lunedì 30 maggio 2011

Povero Toro

Una vita in fuga. Urbano Cairo non è Alberto Contador però il suo destino ormai lo accomuna al ciclista spagnolo: pure lui deve sfuggire sempre al gruppo degli inseguitori che nel suo caso non si limiterebbero a batterlo sul traguardo ma a batterlo con quanto hanno per le mani e basta. Sarebbe successo anche ieri se il fiuto dell’uomo prudente e braccato non avesse spinto il presidente granata a lasciare lo stadio sotto scorta prima che si ufficializzasse la condanna del Toro alla terza stagione consecutiva in serie B, come successe solo nella seconda metà degli anni 90. Sconfitti dal Padova i granata hanno centrato il capolavoro di finire ottavi e hanno fallito i playoff che ritenevamo alla loro portata più dell’anno scorso, vista la compagnia.

Come ha detto Rolando Bianchi, «è un fallimento completo». Almeno c’è chi chiama ancora le cose con il proprio nome. Ognuno ha portato il proprio mattoncino alla causa. Lerda era arrivato con tante speranze perché aveva fatto un buon lavoro a Crotone e perché aveva il «pedigree» granata, ammesso che l’essere cresciuti nel Toro di una volta abbia ancora un valore per il Toro di oggi. Ebbene Lerda è indifendibile come lo sono i giocatori. Modesti di piede, impreparati a ragionare tatticamente, poveri di spirito perché neppure ieri, in una finale da vincere a tutti i costi, hanno messo in campo il carattere, pronti a sbracare nelle difficoltà. Ma il pesce puzza dalla testa e la testa nel Toro è Urbano Cairo. Se usasse nel calcio metà del fiuto che ha dimostrato nell’inventarsi riviste di successo, sarebbe il miglior presidente della storia dopo Ferruccio Novo e Orfeo Pianelli. Ma come si dice a Milano, dove Cairo lavora, «Offelè fà el to’ mestè», ed evidentemente il suo mestiere non è il football.

Da quando arrivò nell’estate del 2005 il suo è stato un fare e disfare, all’inizio seguito con la simpatia che suscitano i neofiti, poi con l’irritazione che accompagna la pervicacia nelle scelte sbagliate. A mettere insieme i direttori sportivi, gli allenatori e i giocatori che ha accumulato in sei stagioni ne esce una Garzantina. Tanto sbattersi per affossarsi a questo punto. La sua fuga stavolta ci sembra al capolinea. Cairo non ha più credibilità nel mondo granata, temiamo non abbia neppure la voglia di mettere i soldi necessari ad attrezzarsi per il prossimo campionato, di cui Bari, Samp e Brescia alzeranno il livello quest’anno modestissimo. Levarsi dalla B sarà più difficile per un club in cui ogni atto del presidente sarà immediatamente accolto con sfavore. Sarebbe più semplice levarsi e basta, cercare un compratore, anziché scoraggiare chi avesse una mezza idea di entrare nel Toro. Cairo disse che avrebbe venduto ma resta lì, cercando nel passato una via di uscita, magari riaffidandosi a un altro allenatore, Colantuono, che aveva preso, cacciato, ripreso e riperso. La sua specialità. Senza futuro.

di Marco Ansaldo, LA STAMPA

Non c'è trippa per gatti

Contador troppo grande o gli altri troppo piccoli? La prima risposta è semplice. Lo spagnolo merita un 10 tondo in pagella. Grande. Ha salutato la compagnia appena la strada del Giro ha cominciato a salire (Etna): ci vediamo a Milano. Ha vinto le ultime sei grandi corse a tappe alle quali ha partecipato, tre Tour, due Giri, una Vuelta, ma forse stavolta è stato il migliore Contador di sempre. Potrebbe diventare il Numero Uno del ciclismo moderno dopo Eddy Merckx, visto che Armstrong sconta il peccato originale di una carriera avara limitata alle strade di Francia. Non si può nemmeno dire che l’abbia favorito il percorso con troppi spigoli, avrebbe vinto in ogni caso. Magari senza uccidere l’interesse della corsa, se il sesto grado fosse stato distribuito meglio. Ma Contador aveva un motivo in più per strafare, doveva dimostrare ai tribunali in agguato che sa andare forte anche quando è supercontrollato. E un risultato l’ha già ottenuto, la sentenza per la vecchia storia di doping presunto prevista fra pochi giorni slitta a settembre. Potrà partecipare al prossimo Tour.

