martedì 22 marzo 2011

Big Mac

Si è tatuato una luna. Ha sparato un rigore sulla luna. Si è tatuato una tigre che riposa. Nei suoi occhi la tigre s'è addormentata. A nanna, cucciolone. Con quell'errore astronomico Massimo Maccarone ha tirato un calcio al piano inclinato su cui viaggiano il futuro della Sampdoria e suo personale. Ma a volte ribaltare il tavolo non serve: i punti e il destino sono segnati.

Poi si può pensare che gliel'abbia fatto fare la coscienza: il fallo non c'era, il pareggio sarebbe stato immeritato. Non fosse che nello sguardo gli è sceso un velo di colpa e cinque minuti dopo si è fatto sostituire. Non è il suo anno, alla fine ha trovato il posto giusto per dimostrarlo.

Se n'è andato da Palermo dicendo: "In un matrimonio bisogna essere in due". Per farlo funzionare o per renderlo disperante. A Genova erano ancora sotto choc per la doppia vedovanza Cassano-Pazzini quando l'hanno visto arrivare. Sotto il sole di Nervi il cranio riluceva. Qualcuno ha combattuto la malinconia e i presagi aggrappandosi a un miraggio: "Vialli!", ha gridato. Come evocare Marlon Brando mentre sullo schermo appare Bud Spencer. Eppure i suoi momenti di gloria anche Big Mac li ha avuti. Correva l'anno 2002. Giocava in serie B, nell'Empoli di Silvio Baldini. Faceva coppia in attacco con tal Totò Di Natale. Segnavano 26 gol a stagione (un anno 16 lui e 10 Totò, l'anno dopo viceversa).

Gentile lo convocò nell'Under 21. Fece gol nel primo tempo. Durante l'intervallo chiamò Trapattoni, che allenava la Nazionale maggiore. Disse al collega: "Fai riposare il centravanti, mi serve contro l'Inghilterra". Si era rotto Vieri, che gli predisse: "Se segni, sei a posto per i prossimi ottant'anni". Ci mancò poco. Procurò il rigore decisivo facendosi atterrare da Calamity James. Non lo tirò lui, l'Italia vinse. E scoprì un nuovo eroe. I giornali impazzirono. Non avevano mai visto nessuno andare dalla B all'azzurro. Si scoprì che arrivava dalla provincia di Novara, come Boniperti. Scivolarono i paragoni. Furono intervistati i genitori, immigrati dal Casertano, che si erano conosciuti in una sala da ballo. Il padre disse: "Ha anche un fratello, a me sembrava più forte di lui, ma ha smesso". Fu scovato il fruttivendolo che l'aveva licenziato nel '94 perché bigiava il lavoro per guardare le partite del mondiale americano. Nella torrida estate di mercato che seguì fu considerato come un affronto pari alla fuga dei cervelli il suo trasferimento al Boro, in Inghilterra. Maccarone si giustificò con grande semplicità: "Pagano un ingaggio più alto". Anche lì, arrivò come un miraggio. L'allenatore McLaren annunciò: "Abbiamo preso il giocatore italiano più simile a Del Piero". Nove anni dopo, nella stessa domenica, Alex è ancora lì a far serpentina-tiro-gol, Big Mac a rimirar le stelle.

Tuttavia esordì alla grande: tre gol nelle prime cinque partite. Gli inviati partirono per Boro. Atterrarono con lieve disgusto. Alla domanda su come potesse vivere tra i fumi delle industrie Maccarone rispose: "C'è anche il centro, sapete? E i parchi, tipo Scozia. Poi vengo da Oleggio, mica da Firenze". Li condusse a visitare i due ristoranti sardi dove mangiava, uno vicino al campo, l'altro vicino a casa. Spiegò che imparava l'inglese, a fatica, da un compagno argentino. Promise sfracelli.

