Una vita in fuga. Urbano Cairo non è Alberto Contador però il suo destino ormai lo accomuna al ciclista spagnolo: pure lui deve sfuggire sempre al gruppo degli inseguitori che nel suo caso non si limiterebbero a batterlo sul traguardo ma a batterlo con quanto hanno per le mani e basta. Sarebbe successo anche ieri se il fiuto dell’uomo prudente e braccato non avesse spinto il presidente granata a lasciare lo stadio sotto scorta prima che si ufficializzasse la condanna del Toro alla terza stagione consecutiva in serie B, come successe solo nella seconda metà degli anni 90. Sconfitti dal Padova i granata hanno centrato il capolavoro di finire ottavi e hanno fallito i playoff che ritenevamo alla loro portata più dell’anno scorso, vista la compagnia.
Come ha detto Rolando Bianchi, «è un fallimento completo». Almeno c’è chi chiama ancora le cose con il proprio nome. Ognuno ha portato il proprio mattoncino alla causa. Lerda era arrivato con tante speranze perché aveva fatto un buon lavoro a Crotone e perché aveva il «pedigree» granata, ammesso che l’essere cresciuti nel Toro di una volta abbia ancora un valore per il Toro di oggi. Ebbene Lerda è indifendibile come lo sono i giocatori. Modesti di piede, impreparati a ragionare tatticamente, poveri di spirito perché neppure ieri, in una finale da vincere a tutti i costi, hanno messo in campo il carattere, pronti a sbracare nelle difficoltà. Ma il pesce puzza dalla testa e la testa nel Toro è Urbano Cairo. Se usasse nel calcio metà del fiuto che ha dimostrato nell’inventarsi riviste di successo, sarebbe il miglior presidente della storia dopo Ferruccio Novo e Orfeo Pianelli. Ma come si dice a Milano, dove Cairo lavora, «Offelè fà el to’ mestè», ed evidentemente il suo mestiere non è il football.
Da quando arrivò nell’estate del 2005 il suo è stato un fare e disfare, all’inizio seguito con la simpatia che suscitano i neofiti, poi con l’irritazione che accompagna la pervicacia nelle scelte sbagliate. A mettere insieme i direttori sportivi, gli allenatori e i giocatori che ha accumulato in sei stagioni ne esce una Garzantina. Tanto sbattersi per affossarsi a questo punto. La sua fuga stavolta ci sembra al capolinea. Cairo non ha più credibilità nel mondo granata, temiamo non abbia neppure la voglia di mettere i soldi necessari ad attrezzarsi per il prossimo campionato, di cui Bari, Samp e Brescia alzeranno il livello quest’anno modestissimo. Levarsi dalla B sarà più difficile per un club in cui ogni atto del presidente sarà immediatamente accolto con sfavore. Sarebbe più semplice levarsi e basta, cercare un compratore, anziché scoraggiare chi avesse una mezza idea di entrare nel Toro. Cairo disse che avrebbe venduto ma resta lì, cercando nel passato una via di uscita, magari riaffidandosi a un altro allenatore, Colantuono, che aveva preso, cacciato, ripreso e riperso. La sua specialità. Senza futuro.
Come ha detto Rolando Bianchi, «è un fallimento completo». Almeno c’è chi chiama ancora le cose con il proprio nome. Ognuno ha portato il proprio mattoncino alla causa. Lerda era arrivato con tante speranze perché aveva fatto un buon lavoro a Crotone e perché aveva il «pedigree» granata, ammesso che l’essere cresciuti nel Toro di una volta abbia ancora un valore per il Toro di oggi. Ebbene Lerda è indifendibile come lo sono i giocatori. Modesti di piede, impreparati a ragionare tatticamente, poveri di spirito perché neppure ieri, in una finale da vincere a tutti i costi, hanno messo in campo il carattere, pronti a sbracare nelle difficoltà. Ma il pesce puzza dalla testa e la testa nel Toro è Urbano Cairo. Se usasse nel calcio metà del fiuto che ha dimostrato nell’inventarsi riviste di successo, sarebbe il miglior presidente della storia dopo Ferruccio Novo e Orfeo Pianelli. Ma come si dice a Milano, dove Cairo lavora, «Offelè fà el to’ mestè», ed evidentemente il suo mestiere non è il football.
Da quando arrivò nell’estate del 2005 il suo è stato un fare e disfare, all’inizio seguito con la simpatia che suscitano i neofiti, poi con l’irritazione che accompagna la pervicacia nelle scelte sbagliate. A mettere insieme i direttori sportivi, gli allenatori e i giocatori che ha accumulato in sei stagioni ne esce una Garzantina. Tanto sbattersi per affossarsi a questo punto. La sua fuga stavolta ci sembra al capolinea. Cairo non ha più credibilità nel mondo granata, temiamo non abbia neppure la voglia di mettere i soldi necessari ad attrezzarsi per il prossimo campionato, di cui Bari, Samp e Brescia alzeranno il livello quest’anno modestissimo. Levarsi dalla B sarà più difficile per un club in cui ogni atto del presidente sarà immediatamente accolto con sfavore. Sarebbe più semplice levarsi e basta, cercare un compratore, anziché scoraggiare chi avesse una mezza idea di entrare nel Toro. Cairo disse che avrebbe venduto ma resta lì, cercando nel passato una via di uscita, magari riaffidandosi a un altro allenatore, Colantuono, che aveva preso, cacciato, ripreso e riperso. La sua specialità. Senza futuro.
di Marco Ansaldo, LA STAMPA