I nostri troppo piccoli? Scarponi nè piccolo nè grande, è stato quel che doveva essere. Ha provato a contrastare il Matador ma si è scottato al calore dell'Etna. Compresa la lezione si è gestito meglio, è finito in crescendo e ha respinto Nibali nel duello per il secondo posto, dove pure non era favorito dalla crono finale. Non è un fuoriclasse, ma un ottimo corridore con un carattere di ferro. Merita un 8 perchè ha dato tutto, naturalmente aiutato da un Giro tutto a naso’in su.

Semmai un voto in meno va dato proprio al più atteso, a quel Vincenzo Nibali dal quale i tifosi, e non solo loro, attendevano buone notizie. Perchè aveva già agguantato il terzo posto al Giro dell'anno scorso pur avendo dovuto aiutare il suo capitano Basso; perchè poi in settembre aveva domato l’arcigna Vuelta. Insomma, il siciliano era considerato ostacolo difficile per Contador e invece in tal senso ha in parte deluso soffrendo più del previsto in salita, dove gli è mancato il cambio di passo. Ma non si è mai arreso, soprattutto pare finalmente uno dei più credibili testimoni del nuovo ciclismo pulito. E ha dalla sua l’età, 27 anni sono appena l’alba per chi si confronta con le grandi corse a tappe. Non siamo più ai tempi di Coppi, che vinse il Giro a vent’anni...

di Gianni Romeo; LA STAMPA

INTER-Palermo 3-1

Si è conclusa un'altra stagione da buttare via...

Ha vinto il migliore

martedì 24 maggio 2011

4-3-3 risate

Gli uomini della domenica se ne vanno. In Europa, in B o al mare. Qualcuno approfitta delle ferie per sposarsi, qualcun altro per divorziare e cambiare maglia. Tutti lasciano un ricordo. Questi 11 più degli altri. Sono stati selezionati con criterio più narrativo che tecnico. E ad esclusione di chi era già stato effigiato in questa pagina. Sono schierati con il 4-3-3 e indossano le maglie della storia del calcio, dall'1 all'11, passando per lo stopper e la mezzala.

1) MARCHETTI
Il portiere che non c'era. Dai Mondiali al nulla. Tutto per aver espresso un desiderio: mi piacerebbe andare alla Sampdoria. Che se poi si realizzava era peggio. Almeno ha l'alibi dell'assenza. E il pregio di aver dimostrato una cosa: nella lite tra un padrone e un lavoratore il popolo e i media stanno con il lavoratore, ammenoché sia un calciatore. In quel caso tra il milionario in porta e quello che lo mette alla porta (si chiami Cellino o Garrone) le simpatie vanno al secondo. E al secondo portiere.

2) NAGATOMO
Un cognome che profetizza disastri nucleari e al loro avverarsi suscita simpatia. La terza ragione per il turismo giapponese a Milano dopo lo shopping e l'aver sbagliato strada. Ma anche un giocatore vero, benché lo trattino da mascotte. Talvolta segna pure. Ancor più straordinario: ha vinto una coppa continentale benché allenato da Zaccheroni. Che ha detto: mi capiva a gesti. A Torino, i giocatori italiani, manco a parole.

