Milos Krasic è un ragazzo serio e serbo. Riaccostati questi due aggettivi messi in contrasto dallo sventato gioco di parole di un giornalista Mediaset, resta il fatto che il bravo ragazzo è uomo della domenica per un tuffo altrettanto sventato da cui si rialza con la forza della resipiscenza, scontando un anticipo di pena che si autoinfligge. Così facendo ci induce a sospettare che anche i calciatori abbiano una coscienza.
Milos Krasic va giù al 34' del primo tempo nell'area di rigore del Bologna. Nei minuti precedenti non è stato all'altezza della sua recente fama: ha vagato sulla fascia anziché terremotarla come fa di solito. Infine ingrana e si lancia verso il fondo, da cui può inventare qualsiasi cosa. Infatti è proprio quel che succede. Portanova gli va incontro, ma non addosso. Eppure cade, Milos. Vola, subisce, invoca. E l'arbitro dà rigore. Un rigore inesistente fischiato a favore della Juventus non è un evento qualsiasi, è una categoria dello spirito, una forma di sofferenza acuta e condivisa da chiunque juventino non sia. È il broglio elettorale del partito di maggioranza: non occorre, ma infierisce.
È un trauma che ne riporta alla luce altri, sepolti sotto la rimozione e l'oblìo. Sulla panchina rossoblu Malesani rivive come dall'analista il gol annullato a Cannavaro con il Parma che decretò il declino della sua carriera. E lo stadio? Ci sarebbe voluto Edmondo Berselli per descrivere il Dall'Ara perso a sfogliare un album Panini di figurine dell'ingiustizia, da Trezeguet fino a, per chi ne ha memoria, Cinesinho. Avrebbe scritto, parafrasando al contrario la descrizione dell'autogol di Niccolai, che quel rigore inesistente "è la realizzazione di un avvenimento lungamente esorcizzato attraverso un'esperienza arcana, il solidificarsi delle paure collettive, l'inaccettabile che si compie come una profezia sciagurata in questa valle di lacrime, con un sospiro rassegnato della Storia ineluttabilmente realizzata".
Iaquinta invece non realizza, Viviano para, Malesani comincia a credere in Dio o, almeno, nello spirito di Giacomo Bulgarelli e tutto riprende come prima, con un'eccezione: Milos Krasic. Scompare dal campo molto prima che Delneri, con una mossa senza precedenti, lo sostituisca al 18' della ripresa. Che gli è successo? Lo paralizza il senso di colpa? Possibile? Thierry Henry, dopo il fallo di mano che ha negato la qualificazione per il Sudafrica all'Eire, è di fatto svanito tra un mondiale vergognoso e l'esilio a New York. La pena di Krasic è proporzionata alla minor gravità del reato, ma dimostra che il ragazzo è davvero serio: non potendo autodenunciarsi si è autopunito.
Milos è una specie di alieno per destino. Nato a Kosovska Mitrovica, viene sospinto dal padre a giocare altrove, dove la vita quotidiana non contempli pane e rischio. Quattordicenne, finisce a Novi Sad, in una specie di collegio per calciatori della Vojvodina. Qui conosce la ragazza con cui si fidanzerà e Milan Jovanovic, che gli farà da fratello maggiore. Ha raccontato in una bella intervista a Tuttosport che un giorno di bombardamenti, mentre gli altri erano scappati nei rifugi, lui era rimasto nella stanza, a guardare gli aggiornamenti in tempo reale alla tv. Poi si è accorto di non essere solo: alle sue spalle c'era un biondino, il più piccolo del gruppo: Krasic. Come molti della loro generazione confondevano realtà e rappresentazione, guardavano sullo schermo quel che era visibile alla finestra e accettavano una sfida in cui avevano nulla da guadagnare. Jovanovic gli dà un solo consiglio: non ascoltare l'allenatore. Lui lo mette in pratica con chiunque, da ultimo con Delneri che si sgola per ricordargli l'esistenza della fase difensiva. Invano. Milos parla soltanto la propria lingua perduta. È stato solo per anni a Mosca, è solo a Torino. In campo è una monade che non si cura dell'armonia prestabilita: avanza perché gli piace, salta l'avversario perché sa farlo. Nell'unica vittoria ai mondiali, incredibilmente contro la Germania, fece perdere il posto in squadra al terzino Badstuber, superandolo dodici volte.
Voleva andarsene dalla Russia, sognava l'Italia. Al compleanno gli regalarono una torta rossonera. Quando è arrivato alla Juventus ha comunque detto: "It's my dream". Poi ha taciuto, corso e segnato. I tifosi lo chiamano Red Bull perché mette le ali, ne hanno fatto un simbolo di riscossa, lo proteggono da ogni critica, reale o immaginaria. Nella blogosfera è stata richiesta la denuncia di un giornalista della Gazzetta che lo ha definito "veloce sulla fascia, ma non nella saletta antidoping". La società lo ha messo in una teca. Strepitosa la giustificazione di Delneri per quel tuffo dove l'erba è più verde: "Non ha simulato, ha immaginato". Questo è un Paese cattolico, mister, almeno la domenica: si pecca anche con il pensiero. Per sua fortuna Krasic non capisce ancora quel che dicono nei dopopartita, non lo feriscono né l'attacco alla logica né quello alle sue origini. S'indigna per procura il suo agente. Lui aspetta solo di tornare a correre, immaginando sul serio di non cadere più.
di Gabriele Romagnoli; la Repubblica
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