Carlino - se Federer volesse sussurrare qualcosa ad un amico scommettitore, potrebbe perdere il match, guadagnare qualche milione di sterline, e qualificarsi lo stesso. Cosa te ne pare?».
«Mi pare sempre di più una formula che fa schifo. E ringraziamo gli Dei che Federer sia un' onesta persona». «Peccato tu non scriva in inglese», conclude Zuccoli, nel salutarmi.
«Forse, capirebbe qualcuno in più».

di Gianni Clerici; la Repubblica

giovedì 25 novembre 2010

INTER-Twente 1-0

Finalmente si torna a vincere, giocando più col cuore che con la testa, la maniera più efficace per portare a casa certe partite.

martedì 23 novembre 2010

A proposito...

Eto'o si becca, oltre ad una multa di 30.000 euro (noccioline), tre giornate di squalifica.
L'Inter presenterà ricorso sperando di scendere a due, ma comunque bisognerà fare a meno dell'unico che finora l'ha messa dentro.

Pelo

Più Pelo per tutti! Con questo allegro slogan la curva del Chievo ha accolto il ritorno in campo del suo capitano, Pellissier Sergio da Aosta, 10 anni e 87 reti con la stessa maglia, in B come in Europa, finché pensionamento non li separi. Ha 31 anni, ma è molto più giovane di quando ha cominciato a giocare su questo campo defilato, senza immaginare che si sarebbe preso la luce dei riflettori, la fascia da capitano, una maglia (proprio una) della nazionale e che una domenica di novembre avrebbe, tornando da un infortunio, affondato l'Inter, segnando come Eto'o, ma uscendo, lui, a testa alta, con l'inedita umiltà dei vincitori.
È un animale in via d'estinzione, Pelo: incarna la specie a rischio degli attaccanti di provincia. Discende dai Maraschi di Vicenza, dagli Hubner di Cesena. Condivide un testardo presente con Di Natale a Udine. Non prevede eredi, ha una figlia femmina di nome Sofia che veste di gialloblu e mostra al popolo adorante come una principessa ignara. Dopo di lui, il diluvio, ma intanto piovono gol.
Pelo è un uomo di montagna, ruvidamente avvolto nel silenzio, aggrappato a un tronco di semplicità. Cominciò al Torino dove, ma che sorpresa, non lo capirono. Lo prese il Chievo, quando ancora uno si chiedeva che autostrada prendere per arrivarci. Lo diede in prestito alla Spal. Andava a mangiare in un ristorante convenzionato. S'innamorò di una ragazza che ci lavorava. Una storia d'amore e buoni pasto. Poiché le parole definitive gli inciampavano in gola si dichiarò per e-mail. Andarono in luna di miele a New York, poi si stabilirono nel libero stato di Chievo, repubblica federalista di Verona. Lì, partiti Marazzina e Corradi, è diventato il faro dell'attacco, il capitano, il sindaco (volendo). Riverito, ma non controllato. Amato, ma non asfissiato.
È il miglior cannoniere della storia della squadra. Punta ai 100 gol prima di lasciare e il suo sito si apre coniugando all'infinito molti verbi (correre, sudare, lottare), ma non quello. Se prendete un qualunque goleador da copertina e lo fotocopiate in bianco e nero viene fuori Pelo. Non passa le serate all'Hollywood ma a casa con la moglie, giocando insieme alla playstation o guardando lo snooker in tv. Al polso ha uno Swatch.
Dice cose come: "La passione è quella cosa che ti fa guardare le caviglie gonfie e sorridere", "Se segno sono felice", "Chievo è il mio paradiso". Per due volte è stato vicino all'ascensore che l'avrebbe portato ancora più su. Due anni fa lo voleva il Napoli e lui era pronto. Ci è rimasto male quando ha capito che offrivano troppo poco, ma l'ha presa come una lezione. Quando l'estate scorsa è arrivata la chiamata della Fiorentina, con ingaggio raddoppiato, è stato lui a riappendere. Meglio un posto sicuro in prima squadra. Meglio giocare. E meglio ancora dire: "Io lo so come vive la gente e se penso che guadagno già venti, trenta volte più di uno che ha studiato, perché dovrei volere di più?".
Ha avuto perfino la nazionale, anche se è stata la storia di una notte. L'ha raccontata presentando il libro di Gigi Cavone e Francesco Facchini "Romanzo mondiale" di cui ha scritto la prefazione. Coverciano, nel suo ricordo, sembra un posto sospeso tra Disneyland e la Città del Sole. La porta dell'albergo che si chiude alle sue spalle mentre con la sacca dal bordo tricolore si avvia al campo è una porta che si apre. Nel prepartita, accarezzato dai cori che inneggiano all'Italia, scambia due chiacchiere con l'unico con cui ha già giocato: Matteo Brighi. Ha l'estrema dignità di ammettere: "Ero lì come sostituto di un sostituto". Si era fatto male Floccari. La prima volta va bene così. La seconda, considera, meglio andarci perché sei una vera scelta, sennò tanto vale restare a casa con la famiglia. Poi entrò pure in campo e segnò un gol: il terzo, il più bello. Non fu "l'inizio di una bella amicizia", fu la fine di tutto. Ai Mondiali non ci è mai arrivato. Non si è perso molto: poteva partecipare alle nomination del Sestriere, o andare in Sudafrica e fare Quagliarella, segnare fuori tempo massimo. Di sicuro non avrebbe pianto. Ha il senso del pudore, delle proporzioni e della realtà.
Sentendo parlare di Argentina '78 (aveva sei anni), del trofeo propaganda, del capitano Carrascosa che si chiamò fuori per protesta, delle torture a pochi passi dallo stadio, ha domandato, più sensato che ingenuo: "È tutto vero, sì? Ma perché nessun giornalista ne parlò allora?". Perché spesso i giornalisti sono difensori con pessima scelta di tempo. Entrano in scivolata quando già la palla è lontana, l'attaccante è scappato via. S'annoiano del mondo, mai di se stessi. Il Chievo? Uh, una vecchia favola moralista. E intanto ti sfugge il Pelo, un pelo d'etica nell'uovo marcio.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