3) ARMERO
Ogni tanto partiva un treno. Da Udine. Per la fine del mondo o del campo. L'armata di Guidolin è stata prima Brancaleone, poi Invincibile. Più spesso, Armero. Dicono: i gol di Di Natale, le volate di Sanchez, Isla e Inler. Ma nessuno correva come questo, pareva Maicon quando era Maicon. Un colombiano che conosce un solo cartello: quello che indica la porta avversaria. E lo segue. Poiché uno dell'Udinese tra questi 11 ci voleva, entra lui. Poi stramazza.
4) LEGROTTAGLIE
Ha detto Vasco Rossi in una memorabile intervista: o Dio non c'è o è cattivo. Legrottaglie crede in Dio, ma evidentemente è vera la seconda che dice Vasco. La Juve non lo utilizza e lo vende al Milan, già avviato verso lo scudetto. Lui entra nel secondo tempo e dopo 38 minuti si rompe e non gioca più. Campione d'Italia, certo. Probabilmente lui riesce a vedere lo splendore in questo disegno della provvidenza e ringrazia. Amen.

5) LORIA
Qualcuno può pensare che in fondo non abbia fatto niente di speciale, ma il solo fatto che sia riapparso al centro della difesa di una squadra in lotta per la Champions ha invece qualcosa di eccezionale. E ancor di più lo è che la speranza sia stata riaperta da un suo gol (salvo richiudersi poco dopo per svarioni di marcatura). Ora che Mexes emigra, Di Benedetto potrebbe regalarci un sogno e pretendere Loria titolare. Trasformando l'Olimpico nel Colosseo, quanto a buchi.

6) BOATENG
Dalle lacrime con il Ghana al ballo di Jacko con il Milan. E' il giocatore più esplosivo dell'anno. E il mistero più glorioso del calciomercato. Preziosi lo ha prestato a Berlusconi. Perché il Cavaliere non poteva permetterselo? Perché tanto in quel ruolo aveva già fenomeni tipo Rafinha? Perché ha preferito farne senza, ma con plusvalenza? L'unica certezza è che questo, se ci sta con la testa oltreché con il fisico, non lo toglie più di squadra nessuno.

7) MACHEDA
Al primo gol con la maglia del Manchester United qualcuno chiese all'allora ct Lippi di convocarlo. Siamo un Paese così: o restiamo indietro o fuggiamo in avanti. E tutto quel che è lontano ci sembra brillante: come Macheda in Inghilterra. Poi ce lo mandano a domicilio ed ecco qua lo zircone. Va bene che se uno passa da Ferguson a Cavasin ha i suoi traumi, ma il campionato è finito e questo non si è ancora ripreso. Finisce per diventare un simbolo: dei rottamatori che poi, se li metti al volante, sbandano. E noi lì, al lato della carreggiata, impolverati, a contare i gol di Totti.

8) GIOVINCO
Più che un uomo un emblema. Un asterisco, suvvia. Una piccola metafora, di che? Del grande, incommensurabile spreco che ha saputo fare la Juventus. Che poi sia colpa della "dittatura" di Del Piero o dell'incapacità della dirigenza, che differenza fa? I Miccoli giocano e meravigliano altrove. A Parma è sbocciato perfino Amauri, quando già Giovinco metteva fiori dappertutto. Anche sulla lapide della Signora.

9) BOSELLI
Chi era costui? E' la domanda che seguirà se lo si nominasse tra un anno. Tranne che a Genova. Dove rimarrà memorabile. Un argentino qualunque arrivato a gennaio per sbaglio, già rotto, che entra nel finale di un derby già chiuso e al 97' segna e di fatto retrocede la Sampdoria. Generazioni di piccoli doriani cresceranno con la minaccia: buono o arriva Boselli. Generazioni di genoani invecchieranno addolciti dal ricordo di quel gol improbabile. Ogni altro miracolo sembrerà scontato.

10) PASTORE
Ora, uno a Zamparini può dire di tutto, lui non si offende più. Parla con il pappagallo, sfrutta la popolarità in maniera costruttiva edificando palazzi, fonda il partito del té e capeggia quello del me. Ma non si dica che non capisce di calcio. Dopo aver esonerato Delio Rossi (sconfitto 0 a 7 in casa) prende Cosmi. E lo caccia non appena tiene in panchina Pastore. Ecco, dicono che Zamparini sia matto, ma matto è chi non fa giocare Pastore. Punto. Di lui, riparliamo fra tre anni. Possibilmente da Barcellona.

