martedì 23 novembre 2010

Pelo

Più Pelo per tutti! Con questo allegro slogan la curva del Chievo ha accolto il ritorno in campo del suo capitano, Pellissier Sergio da Aosta, 10 anni e 87 reti con la stessa maglia, in B come in Europa, finché pensionamento non li separi. Ha 31 anni, ma è molto più giovane di quando ha cominciato a giocare su questo campo defilato, senza immaginare che si sarebbe preso la luce dei riflettori, la fascia da capitano, una maglia (proprio una) della nazionale e che una domenica di novembre avrebbe, tornando da un infortunio, affondato l'Inter, segnando come Eto'o, ma uscendo, lui, a testa alta, con l'inedita umiltà dei vincitori.
È un animale in via d'estinzione, Pelo: incarna la specie a rischio degli attaccanti di provincia. Discende dai Maraschi di Vicenza, dagli Hubner di Cesena. Condivide un testardo presente con Di Natale a Udine. Non prevede eredi, ha una figlia femmina di nome Sofia che veste di gialloblu e mostra al popolo adorante come una principessa ignara. Dopo di lui, il diluvio, ma intanto piovono gol.
Pelo è un uomo di montagna, ruvidamente avvolto nel silenzio, aggrappato a un tronco di semplicità. Cominciò al Torino dove, ma che sorpresa, non lo capirono. Lo prese il Chievo, quando ancora uno si chiedeva che autostrada prendere per arrivarci. Lo diede in prestito alla Spal. Andava a mangiare in un ristorante convenzionato. S'innamorò di una ragazza che ci lavorava. Una storia d'amore e buoni pasto. Poiché le parole definitive gli inciampavano in gola si dichiarò per e-mail. Andarono in luna di miele a New York, poi si stabilirono nel libero stato di Chievo, repubblica federalista di Verona. Lì, partiti Marazzina e Corradi, è diventato il faro dell'attacco, il capitano, il sindaco (volendo). Riverito, ma non controllato. Amato, ma non asfissiato.
È il miglior cannoniere della storia della squadra. Punta ai 100 gol prima di lasciare e il suo sito si apre coniugando all'infinito molti verbi (correre, sudare, lottare), ma non quello. Se prendete un qualunque goleador da copertina e lo fotocopiate in bianco e nero viene fuori Pelo. Non passa le serate all'Hollywood ma a casa con la moglie, giocando insieme alla playstation o guardando lo snooker in tv. Al polso ha uno Swatch.
Dice cose come: "La passione è quella cosa che ti fa guardare le caviglie gonfie e sorridere", "Se segno sono felice", "Chievo è il mio paradiso". Per due volte è stato vicino all'ascensore che l'avrebbe portato ancora più su. Due anni fa lo voleva il Napoli e lui era pronto. Ci è rimasto male quando ha capito che offrivano troppo poco, ma l'ha presa come una lezione. Quando l'estate scorsa è arrivata la chiamata della Fiorentina, con ingaggio raddoppiato, è stato lui a riappendere. Meglio un posto sicuro in prima squadra. Meglio giocare. E meglio ancora dire: "Io lo so come vive la gente e se penso che guadagno già venti, trenta volte più di uno che ha studiato, perché dovrei volere di più?".
Ha avuto perfino la nazionale, anche se è stata la storia di una notte. L'ha raccontata presentando il libro di Gigi Cavone e Francesco Facchini "Romanzo mondiale" di cui ha scritto la prefazione. Coverciano, nel suo ricordo, sembra un posto sospeso tra Disneyland e la Città del Sole. La porta dell'albergo che si chiude alle sue spalle mentre con la sacca dal bordo tricolore si avvia al campo è una porta che si apre. Nel prepartita, accarezzato dai cori che inneggiano all'Italia, scambia due chiacchiere con l'unico con cui ha già giocato: Matteo Brighi. Ha l'estrema dignità di ammettere: "Ero lì come sostituto di un sostituto". Si era fatto male Floccari. La prima volta va bene così. La seconda, considera, meglio andarci perché sei una vera scelta, sennò tanto vale restare a casa con la famiglia. Poi entrò pure in campo e segnò un gol: il terzo, il più bello. Non fu "l'inizio di una bella amicizia", fu la fine di tutto. Ai Mondiali non ci è mai arrivato. Non si è perso molto: poteva partecipare alle nomination del Sestriere, o andare in Sudafrica e fare Quagliarella, segnare fuori tempo massimo. Di sicuro non avrebbe pianto. Ha il senso del pudore, delle proporzioni e della realtà.
Sentendo parlare di Argentina '78 (aveva sei anni), del trofeo propaganda, del capitano Carrascosa che si chiamò fuori per protesta, delle torture a pochi passi dallo stadio, ha domandato, più sensato che ingenuo: "È tutto vero, sì? Ma perché nessun giornalista ne parlò allora?". Perché spesso i giornalisti sono difensori con pessima scelta di tempo. Entrano in scivolata quando già la palla è lontana, l'attaccante è scappato via. S'annoiano del mondo, mai di se stessi. Il Chievo? Uh, una vecchia favola moralista. E intanto ti sfugge il Pelo, un pelo d'etica nell'uovo marcio.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

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