lunedì 22 novembre 2010

Chievo-INTER 2-1

Continua il grande momento dell'Inter, sotto l'aspetto del gioco, della brillantezza e dei risultati. Così un Chievo che non segnava da quattro (!) partite infila due gol a Castellazzi, come sempre molto sicuro e autoritario sulle uscite. Ma quello che preoccupa di più è la squalifica che andrà a prendersi Eto'o per una testata degna del miglior Zidane.

giovedì 18 novembre 2010

Siamo tutti Balotelli

C'era una volta la Nazionale, con la voglia di stare tutti uniti almeno in occasione delle partite dell'Italia. C'era una volta una squadra di tutti, un simbolo. Adesso, anche quando gioca l'Italia, si respira un clima insopportabile: dopo la partita maledetta di Genova, ecco il razzismo nelle sue varie forme. I buu e i cori contro Balotelli hanno accomunato gli ultrà azzurri e quelli romeni. E non capiremo mai in quale logica se non calandoci in tanta immensa e nera (questa sì) ignoranza. C'era una volta la nazionale, perché aspettavamo questa partita per riconciliarci col calcio dopo i fatti devastanti di Genova: la violenza e il delirio degli ultrà serbi, la partita sospesa, gli incidenti gravissimi dentro e fuori lo stadio. E invece non c'è stata alcuna riconciliazione, la partita rovinata da un razzismo becero e insopportabile. Forse qualcuno avrebbe dovuto intervenire, forse l'arbitro doveva essere sollecitato, forse i giocatori stessi avrebbero dovuto fermarsi, in ogni caso è assurdo e inconcepibile che questo accada. Questa storia va avanti da due anni e non ne siamo mai usciti, ce la portiamo appresso come una maledizione, un cancro del nostro sport.