11) GRANDOLFO
Dimenticate quanto avete letto su Macheda e l'assurdità delle illusioni precoci. Noi vogliamo innamorarci a prima vista. Andiamo allo stadio per poter dire: quel giorno io c'ero. Quando? Quando debuttò Mancini, quando un tal Cassano segnò all'Inter, quando a Bologna, nella più inutile delle partite, sbocciò Grandolfo. Un nome da elfo nel signore degli anelli, uno, due, tre tocchi da predestinato. Lasciateci pensare che sia nato il nuovo Pablito (non ne nasce uno all'anno?), che ogni fine sia un inizio, come ci ha insegnato il saggio morente e che questo campionato appena tramontato abbia generato un raggio verde che illumina il futuro: Grandolfo. Chi era costui?

Allenatore LEONARDO
In Italia non si gioca più per qualcosa, ma contro qualcuno, si vota contro qualcosa o qualcuno, vero o immaginario che sia. Così il Milan non ha vinto lo scudetto per Allegri, ma contro Leonardo, come da cori di Gattuso, il Lassini rossonero da cui la dirigenza ha finto di prendere le distanze. E lui, Leonardo, prima guru della felicità, poi bersaglio della derisione, prima milanista poi interista, prima critico di un presidente, poi cocco di un presidente, prima quasi vincente, poi assoluto perdente, è diventato suo malgrado il centro di questo sgraziato universo. Fino al prossimo campionato, o alla prossima elezione.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

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    INTER-Catania 3-1

    Aspettando la finale di domenica, una partita presa sul serio. Con un grande Pazzini.

    sabato 14 maggio 2011

    Habitué

    Per timore più o meno reverenziale verso l'AGCOM è bene dare una non-notizia: la vittoria del 19° titolo nazionale del Manchester United.

    35 lunghi anni...

    Il Manchester City del nostro amatissimo Mancio ha appena vinto la finale di FA Cup contro gli ostici boscaioli dello Stoke City per una rete a zero, con un gol rabbioso di Yaya Touré.
    Il mitico Super Mario eletto "Man of the match".

    giovedì 12 maggio 2011

    mercoledì 11 maggio 2011

    Pedala!

    I poveri sono matti, diceva Zavattini. Anche i ciclisti, vorrei aggiungere. Non fuori di testa, ma con quel briciolo di pazzia che li porta a scegliere uno sport di estrema fatica, di molti rischi, di guadagni relativamente bassi. Una volta, era normale, quasi automatico. La bici servì a Binda per non continuare a fare lo stuccatore, sia pure in Costa Azzurra, a Coppi per sottrarsi alla zappa da usare sui costoni argillosi di Castellania. Erano e sono stati, per molti anni, ciclismo e pugilato lo sport degli affamati, il treno su cui saltare in cerca di fortuna. E pazienza se non era l'Orient Express ma una terza classe fumatori, di quelle su cui saliva Fiorenzo Magni su fino al Nord, dormiva come poteva, sempre con un occhio alla bici, e poi vinceva il Giro delle Fiandre. A volte ho pensato che il ciclismo fosse, per i poveri, una soluzione come il seminario: una bocca di meno in casa.

    La vocazione serve ai preti e serve ai ciclisti. A chi stanno più a cuore le anime, a chi i corpi. Ma si è sempre a metà: correre a piedi, correre in bici, e l'uomo è ancora il motore di se stesso, correre a motore. I nostri figli certi lavori non li vogliono più fare, si continua a sentir dire in giro, per questo c'è bisogno degli immigrati. Sì, ma come la mettiamo con certi sport? Isoliamo per un po' il doping, che comunque è un rischio in più, e gravissimo.
    Con o senza, è una fatica da bestie, anche se le bici pesano meno, anche se le strade sono più lisce, anche se i chilometraggi sono più
    miti, anche se gli alberghi non sono più topaie, anche se si è seguiti da un medico o da un preparatore atletico (fin troppo, talvolta).