E svanì. Infortuni e tristezza. Due anni dopo convinse il Boro a prestarlo al Parma dove allenava Baldini. Non funzionò. Tornò indietro e illuminò qualche notte in Uefa. Vinse una coppa minore restando in panchina. Se ne parlava come di certi attori di seconda fila che a un certo punto vanno a Hollywood, recitano parti minori, fanno sapere che lì è tutta un'altra cosa, altra professionalità. Poi non resta che aspettarli: tornano e si buttano nella commedia.

Il ritorno di Big Mac è stato invece di un buon livello. A Siena aveva trovato la sua dimensione, segnato 49 gol in 134 partite. Era diventato una bandiera, nonostante la retrocessione. Da lì, non ne ha più azzeccata una. Piuttosto che scendere in B ha accolto con gioia l'abbraccio mortale di Zamparini, che ad agosto lo considerava un campione e a gennaio un bidone. Ha svuotato l'armadietto alla vigilia di una partita con il Parma in cui il suo sostituto (un 18enne paraguayano a nome Jara Martinez) avrebbe segnato il rigore decisivo. Ha rifiutato il Cesena, scelto la Samp. Ha visto il Cesena massacrare la Samp. Ha sbagliato il rigore decisivo contro il Parma. Eppure, in quello sprofondo di rimpianti, orgoglio suicida, avanzi d'Albione (lui e Macheda) che è la Sampdoria attuale, se c'è un uomo che può ancora combinare qualcosa, nel bene o nel male, è Maccarone. Mentre Pazzini fa la danza del gol molti piani più in su.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

INTER-Lecce 1-0

Che fatica... ma quello che conta è che ora siamo a meno 2 dal Milan, e dopo il derby a ci troveremo a più 1!!!

mercoledì 16 marzo 2011

E' storia

Comunque vada a finire questa stagione, Bayern-Inter resterà una pietra angolare nella storia nerazzurra. Per le emozioni che ha riservato a chi l’ha vista; per quanto rappresenta. La vittoria dell’Allianz Arena è stata prima di tutto il gesto quasi disperato di chi non vuol saperne di uscire di scena. I nerazzurri all’intervallo si sono ritrovati nella peggiore condizione possibile, sotto di un gol, dopo aver già perso all’andata e con uomini fondamentali pieno di acciacchi: Thiago Motta non riusciva a tenere il passo del Bayern; Cambiasso era costretto a mettere in campo tutto il furore agonistico possibile; Lucio cercava giocate impossibile pur zoppicando; Stankovic soffriva, pieno di acciacchi.

Però l’idea di dover lasciare la Champions League già agli ottavi e contro l’avversario che avevano sconfitto nella finale di Madrid ha triplicato le forze. Il resto lo ha fatto Leonardo, che puntato più sulla forza della volontà che su quella dei muscoli. Aveva chiesto ai suoi di credere nella vittoria, perché si sarebbe trattato di un’impresa e non di un miracolo; non ha mai cambiato idea, accompagnando gli attacchi nerazzurri dalla panchina. Alla fine ha avuto ragione lui, perché non c’era nessun morivo, dopo aver visto il primo tempo, per immaginare un sorpasso del genere. Ed è uscita una partita che, senza esagerare, entra nella top ten delle imprese nerazzurre, non molto inferiori a Inter-Liverpool 3-0 (maggio ’65); a Real-Inter 0-2 (marzo ’67); all’1-0 di Londra in casa del Chelsea giusto un anno fa. Il successo di Monaco, dove l’Inter, che mai ha battuto in casa il Bayern e mai ha perso in Baviera, è la dimostrazione di come il calcio non sia soltanto tattica, ma anche coraggio, forza di volontà, capacità di gestire le situazioni più difficili e di dominare le tensioni del momento. Contano le gambe, ma conta la testa. E questa è un’Inter che arriva sull’orlo del burrone, ma fa cadere gli altri.