Forse una cosa positiva alla fine di tutto questo c'è: speriamo che nessuno intervenga più nella polemica negando che questi non siano cori razzisti, ma solo contestazione verso un giocatore. Né più né meno fischi di disapprovazione per un gol sbagliato. Che la pelle insomma non c'entra. Invece c'entra, eccome. Ormai è dimostrato: il razzismo negli stadi cresce e si moltiplica. E' diventato quasi una moda, un rito assurdo, allucinante. Speriamo che almeno ci si renda finalmente conto del problema, che non lo si nasconda più, e che si cominci ad affrontarlo con tutte le armi possibili. Idea personale: che le squadre si fermino e che il pubblico venga richiamato, in questi casi è fondamentale.

Fin troppo bravo è stato Balotelli costretto a vivere con questa storia che lo insegue e non lo abbandona mai. Di città in città, di stadio in stadio: ogni volta che mette piede su un campo, o anche in un bar o una piazza (è capitato pure questo, purtroppo) il muro di fischi e buuh che lo rifiuta. Ha giocato la partita con grande freddezza, e persino con grande efficacia (è stato uno dei migliori in campo) senza farsi condizionare.

Ha provato anche a scappare in Inghilterra, ma ogni contatto con l'Italia a questo porta. Quello degli ultrà italiani che lo hanno contestato era un piccolo gruppo, qualche decina di esaltati che come prova di virilità, nel loro delirio, guardano queste partite al freddo a torso nudo: hanno pure fatto molti chilometri e sono arrivati fin qui a Klagenfurt in Austria per farsi notare. Per pubblicizzare il loro razzismo. Ma sono qualche decina di razzisti dietro cui si cela purtroppo una massa molto più grande. "No all'Italia multietnica" - lo striscione che gli ultrà Italia hanno esposto nel secondo tempo - è un concetto purtroppo condiviso da molti.

A tutti loro rispondiamo che "Siamo tutti Balotelli". E basta.

di Fabrizio Bocca; la Repubblica

lunedì 15 novembre 2010

INTER-Milan 0-1

Sarebbe stata una notiziona, l'anno scorso (e non solo), ma non lo è. Purtroppo.

giovedì 11 novembre 2010

Lecce-INTER 1-1

Ragazzi, se perdiamo il derby finiamo a meno 6 dal Milan. Dimostrate chi siete.
Siamo con voi.

martedì 9 novembre 2010

R. Baggio

Campione grande e atipico, difficile da collocare non solo in campo: Roberto Baggio è un "fuori taglia", un personaggio altro, talvolta altrove. E' diventato buddista in anticipo sulle mode, quando quel tipo di scelta non era ancora da copertina (l'attore famoso, il cantante in cerca di se stesso, qualche guru da asporto). Era, nel suo caso, la risposta a una ricerca di senso. A Baggio accadde dopo un infortunio molto grave, quando il dolore del corpo dice al fuoriclasse, al privilegiato, che anche i marziani possono atterrare in un istante sul pianeta di tutti, quello dove si soffre, si è soli, si viene sconfitti e la pelle è cucita dalle cicatrici.
Persona schiva, Roberto Baggio è scivolato via dal calcio dal giorno del suo ritiro fino a poche settimane fa, quando la Federcalcio gli ha offerto un incarico ufficiale nell'anno nero del nostro pallone: se non sarà solo un ruolo di facciata, è possibile che Baggio - dalle profondità del suo silenzio, che però non è vuoto - trovi qualche idea per rilanciare, magari, il talento così bistrattato rispetto a muscoli e palestre.
Simile a Francesco Totti per l'impegno umanitario e benefico, Baggio (come il capitano della Roma) preferisce fare il bene a fari spenti, e per questo la sua azione vale di più. Non sorprende, dunque, questo premio che i Nobel gli hanno assegnato, perché davvero Baggio ha presente che la sofferenza e la miseria altrui non sono concetti astratti. E se può, quando può, aiuta. Probabile che lo stia facendo anche adesso, nel suo Veneto martoriato dall'alluvione: ne ha sofferto Caldogno, il suo paese, il suo borgo vicentino dove sempre Baggio si è rifugiato in mezzo alle tante tempeste della carriera (il passaggio quasi blasfemo dalla Fiorentina alla Juventus, il rigore sbagliato a Pasadena, i rinnovi contrattuali complessi come incontri al vertice tra capi di stato), perché la dimensione domestica è quella che gli appartiene di più. Oppure, per contrasto, Baggio sceglie la fuga verso le praterie, o nella pampa argentina dove ama cacciare (nessuno è perfetto, neppure i buddisti) e dove il concetto di amore universale difficilmente si coniuga con il fragore della doppietta. Ma sono dettagli, è la semplice cornice di un quadro complesso, a tinte forti, anche se la leggerezza del suo modo artistico di vivere lo sport ha alleggerito i pesi, ha tolto spessore all'intricata complessità delle cose. Uno vero, comunque, Robibaggio. E raro.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