    Ieri al Processo alla tappa Bettini ha detto che il ciclismo è uno sport che fa sentire liberi. Forse sì, ma facendo una vita da schiavi. Non esiste uno sport in cui io debba comunicare alla superiore autorità ogni mio spostamento. Io ciclista devo essere reperibile tutti i giorni dell'anno, anche in vacanza, anche il giorno in cui vado a un funerale o cambio idea: non vado in pizzeria, vado al cinema. Sono un sorvegliato speciale, un vigilato a vista. Ed è anche colpa mia, o della mia categoria, ma io ciclista sogno il giorno in cui, a poche ore dal derby di Milano o di Barcellona, si presenteranno i cavasangue, come si presentano nei nostri alberghi alle sette del mattino, e magari quel giorno si fa il Ventoux o il Mortirolo, ma se anche fosse una tappa piatta come una mano la sostanza non cambia, anche il più pulito può avere la rogna (questo non è scritto ma lo sappiamo). Io ciclista, che adesso non posso più fare nemmeno una puntura di vitamine, penso a com'è bella la vita dei calciatori, che giocano un'ora e mezzo la domenica e il lunedì riposano, mentre noi dopo una tappa alpina ne abbiamo un'altra e un'altra ancora. Forse è per questo che la gente ci vuole bene, nonostante le macchie di doping che hanno imbrattato questo e quello, campioni e poveracci che tengono l'anima coi denti per arrivare in tempo massimo. E' per questo che la gente ha capito il funerale di ieri, i compagni del morto davanti, come la Motorola per Casartelli, nel '95, e poi la bici numero 114, quella di Fabio, issata sul tetto dell'ammiraglia fino a Parigi, alla sfilata sui Campi Elisi, come una bandiera di metallo, un ricordo piantato nel cervello, un singolare modo, ma trovatene voi un altro, per rendere onore alle armi.

    Perché, torno a dirlo, il ciclista si guadagna il pane lontano da casa, come gli emigranti stagionali e i soldati, e dico soldati perché esiste il capitano per definizione, mentre il tenentino è un giovane di belle speranze e il sergente è il più vecchio, tant'è che lo si definisce anche direttore sportivo in corsa. C'è l'attacco improvviso (il raid) e quello preparato a tavolino, ci sono le alleanze, per simpatia o per quattrini, ci sono le grandi manovre, le fughe (ma chi va in fuga nel ciclismo non è un disertore, è un eroe, c'è una bella differenza). Ci sono gli agguati, le imboscate, le trattative segrete, quelli che hanno studiato dicono che il ciclismo è una chanson de geste, tirano in ballo Omero. Ettore era uno pulito, Achille un dopato. E però, però, la madre di Weylandt che lungo la discesa del Bocco s'inginocchia e bacia l'ultimo pezzo di terra che ha accolto il corpo del figlio, questo sì è omerico nel senso di antichissimo e straziante. Poteva maledirli, quella discesa e quel muretto, con l'urlo di tutte le madri, anche le pecore quando si vedono portar via gli agnellini e sanno che cosa li aspetta. Poteva restare di pietra, per non sbriciolarsi sotto l'urto di un dolore troppo forte e inatteso. Si erano mossi da Gand perché l'anno scorso il loro ragazzo aveva vinto la terza tappa e quest'anno la terza tappa gliel'ha portato via. No, s'è inginocchiata e ha baciato la terra, come faceva papa Wojtyla, come ha fatto la Schiavone al Roland Garros, ma qui era diverso.

    Qui tante cose sono diverse da quello che sembrano. Anche pedalare in gruppo è rischioso, basta sbandare di cinque centimetri e si fa come una palla da bowling. Si fa fatica sempre, ad attaccare e ad inseguire, a salire e a scendere, a tirare la volata come a vincerla, a fare una cronosquadre oppure una crono individuale. Quale altro sport obbliga, da professionisti, a continuare a pedalare anche espletando le cosiddette funzioni corporali, e non solo di pisciare si parla? Certo, ti puoi anche fermare dietro a un cespuglio come Gaul, che per quella fermata perse il Giro del '57. In casi del genere il codice d'onore (non scritto) stabilisce che non si attacca, ma Bobet e Nencini non la pensarono allo stesso modo o forse (erano i tempi dei veri duri) pensarono che un ciclista che per certe cose ha bisogno d'appartarsi non merita rispetto. Peggio per lui.