di Fabio Monti; CORRIERE DELLA SERA

Sventate anche le Idi di Marzo

Quando uno si chiama Giulio Cesare, dovrebbe fare sempre molta attenzione a queste giornate di fine inverno che i romani chiamavano le Idi di Marzo. Le coltellate a tradimento, storia alla mano, sono sempre dietro l’angolo. E infatti il Giulio Cesare brasiliano che è addetto alla custodia della porta interista, di coltellate a tradimento ne ha subìte due. O forse se l’è auto inflitte, una all’andata, una al ritorno, con altrettante papere tradottesi in gol-regalo al Bayern, facendo, però, sanguinare il cuore anche a tutto il popolo interista. Il destino di un portiere è spietato: è l’unico, di 11, a non poter sbagliare mai, perché nessuno mai potrà riparare ai suoi errori. Ed è anche l’unico che, confinato nella sua solitudine, è condannato a rimuginare i suoi peccati, mentre attorno a lui, tutti gli altri non hanno tempo di pensare ad altro che a star appresso al pallone. Che, come il mare, non si ferma mai.

Devono essere stati lunghi momenti d’inferno, per Julio Cesar: i suoi compagni, pur concedendo troppo in difesa al Bayern, stavano giocando un’ottima partita, senza ancora sapere che avrebbero costruito un’impresa. Ma su tutto continuavano a pesare le sue due papere, decisive quanto sconcertanti. La papera marchia a fuoco il portiere che la compie se, alla fine, decide il risultato. Nessuno avrebbe ricordato che, dopo, Julio aveva saputo sventare un paio di palle-gol da campione.

E invece, alla fine, è arrivata la rimonta-miracolo, che salva l’onore della detentrice della Coppa, l’immagine del calcio italiano e, insieme, il sistema nervoso del povero Julio che, ora, può voltar pagina, magari promettendo di non sottovalutare mai più, come all’ Allianz Arena, un pallone innocuo ma “tagliato” che ha finito con lo scivolargli goffamente via.
Anche l’aver saputo reagire a un colpo psicologico di quel genere, dopo un comprensibile sbandamento che ha consentito al Bayern il 2-1, rende straordinaria la vittoria interista a Monaco, già eccezionale del suo se solo un’altra volta nella storia si era qualificato ai quarti chi aveva perso l’andata in casa. Per l’ennesima volta il confronto Italia-Germania ci sorride.

di Massimo De Luca; CORRIERE DELLA SERA

Gipsy

Con le sue giocate di classe ha contribuito ad eliminare il Milan dalla Champions League, aiutando il Tottenham a conquistare una storica qualificazione ai quarti di finale. All'andata a San Siro ha sfiorato il gol con un morbidissimo pallonetto dal limite dell'area che ha entusiasmato gli appassionati di calcio. Tutti ammirano i suoi colpi di classe, ma pochi conoscono la sua curiosissima storia.

Rafael Van der Vaart, uno dei fantasisti più apprezzati d'Europa, ha trascorso i suoi primi anni di vita in un "caravan park" a Beverwijk, nord di Amsterdam. E' cresciuto in una roulotte, l'abitazione mobile sulla quale papà Roman è nato. E lì Van der Vaart senior ha continuato a vivere fino a farne la dimora famigliare dopo aver conosciuto Lolita, figlia di un emigrante spagnolo arrivata in Olanda a 6 anni, che diventerà sua moglie e metterà al mondo Rafa l'11 febbraio 1983. E' stato proprio questo campo, abitato da molte famiglie nomadi, a salutare i primi passi della carriera di Van der Vaart. Lì, tra una roulotte e l'altra, è stato notato dai tecnici della squadra locale, il De Kennemers, il settore giovanile dal quale l'Ajax lo ha prelevato ad appena 10 anni dopo un provino. E con la maglia dei 'Lancieri' è iniziata la scalata di Rafa al grande calcio: il debutto in prima squadra, l'onore di diventare il più giovane capitano nella storia dell'Ajax, la Nazionale olandese, l'Amburgo, il Real Madrid e l'estate scorsa il trasferimento a White Hart Lane. In mezzo anche il matrimonio con Sylvie Meis, spesso considerata la più bella tra le moglie dei calciatori.