INTER-Brescia 1-1

Sempre peggio, nella sfiga e nel gioco.
...Ma soprattutto auguri Walter!!!

mercoledì 3 novembre 2010

Tottenham-INTER 1-3

Il finale di partita dell'andata si è protratto, con immenso dispiacere per i nostri.

lunedì 1 novembre 2010

Formula Fernando

Le mani di Fernando Alonso Dìaz sono ancora mani da ragazzo. Sottili, glabre, le vene azzurre si scorgono appena attraverso la pelle del dorso, le unghie sono curate, una fede d'argento è infilata all'anulare destro. Ai polsi non porta nulla. Le tiene appoggiate sui jeans chiari. Il resto sono scarpe da ginnastica, t-shirt nera e felpa grigia. Nelle mani c'è una parte del suo talento. "In gara con una mano in media cambio marcia settanta, settantacinque volte ogni giro. Schiaccio un pulsante sul volante, seguendo le indicazioni di una luce graduata sul computer. Nello stesso momento con l'altra mano modifico i parametri della macchina. Ne abbiamo quaranta, dalla mappatura del motore, al differenziale, dal freno motore alla miscela della benzina, dal sottosterzo al sovrasterzo. Mentre faccio queste operazioni penso a come affrontare la curva successiva, ascolto ciò che gli ingegneri mi dicono dai box, se piove e non vedo assolutamente nulla leggo il circuito che mi sono impresso nella memoria, calcolo mentalmente in quale punto di esso mi trovo in quel preciso secondo, cerco di scorgere chi mi precede e chi mi sta dietro".

Parla lentamente, con l'indulgenza dei giovani bene educati messi di fronte a uno sprovveduto. Lo ascolto, so che non riuscirò a riportare con fedeltà la tecnica che sta illustrando con tanta naturalezza, ma sarebbe così anche se avessi di fronte un ciabattino. Alonso sorride, di nascosto, e in quest'ombra si accomoda l'altra parte del talento, quella che sta nella sua testa, ed è la freddezza. Del campione, dell'uomo non so, anche se pare di vedere in lui il solco della solitudine, quella necessaria in un mondo in cui se sei solo non può accaderti nulla di male.

"Rimanere da solo mi piace molto, stare lontano dalla gente, dal rumore. Vivo a Ginevra. Mi alzo alle dieci o alle undici del mattino, una fortuna che condivido con pochi, forse con gli scrittori? Salgo sulla bici, una bicicletta da corsa, e sto in sella fino alle due del pomeriggio. Penso. Penso alle cose che devo fare, al prossimo gran premio, alle mie faccende private. Faccio calcoli, programmi... Alle tre e mezzo mangio, poi esco a fare la spesa, la sera guardo la tv, vado al cinema, qualche volta a teatro. Non ceno mai prima delle undici. Tutto qui".

