Il famoso "tanto a poco". Un dieci a zero è difficile da sopportare comunque lo si veda. Infastidisce chi vince, perché esce imbarazzato, come se avesse inveito sul corpo di un avversario già abbondantemente sovrastato, probabilmente già arreso. Sconvolge chi perde perché l'antica immagine del pallottoliere funziona ancora benissimo nonostante le trasformazioni del linguaggio metaforico dello sport. Palla al centro per dieci volte nel giro di novanta minuti. Più di un gol ogni dieci minuti. Se poi a prenderle è una squadra blasonata, che ha pure vinto tanto in tempi che adesso non appaiono soltanto lontani ma addirittura fiabeschi, c'è da chiedersi perché, da dove venga il tracollo emotivo, sociale, esistenziale che ha costretto il Feyenoord, la prima squadra, prima addirittura dell'Ajax, a disseminare per il mondo i semi del calcio totale, a perdere non tanto una partita quanto la dignità davanti a una sua simile, il PSV (è come se Manchester United-Chelsea finisse 10-0). Il Feyenoord, proprio il Feyenoord, la prima ad alimentare pubblicamente il sospetto che quell'Olanda, l'Olanda di fine anni Sessanta, fosse un paese molto più ricco e complesso, molto diverso dalle viete esemplificazioni (noi pizza e mandolino, loro mulini a vento e tulipani).
Dunque vediamo: il PSV batte il Feyenoord 10-0. Che fosse la partita del dieci lo si capisce al 34' del primo tempo quando gli ospiti, appena sotto di un gol, restano con un uomo in meno per le espulsione di Leerdam, che colleziona due cartellini gialli in poco più di cinque minuti (cinque è il doppio di dieci). Reis aveva segnato poco prima per gli illuminati uomini della Philips (il PSV Eindhoven è praticamente un filo di tungsteno calcistico dell'azienda). Il secondo tempo comincia sul 3-0: si può temere il rovescio perché il team dei ricordi allenato da Mario Been (uno dei tanti piccoli stranieri scovati da Anconetani per il suo Pisa) non corre più. Ma il rovescio e l'umiliazione, fra le gambe molli e l'impotenza autolesionista pare ci sia ancora una differenza. Al 24' il risultato è 8-0. Sugli spalti non sanno se ridere o andarsene, vincitori compresi: "Mi vergogno come un ladro - dirà Been - se volete me ne vado". Non è questione di tecnico. E' una specie di vortice che risucchia l'intera storia di un club. Il calcio è pieno di partite finite "tanto a poco".
Negli almanacchi Panini, fra le grate che riassumevano genialmente tutti i risultati delle varie stagioni del campionato italiano a girone unico, entrava a malapena il 10-0 inflitto dal Grande Torino all'Alessandria. Erano gli anni in cui i granata segnavano 125 gol a campionato. Noi ragazzini eravamo quasi impauriti a guardare. C'è un celebre 7-1 che sempre il Toro rifilò alla Roma allo Stadio Nazionale (poi proprio Stadio Torino, quindi Flaminio): ma i giallorossi avevano chiuso il primo tempo in vantaggio. Il Milan travolse un giorno l'Atalanta (9-3). Era il 1973. Un anno dopo la Jugoslavia fece 9-0 con lo Zaire ai mondiali tedeschi. Ci si chiede sempre se abbiapiù senso insistere o smettere, una volta superato un certo numero di reti di vantaggio. Ancora la Roma, quella di Spalletti, quando vinse 7-0 col Catania di Marino, venne accusata di ferocia e il Catania, con in testa Mascara (quel giorno espulso), se la legò al dito al punto di annunciare: "Ci vediamo al ritorno". Ci furono incidenti. Ma ci pensò il Manchester United a vendicare i siciliani: 7-1 in Champions League in una serata che difficilmentte sarà dimenticata dal popolo giallorosso. Altri casi su cui discutere. Inzaghi, un giorno, col Torino sdraiato (5-0), esultò al 6-0 come se avesse vinto un mondiale da solo. Corsa dei calciatori granata verso Pippo: le intenzioni erano palesi. Nessun problema ebbero gli australiani quando, in un match di qualificazione mondiale, ebbero il coraggio di battere le Isole Samoa per 31-0, stabilendo un record paradossale col quale finisce il divertimento: il calcio che diventa basket, ma soltanto per una delle sue squadre. Romario disse: "Lo spirito dello sport non prevede compassione. La compassione è una mancanza di rispetto per l'avversario". Poi aggiunse, coltamente: "E' come se un pittore avesse a cuore soltanto uno dei personaggi o degli oggetti del suo quadro, dipingendo gli altri con la mano sinistra: ne verrebbe fuori un orrore". Che poi è una traduzione libera della cavalleria all'inglese: io ti voglio bene, per questo ti uccido. Animato da un profondo senso di rispetto, lo scorso anno il Tottenham riuscì a battere 9-0 il Wigan senza code psichiatriche.
La coda, semmai, è quella fra le gambe dei giocatori del Feyenoord, la squadra che 40 anni fa, guidata dall'austriaco Ernst Happel, vinse la Coppa dei Campioni battendo a San Siro il Celtic con lo svedese Ove Kindvall al centro dell'attacco e con l'alter ego di Cruyff a centrocampo, Van Hanegem (arbitrò Lo Bello). Il Feyenoord è in crisi culturale (un mix di disastri tecnici ed economici da anni). Dalla sua scuola in disarmo sono usciti, fra gli ultimi, Dirk Kuyt e Robin Van Persie. Prima di loro Roy Makaay e Tomasson. Qui hanno giocato negli ultimi anni, sperando più di quanto forse fosse lecito, Julio Cruz, il Boateng del City e un giovanissimo Salomon Kalou (ora riserva di lusso al Chelsea). Ora la leggenda rantola con soli otto punti al terz'ultimo posto in classifica e con una macchia indelebile sulla sua fedina agonista. La vita è breve ma certe partite sono lunghissime.
di Enrico Sisti; la Repubblica
Nessun commento:
Posta un commento