Ma il contratto da professionista con l'Ajax, con i conseguenti primi guadagni da giocatore vero, ha permesso a Van der Vaart anche di compiere un gesto fuori dal campo: l'acquisto della prima casa nella vita della sua famiglia. Un'abitazione per papà Roman e mamma Lolita lontana dal campo di Beverwijk: "Era la prima volta che vivevano in una casa - ha raccontato il numero 11 degli Spurs - per questo era un po' strano". Il campione del Tottenham parla con orgoglio della sua vita "gipsy": "Tanti mi chiedono: "Ma non era strano vivere in quel modo?". Magari non era uno stile di vita normale, ma a me piaceva. E mi ha aiutato perché mi faceva sentire come un guerriero della strada. E ho imparato che bisogna lottare per conquistarsi il proprio spazio quando si cresce".

Anche Wesley Sneijder ha avuto un'infanzia simile in un quartiere difficile di Utrecht. E il numero 10 dell'Inter racconta storie simili a quelle del suo compagno di Nazionale. Entrambi aiutati dalla strada a diventare campioni. E, anno dopo anno, Rafa si è conquistato il suo spazio nel calcio europeo, proprio come aveva imparato da piccolo nel "caravan park" di Beverwijk.

di Stefano Scacchi; la Repubblica

La nuova strada di Leo

La telefonata di complimenti di Josè Mourinho è arrivata puntuale, venti minuti dopo la fine di Bayern-Inter: in fondo era attesa e nessuno si è stupito, dato che l'ombra dello Special incombe ancora, protettiva e paterna, sull'Inter tutta. Nessuna chiamata invece dall'utenza di Rafa Benitez, raccontano i tabulati e lo spogliatoio interista: e non è una sorpresa neppure questa. Del resto si sa che con Benitez non è sbocciato mai alcun rapporto, mentre con Mourinho il legame è rimasto saldissimo e prosegue da mesi, nonostante lo Special sia ormai a Madrid. Però, dopo l'impresa di Monaco, è anche giusto lasciare spazio alla prima volta di Leonardo. La grande vittoria interista all'Allianz Arena è anche la prima affermazione internazionale del suo allenatore. Lo scorso anno, da tecnico esordiente col Milan, Leonardo venne spazzato via agli ottavi dal Manchester United: 2-3 nell'andata a San Siro e tracollo a Old Trafford per 0-4. Ma a Monaco il vento è cambiato e l'allenatore brasiliano ci ha messo del suo.

Non è sempre stato impeccabile, Leonardo, in questi primi due mesi e mezzo alla guida dell'Inter. Alla sua intelligenza nel gestire a dovere lo spogliatoio dal punto di vista psicologico, a volte non ha fatto seguito la stessa lucidità nell'interpretazione delle partite: qualche sbavatura, nelle sostituzioni o nell'impostazione generale delle gare, si era vista, e le ultime le avevamo notate a Brescia, appena quattro giorni prima del trionfo in Baviera. Ma a Monaco Leonardo ha condotto la squadra con piglio sicuro e con razionalità. Non ha sbagliato nulla nella gestione della vigilia, caricando a dovere i giocatori e convincendoli che l'impresa era più che possibile. Ha indovinato la tattica e la strategia di gara: azzecato il modulo 4-2-3-1 col sacrificio di Sneijder a sinistra, giusto l'atteggiamento in campo, con l'Inter che ha mantenuto la barra a dritta per quasi tutta la gara. Con l'eccezione di quei terribili venti minuti finali del primo tempo, quando la squadra ha rischiato di affondare, i campioni d'Europa hanno giocato con tranquillità e sicurezza, aspettando i momenti giusti per colpire. Si tratta comunque di giocatori che dopo le vittorie dello scorso anno sono molto maturati e che a volte non sembrano aver bisogno di consigli e di suggerimenti, però è indubbio che il lavoro di Leonardo ci sia stato, e abbia pagato. Non solo sul piano psicologico, ma anche su quello squisitamente tattico e strategico. Così è maturata la vittoria di Monaco, che spinge l'Inter ai quarti di finale e la conferma come una sicura realtà del panorama europeo, anche se nei mesi scorsi un po' tutti avevamo dubitato della tenuta dei nerazzurri. Ma questo è un gruppo molto sicuro delle sue qualità, come conferma Leonardo che in apparenza non si prende meriti per il trionfo: "La bravura di questi giocatori sta nel fornire un rendimento altissimo nonostante il fatto che nell'ultimo anno ci sono stati tre allenatori diversi: Mourinho, Benitez e il sottoscritto. Moduli di gioco diversi, allenamenti diversi, strategie diverse. Eppure i giocatori rispondono sempre, alla perfezione. Che grande gruppo".