Alla Ferrari per qualcuno Schumacher era il "monaco", c'è chi impiegò due anni per trovare il coraggio di rivolgergli la parola. Fernando era il "nemico", in due settimane li ha condotti tutti dalla sua parte. Da solo, senza portarsi neppure un suo ingegnere. "Non so a chi assomiglio, credo sia impossibile fare raffronti con i campioni del passato. Non ho studiato nessuno, mi sono costruito da solo il mio stile di guida. Quando avevo otto anni c'era Senna, ma in Spagna la Formula Uno allora aveva poco appeal e scarso spazio televisivo. Ecco, Ayrton lo ricordo in tivù. Lo ammiravo soprattutto perché mi piacciono quelli che vincono. Sul lavoro sono un perfezionista, non mi risparmio, sono molto concentrato sui dettagli. Qualcuno può definirmi per questa ragione un rompicoglioni. Non mi offendo".

Nella Formula Uno dicono che ci sono uomini che si riconoscono da come consumano le gomme nelle curve. Alonso vi arriva dritto, punta la curva con il muso della macchina, poi gira di colpo. Niente di morbido, le gomme lui le scava. È uno che può permettersi di non essere ipocrita, a costo di apparire feroce. In dio non crede: "È stata una mia scelta". Si fida poco anche degli uomini: "Sono timido, chiuso, se mi chiedi il numero di cellulare non te lo do, è un modo per proteggermi". Non ha mai votato: "Mi manca il tempo di seguire la politica". E non ha paura della morte. "Non penso di fare un mestiere pericoloso, mi dico: Fernando, stai sereno, non succederà mai niente di brutto. E se dovesse accadere non potrei cambiare il corso del destino nell'ultimo secondo riservato alla mia esistenza".

È venerdì mattina, lo chiama Montezemolo. Vuole semplicemente sapere se è in forma. Gli dice che la Ferrari vuole vincere il mondiale, è naturale. Mancano due gare, Brasile e Abu Dhabi. Alonso gli risponde che può essere come no, quasi lo tranquillizza. È venuto a Oviedo per riposarsi. Questa è la sua terra, la sua famiglia, l'infanzia, l'adolescenza. Qui c'è la verità. C'è Fernando e basta. Martedì prenderà un aereo per il Sudamerica e allora tornerà a essere Alonso. "Posso vincere. Posso perdere. Tutto in poche ore, in pochi minuti, in un attimo. È la quarta volta in sei anni che mi trovo in una situazione del genere, in due occasioni mi è andata bene e sono diventato campione del mondo. Lo stress è sempre lo stesso, ci sono abituato".

Nelle Asturie, terra di montagne, foreste e mare in uno spazio di sessanta chilometri, in questa stagione la mattina è buio fino alle nove. "Sono entrato sempre a scuola di notte". Il ristorante Tierra Astur è di legno e vetro, gli passi davanti e vedi chi c'è seduto ai tavoli. Dentro incontri soprattutto ragazzi, i camerieri alzano a tutto braccio la bottiglia di sidro sulla testa per versarlo nel bicchiere che tengono con l'altra mano all'altezza del ginocchio. Un po' di sidro cade sempre sul pavimento, rendendolo molto scivoloso. È uno dei locali preferiti da Fernando. Ogni tanto ci viene per sfidare la fabada, fagioli bianchi, coda, orecchie e stinco di maiale, sanguinacci, un osso di jamon serrano, lardo, cipolle, due denti d'aglio e altri ingredienti infuocati. "Ma i miei piatti preferiti sono la pizza, la paella e le tortillas. Sono fiero di essere asturiano, credo sia la sola terra della Spagna che non è mai stata conquistata, anche se venne saccheggiata da Napoleone e assediata durante la guerra civile. Ovunque siano nel mondo, gli asturiani portano la bandiera piegata nella valigia, la croce gialla in campo blu. Io ce l'ho disegnata sul casco".