    Anche questo episodio dimostra che il ciclismo è come la vita e per questo lo capiscono tutti. La gente sa che sulla canna della bici c'è la ventura (l'avventura, anche) e la sventura. Ed è per questo che la morte di Weylandt non appartiene solo alla sua famiglia, né a quella, allargata, del gruppo, ma a tutti quelli che si son fatti il segno di croce quando passava il gruppo, a quelli che non hanno saputo trattenere le lacrime quando una tromba ha intonato il Silenzio oltre il traguardo. Riconoscersi in un momento di dolore, non di vittoria, non è da tutti e io credo che quella sia l'Italia vera, l'Italia che ne ha piene le palle di Berlusconi e dei suoi attacchi ai giudici, di Nicole, di tante cose che riempiono i giornali e i telegiornali, di liti finti e vere, di poteri spartiti, di un Paese col lifting spacciato per realtà, con la guerra che si deve chiamare con un altro nome, con i morti sul lavoro che non hanno l'eco di Weylandt, morto in diretta tv al Giro dei 150 dell'unità d'Italia, un'unità che a volte si fatica a intravvedere, ma per Weylandt c'è stata. Unità. Rispetto. Dolore condiviso. Silenzio.

    Pantani l'aveva detto: vado forte in salita per abbreviare la mia agonia. L'aveva detto con estrema chiarezza, con parole più da poeta che da scalatore. Un ciclista non sogna certo di morire, ma sa che può capitargli. Un ciclista sogna la grande fuga, l'andar via da tutti, l'isolamento, tutte cose che sono l'altra faccia della morte ma in qualche modo la evocano. Il ciclista è un personaggio buzzatiano, e infatti Buzzati sui ciclisti ha scritto pezzi bellissimi: a volte, come i messaggeri dell'imperatore, si spinge così lontano che non torna più. Il ciclista può essere Bertoldo. Un vecchio suiveur, ma ormai lo sono anch'io, mi ha raccontato di un gregario toscano al Tour negli anni '50, sono indeciso tra Ferlenghi e Falaschi. Allora, si raccoglievano le dichiarazioni di tutti gli italiani, non solo di Bartali o Coppi. "Com'è andata, eh?" indagò un giovane cronista al termine di un tappone pirenaico sotto un sole che c'è solo sui Pirenei. "Su e giù, su e giù, come pulirsi il culo a revolverate" fu la risposta.
    Il ciclista gira il mondo, una volta erano Belgio, Francia e Spagna, adesso anche Malaysia, Qatar, Giappone. Gira il mondo ma non lo vede, non può guardare i paesaggi né i monumenti. Gira il mondo e mangia sempre le stesse cose. Vede solo lettini per il massaggio e camere d'albergo, che nel tempo si son fatte più confortevoli. Ho visto Merckx e altri 80 corridori dormire nel liceo di Luchon su brandine stese nei corridoi, sei docce e sei wc per tutti, prendere o lasciare. Prendere, se non prendi non sei un ciclista e in più l'organizzatore ti sbatte a casa perché non si può rifiutare l'alloggio assegnato. E allora, perché oggi uno non sceglie il tennis, il golf, la pallavolo? "Per passione" rispondono i ciclisti. Passione ha la stessa radice di patire e patire è un po' morire. Questo non spiega tutto ma molte cose sì.

