Perché uno come Rino Gattuso, campione del mondo e vicecapitano del Milan, ha festeggiato lo scudetto trascinando i propri tifosi a intonare il coro «Leonardo uomo di m...»? Si fosse limitato a un saltello sfottente, non avrei mai scritto questo articolo: la pernacchia al rivale sconfitto fa parte del rito. Ma nell’insulto all’allenatore dell’Inter nemmeno un entomologo delle emozioni riuscirebbe a trovare tracce di ironia. Capisco l’antipatia di Gattuso per il suo ex capufficio, che quando allenava il Milan non lo prendeva in considerazione. Capisco meno la ragione per cui molti di noi, non solo Gattuso, abbiano bisogno di vomitare un’infamia per dare ali alla gioia. Cioè, la capisco benissimo. Siamo intrisi di rancore accumulato e inespresso. Verso i politici, i superiori, i colleghi, i congiunti. Una rabbia impotente, tipica di un’epoca di transizione che non offre risposte chiare alle angosce. Serve un capro espiatorio a portata di mano: la persona da cui si ritiene di aver subito un torto. E serve un momento di felicità per liberare senza sensi di colpa la poltiglia dei brutti pensieri. Dopo lo sfogo non ci si sente migliori né appagati. Solo più vuoti.
Vi auguro di festeggiare i vostri trionfi non come Gattuso ma come Leo Messi, che quando fa gol non porta le mani alle orecchie e non tira calci alle bandierine del corner. Cerca il compagno che gli ha passato il pallone e lo ringrazia con un abbraccio. Per ricordare persino a se stesso, il più forte di tutti, che il calcio - come la vita - è un gioco di squadra.
Vi auguro di festeggiare i vostri trionfi non come Gattuso ma come Leo Messi, che quando fa gol non porta le mani alle orecchie e non tira calci alle bandierine del corner. Cerca il compagno che gli ha passato il pallone e lo ringrazia con un abbraccio. Per ricordare persino a se stesso, il più forte di tutti, che il calcio - come la vita - è un gioco di squadra.
di Massimo Gramellini; LA STAMPA
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