La sua famiglia da qualche anno abita fuori città. Il padre Josè Luis fabbricava esplosivi per le miniere, la madre Ana lavorava in un centro commerciale, la sorella Lorena, che ha trentaquattro anni, cinque più di Fernando, è medico. La casa dei ricordi, però, stava in centro, in via Capitan Almeida, quella la strada, ora è diventata via Fernando Alonso. "In quell'appartamento ho trascorso vent'anni della mia vita, ho nella testa ogni sua mattonella, la mia camera, il tavolo sul quale allineavo le macchinine rosse, il corridoio dove correvo stringendo un volante tra le dita e mimavo il rumore del motore con la bocca. Ricordo le passeggiate con mia nonna, Luisa, le sue parole rassicuranti quando mi lasciava davanti al portone della scuola. Non ero un bambino di grandi sogni. Se giocavo a pallone m'interessava vincere, se ingaggiavo una corsa in bici con i compagni di classe il mio solo desiderio era di arrivare primo. Sono diventato pilota non perché lo ha scelto papà o la vita, ma perché lo ha deciso il risultato".

Un giorno suonerà la campana della fine. "Lo so, ho fatto la mia prima gara a tre anni. Ne ho ventinove, potrei arrivare, che so, a trentasei o trentasette, come potrei smettere prima. Quando scenderò dalla macchina scenderò anche dalla Formula Uno. A me piace guidare, vorrei organizzare un'academy, insegnare il mestiere. Ci saranno nuove esperienze da affrontare. Invecchierò e non sarà facile affrontare questa realtà. Sono stato sempre il più giovane in tutte le categorie, non lo sarò più. Arriveranno altre sfide. I figli, la famiglia, credo succederà presto. Un posto dove stare e costruire finalmente qualcosa lì. Mi piacerebbe Tokyo, ma è soltanto una suggestione. Oggi non riesco a immaginare un'altra vita per me. Sono stato trattato molto bene dal destino fin qui". La moglie di Alonso è una cantante pop, Raquel Del Rosario. Il suo gruppo si chiama Il sogno di Morfeo. Si sono conosciuti durante un'intervista radiofonica fatta a Fernando in un palazzetto dello sport di Madrid. C'erano oltre quindicimila persone, Raquel si esibiva nelle pause, appena prima della pubblicità. Sono diventati anche loro uno spot. Lui dice di credere in un amore che si potrebbe definire variabile: "L'intensità del sentimento non è sempre la stessa. Servono pazienza e tranquillità. Spesso ci confondiamo, diamo il nome dell'amore a qualcosa che con l'amore non ha nulla a che vedere. Non importa quale sia la vita che facciamo, se siamo piloti, maghi della finanza, impiegati, operai. Molti tengono il cuore coperto".

Fernando Alonso è un uomo che guadagna forse trenta milioni di euro a stagione. Almeno quindici glieli dà la Ferrari. "È tutto in banca, non compro case, non seguo nulla. Se ne occupa soprattutto mio padre". Trascorre centocinquanta giorni l'anno tra pista, motorhome, box e Maranello. Nel 2010 ha già percorso 8752 chilometri, di cui quasi 5123 in gara, 665 al comando. Come i cowboy ha sempre nelle tasche un mazzo di carte con le quali si esibisce in giochi di prestigio. È superstizioso, attento soprattutto ai numeri: "Considero il 14 il mio portafortuna perché il 14 luglio 1996 vinsi il campionato del mondo di kart e avevo 14 anni. Temo il 13, il 17 e altri che preferisco non nominare". Sceglie le camere d'albergo a seconda del numero, a volte gli capita la peggiore e il suo manager si accomoda in quella in un primo tempo destinata a lui. È stato tradito, deluso, non ha dimenticato e non ha mai cercato vendette. Ha pochi amici veri, non nel suo ambiente. "In Formula Uno non esiste l'amicizia, esistono soltanto buoni rapporti. Gli amici sono quelli che avevo qui, a Oviedo. Loro sono rimasti fedeli a un patto lontano, nonostante il tempo e le distanze. C'è Alberto che è diventato maestro di sci. C'è Manuel, detto Kama perché era un fan di Camacho, che ora monta ascensori. Infine c'è Pedro, che costruisce infissi per le case".