    di Gianni Mura; la Repubblica

    martedì 10 maggio 2011

    Un Ringhio penoso

    Perché uno come Rino Gattuso, campione del mondo e vicecapitano del Milan, ha festeggiato lo scudetto trascinando i propri tifosi a intonare il coro «Leonardo uomo di m...»? Si fosse limitato a un saltello sfottente, non avrei mai scritto questo articolo: la pernacchia al rivale sconfitto fa parte del rito. Ma nell’insulto all’allenatore dell’Inter nemmeno un entomologo delle emozioni riuscirebbe a trovare tracce di ironia. Capisco l’antipatia di Gattuso per il suo ex capufficio, che quando allenava il Milan non lo prendeva in considerazione. Capisco meno la ragione per cui molti di noi, non solo Gattuso, abbiano bisogno di vomitare un’infamia per dare ali alla gioia. Cioè, la capisco benissimo. Siamo intrisi di rancore accumulato e inespresso. Verso i politici, i superiori, i colleghi, i congiunti. Una rabbia impotente, tipica di un’epoca di transizione che non offre risposte chiare alle angosce. Serve un capro espiatorio a portata di mano: la persona da cui si ritiene di aver subito un torto. E serve un momento di felicità per liberare senza sensi di colpa la poltiglia dei brutti pensieri. Dopo lo sfogo non ci si sente migliori né appagati. Solo più vuoti.

    Vi auguro di festeggiare i vostri trionfi non come Gattuso ma come Leo Messi, che quando fa gol non porta le mani alle orecchie e non tira calci alle bandierine del corner. Cerca il compagno che gli ha passato il pallone e lo ringrazia con un abbraccio. Per ricordare persino a se stesso, il più forte di tutti, che il calcio - come la vita - è un gioco di squadra.

    di Massimo Gramellini; LA STAMPA

    Wouter Weylandt

    http://www.youtube.com/watch?v=z_cP9mptgd4

    Raccontare una morte in diretta è tremendo. Non ci sono filtri, solo un mare di retorica, tempi difficili da gestire, sensibilità da rispettare. Ieri l’Heysel, oggi il Passo del Bocco. Dunque, non daremo lezioni alla Rai, ma ci permettiamo un consiglio: in questi casi non si lascia un uomo solo al comando. E nemmeno una donna. In questi casi bisogna correre in gruppo. Ieri non è successo. La conduttrice dell’approfondimento post Giro, Alessandra De Stefano, è arrivata esausta alla meta (l’annuncio del decesso di Weylandt) dopo aver lanciato appelli commoventi ai colleghi: «Facciamo squadra, datemi una mano».

    In cambio silenzi, lacrime e una regia inflessibile nell’imporre la regola aurea. «Continuare la trasmissione non ha senso». Pausa: «Dalla regia mi dicono che dobbiamo continuare». E così via, sotto il peso di una verità straziante che non si può dire, perché devono avvertire la moglie del ciclista. Per cui il momento più drammatico è anche quello liberatorio. «Se la regia è d’accordo, farei scorrere le immagini in silenzio». E scapperei da qui, maledetta regia.

    di Guido Boffo; LA STAMPA


     

    INTER-Fiorentina 3-1

    Finalmente Coutinho...

    martedì 3 maggio 2011

    Daniele Mannini

    Quando il gioco si fa duro i molli cominciano a giocare. Questa è la verità delle ultime giornate, quando il campionato si squaglia, le aspettative anche e restano minuti di agonia, sospesi tra la fine e il nulla, la A e la B, la Champions e l'inutilità. È lì che dalle cabine telefoniche rimaste escono Superman di riserva, con la tuta blu un po' stinta comprata in liquidazione. Gli eroi inattesi delle idi di maggio. Prendi la Roma: resta attaccata al sogno europeo degli americani grazie a Rosi, che la mette dentro con l'innominato. E prendi soprattutto la Sampdoria, la squadra del girone infernale di ritorno, quella che aveva perso con tutte le rivali salvezza in casa, tre su tre e stava per fare poker. Nel tunnel buio dell'ultimo minuto non è che potevano più sbucare Cassano o Pazzini, stai fresco se aspetti il giovin Macheda, s'era arreso perfino capitan Palombo ed ecco che fa tutto da solo, percussione, dribbling e gol nello spiraglio impossibile Daniele Mannini. Parliamone.