Vorrebbe andare con loro a vedere il Real Madrid, in incognito, per evitare l'assedio dei fan. Assieme alla Nazionale è diventato il simbolo della Spagna. A Oviedo nelle vetrine delle librerie ci sono soltanto la biografia di Letizia Ortiz, altro orgoglio delle Asturie, e di Felipe di Borbone, "i principi che si preparano a regnare", i volumi su Wojtyla e Benedetto XVI, le guide sui funghi della regione e libri fotografici su Alonso. Nelle stanze d'albergo i clienti trovano accanto alla Bibbia una rivista patinata con Fernando in copertina, il "cavaliere" che vuole il suo terzo titolo. Gli domando se lo inseguirà con la testa o con le mani. Dice che non può rispondere: "Non so se sono intelligente. So qual è il mio istinto. Lo ascolterò".

di Dario Cresto-Dina; la Repubblica

martedì 26 ottobre 2010

Ballon d'Or

Ecco i 23 candidati del 2010:
Xabi Alonso (Spagna);
Daniel Alves (Brasile);
Iker Casillas (Spagna);
Cristiano Ronaldo (Portogallo);
Didier Drogba (Costa d'Avorio);
Samuel Eto'o (Camerun);
Cesc Fabregas (Spagna);
Diego Forlán (Uruguay);
Asamoah Gyan (Ghana);
Andrés Iniesta (Spagna);
Júlio César (Brasile);
Miroslav Klose (Germania);
Philipp Lahm (Germania);
Maicon (Brasile);
Lionel Messi (Argentina);
Thomas Müller (Germania);
Mesut Özil (Germania);
Carles Puyol (Spagna);
Arjen Robben (Olanda);
Bastian Schweinsteiger (Germania);
Wesley Sneijder (Olanda);
David Villa (Spagna);
Xavi (Spagna).

Il grande assente? Un tale Diego Alberto Milito, un giocatore da podio.
Speriamo che a Sneijder sia permesso di ritirare il premio, così da rendere ancora più storica la scorsa annata, e da tentare si risalcire il Principe.

Come avete visto mi sono astenuto dall'insultare chi ha contribuito a stilare questo ridicolo elenco.

10-0

Il famoso "tanto a poco". Un dieci a zero è difficile da sopportare comunque lo si veda. Infastidisce chi vince, perché esce imbarazzato, come se avesse inveito sul corpo di un avversario già abbondantemente sovrastato, probabilmente già arreso. Sconvolge chi perde perché l'antica immagine del pallottoliere funziona ancora benissimo nonostante le trasformazioni del linguaggio metaforico dello sport. Palla al centro per dieci volte nel giro di novanta minuti. Più di un gol ogni dieci minuti. Se poi a prenderle è una squadra blasonata, che ha pure vinto tanto in tempi che adesso non appaiono soltanto lontani ma addirittura fiabeschi, c'è da chiedersi perché, da dove venga il tracollo emotivo, sociale, esistenziale che ha costretto il Feyenoord, la prima squadra, prima addirittura dell'Ajax, a disseminare per il mondo i semi del calcio totale, a perdere non tanto una partita quanto la dignità davanti a una sua simile, il PSV (è come se Manchester United-Chelsea finisse 10-0). Il Feyenoord, proprio il Feyenoord, la prima ad alimentare pubblicamente il sospetto che quell'Olanda, l'Olanda di fine anni Sessanta, fosse un paese molto più ricco e complesso, molto diverso dalle viete esemplificazioni (noi pizza e mandolino, loro mulini a vento e tulipani).

Dunque vediamo: il PSV batte il Feyenoord 10-0. Che fosse la partita del dieci lo si capisce al 34' del primo tempo quando gli ospiti, appena sotto di un gol, restano con un uomo in meno per le espulsione di Leerdam, che colleziona due cartellini gialli in poco più di cinque minuti (cinque è il doppio di dieci). Reis aveva segnato poco prima per gli illuminati uomini della Philips (il PSV Eindhoven è praticamente un filo di tungsteno calcistico dell'azienda). Il secondo tempo comincia sul 3-0: si può temere il rovescio perché il team dei ricordi allenato da Mario Been (uno dei tanti piccoli stranieri scovati da Anconetani per il suo Pisa) non corre più. Ma il rovescio e l'umiliazione, fra le gambe molli e l'impotenza autolesionista pare ci sia ancora una differenza. Al 24' il risultato è 8-0. Sugli spalti non sanno se ridere o andarsene, vincitori compresi: "Mi vergogno come un ladro - dirà Been - se volete me ne vado". Non è questione di tecnico. E' una specie di vortice che risucchia l'intera storia di un club. Il calcio è pieno di partite finite "tanto a poco".