    Già questo nasce figlio di un portiere. E nel calcio ci sono delle logiche, poche ma ci sono. Come nella scala sociale della vita: se tuo padre fa il portiere, tu fai il portiere. Cudicini jr. mica si è inventato trequartista. Mannini sì, anche se pochi allenatori gli hanno creduto. Esordi giovanili nei campionati minori in Toscana, poi qualcuno nota un suo doppio dribbling contro il Lumezzane e finisce al Brescia, la stessa squadra che ha praticamente mandato in B con il gol della disperazione domenica scorsa. Quando c'è
    da segnare lui non ha pietà. L'episodio che lo porta alla ribalta nazionale, lascia traccia su wikipedia, ma soprattutto in una conversazione intercettata tra Moggi e Giraudo. È una rete da dimenticare, contro l'Udinese, nel 2004. Il portiere De Sanctis è a terra, infortunato, non fa in tempo a citare Francesco Ferrucci: "Vile, tu uccidi un uomo morto!", che Mannini ha già segnato. L'arbitro convalida. È uno di quegli episodi, come le luci a Marsiglia, che fanno scrivere a qualcuno: il calcio è finito. Poi invece continua e non se ne parla più.

    Lanciato da questa e altre prodezze Mannini approda a Napoli. Il prezzo d'acquisto non è giusto: lo pagano per risarcire dell'affarone fatto con Hamsik. L'allenatore Reja lo guarda perplesso mentre si allena con la bandana in testa. Ne segue con disappunto le gesta notturne. Lo schiera poco e non dove quello vorrebbe. Moggi, che ha una passione per intervenire nei fatti altrui, dichiara a Radio Kiss Kiss: è un giocatore di difficile collocazione. Per lo più: panchina. Ancor più lontano lo spedisce una squalifica affrettata per un ritardato controllo antidoping. Gli rifilano un anno. La notizia gli giunge mentre viaggia con la squadra in Eurostar. Si chiude in bagno a piangere per un'ora. Si allena nonostante il rientro sembri lontano. Quando gli riducono la pena è pronto. Il Napoli meno. Lo cede in comproprietà alla Sampdoria.

    Parte fortissimo. Segna perfino. Cassano gli accende la luce e lui apre la porta. Qualcuno scrive: "Lippi non vuole Fantantonio, finirà che prende, invece, Mannini". Non succede. Ci sarebbe perfino un conflitto d'interessi, poiché il suo agente è Davide, figlio del ct. Che da due anni proclama: "C'è battaglia per Mannini, il Napoli lo rivuole, la Samp non lo molla". In realtà la scorsa estate giocarono a "ciapa no" e perse la Sampdoria. Millemiglia, come lo chiamano, quest'anno ha smosso appena il contachilometri. Poi sono arrivate queste giornate terminali in cui gli allenatori vanno in guardaroba e, al grido "proviamole tutte", tirano fuori maglie smesse. Guarda a Firenze che cosa è successo con Cerci e D'Agostino. Guarda a Parma, con Modesto e Valiani.

    Marassi stava sprofondando quando Mannini ha risalito la propria parabola, preso quel pallone e si è inventato la mossa del matto: spalle al muto, capriola e sbuchi dietro l'avversario. Avrebbe dovuto metterla in mezzo, dopo aver saltato l'avversario. L'ha messa dentro. Come, è uno di quei misteri di fine stagione, quando l'impossibile di settembre diventa quotidiana magia. Poi è andato in conferenza stampa e ha fatto "tra virgolette i complimenti" ai suoi compagni. Complimenti a Curci che non para più, a Gastaldello che non marca il centravanti di turno, a Maccarone che spara sul portiere. E questo, al figlio di un portiere, non va giù. Le cronache da Genova raccontano che l'ultimo allenamento prima della partita con il Brescia è stato una bolgia. Ultrà a bordo campo, allenatore contestato, giocatori minacciati. Aspettati all'uscita e ammoniti. Poi sono andati via tutti. A quel punto, nel parcheggio deserto, è sbucato Mannini. Si è guardato intorno. Non c'era più nessuno, l'avevano lasciato solo. Ne ha dedotto: è arrivato il mio momento.

    di Gabriele Romagnoli; la Repubblica