Negli almanacchi Panini, fra le grate che riassumevano genialmente tutti i risultati delle varie stagioni del campionato italiano a girone unico, entrava a malapena il 10-0 inflitto dal Grande Torino all'Alessandria. Erano gli anni in cui i granata segnavano 125 gol a campionato. Noi ragazzini eravamo quasi impauriti a guardare. C'è un celebre 7-1 che sempre il Toro rifilò alla Roma allo Stadio Nazionale (poi proprio Stadio Torino, quindi Flaminio): ma i giallorossi avevano chiuso il primo tempo in vantaggio. Il Milan travolse un giorno l'Atalanta (9-3). Era il 1973. Un anno dopo la Jugoslavia fece 9-0 con lo Zaire ai mondiali tedeschi. Ci si chiede sempre se abbiapiù senso insistere o smettere, una volta superato un certo numero di reti di vantaggio. Ancora la Roma, quella di Spalletti, quando vinse 7-0 col Catania di Marino, venne accusata di ferocia e il Catania, con in testa Mascara (quel giorno espulso), se la legò al dito al punto di annunciare: "Ci vediamo al ritorno". Ci furono incidenti. Ma ci pensò il Manchester United a vendicare i siciliani: 7-1 in Champions League in una serata che difficilmentte sarà dimenticata dal popolo giallorosso. Altri casi su cui discutere. Inzaghi, un giorno, col Torino sdraiato (5-0), esultò al 6-0 come se avesse vinto un mondiale da solo. Corsa dei calciatori granata verso Pippo: le intenzioni erano palesi. Nessun problema ebbero gli australiani quando, in un match di qualificazione mondiale, ebbero il coraggio di battere le Isole Samoa per 31-0, stabilendo un record paradossale col quale finisce il divertimento: il calcio che diventa basket, ma soltanto per una delle sue squadre. Romario disse: "Lo spirito dello sport non prevede compassione. La compassione è una mancanza di rispetto per l'avversario". Poi aggiunse, coltamente: "E' come se un pittore avesse a cuore soltanto uno dei personaggi o degli oggetti del suo quadro, dipingendo gli altri con la mano sinistra: ne verrebbe fuori un orrore". Che poi è una traduzione libera della cavalleria all'inglese: io ti voglio bene, per questo ti uccido. Animato da un profondo senso di rispetto, lo scorso anno il Tottenham riuscì a battere 9-0 il Wigan senza code psichiatriche.

La coda, semmai, è quella fra le gambe dei giocatori del Feyenoord, la squadra che 40 anni fa, guidata dall'austriaco Ernst Happel, vinse la Coppa dei Campioni battendo a San Siro il Celtic con lo svedese Ove Kindvall al centro dell'attacco e con l'alter ego di Cruyff a centrocampo, Van Hanegem (arbitrò Lo Bello). Il Feyenoord è in crisi culturale (un mix di disastri tecnici ed economici da anni). Dalla sua scuola in disarmo sono usciti, fra gli ultimi, Dirk Kuyt e Robin Van Persie. Prima di loro Roy Makaay e Tomasson. Qui hanno giocato negli ultimi anni, sperando più di quanto forse fosse lecito, Julio Cruz, il Boateng del City e un giovanissimo Salomon Kalou (ora riserva di lusso al Chelsea). Ora la leggenda rantola con soli otto punti al terz'ultimo posto in classifica e con una macchia indelebile sulla sua fedina agonista. La vita è breve ma certe partite sono lunghissime.

di Enrico Sisti; la Repubblica