Poi è chiaro che nelle grandi imprese c'è sempre una componente di buona sorte che è necessaria, e l'Inter ne ha beneficiato senz'altro nel primo tempo della sfida di Monaco. Ma anche lo scorso anno Mourinho arrivò in porto grazie ad alcuni aiutini del Fato. Ora Leonardo, l'allenatore per caso (non voleva farlo, fu convinto a viva forza da Galliani due anni fa), prova a mettersi sulla scia del suo predecessore. Finora è stato bravo a continuarne il lavoro, accettandone consigli e suggerimenti. Ma l'impressione è che dalla serata di Monaco, il ragazzo abbia iniziato a camminare con le sue gambe.

di Andrea Sorrentino; la Repubblica

Bayern Monaco-INTER 2-3

Non so da dove iniziare, dunque finisco subito: grazie, ragazzi. Ancora una volta, come l'anno scorso verso il Bernabeu, ora verso Wembley, continuiamo a sognare...

sabato 12 marzo 2011

Brescia-INTER 1-1

Come all'andata, altri due punti persi contro una squadra tanto onesta quanto modesta.

mercoledì 9 marzo 2011

Forza Palestina

Con un po' di prosopopea, è stato battezzato "Faisal Al-Husseini International Stadium": in realtà è poco più di un campetto con erba artificiale in mezzo ai casermoni di cemento di Al-Ram, popoloso agglomerato arabo a due passi da Gerusalemme. Ma è qui che per la prima volta nella sua storia, la nazionale della Palestina gioca la sua prima partita valida per le qualificazioni per i Giochi Olimpici di Londra 2012.

Al-Husseini, l'uomo a cui è dedicato l'impianto, era un leader palestinese di Gerusalemme Est, fondatore dell'Unione generale degli studenti palestinesi, ed è passato più volte nelle carceri israeliani prima di diventare personaggio di spicco nelle trattative di pace. Morto nel 2001, è oggi considerato un eroe della patria da tutte le fazioni.

Già da questo particolare si capisce che l'evento di mercoledì non è soltanto sportivo e che i seimila posti dello stadio non basteranno a contenere tutti i tifosi: finora, qui si era giocata giusto qualche amichevole, mentre le partite 'vere' si andavano a disputare in Egitto o in Giordania, qualche volta perfino in Kuwait.

Ovvio quindi che le aspettative siano altissime.

Nella nazionale palestinese - che in casa gioca con maglia e pantaloncini rossi - l'asso è tale Ahmed Keshkesh, 26 anni, nato nella Striscia di Gaza, che gioca nel campionato giordano con l'Al-Weehdat di Amman: sa fare sia il trequartista sia la punta.

Accanto a lui in attacco c'è Fahed Attal, 25 anni, anche lui professionista in Giordania.

Molto atteso - ma ancora non si sa se sarà schierato - è Hisham Ali, diciannovenne ala sinistra che si sta facendo le ossa nelle giovanili del Malmö, in Svezia: per capirci, dove ha iniziato anche Ibrahimovic.

Il difensore centrale Omar Jarun gioca invece nella serie B polacca, con la maglia del Pogon Szczecin.

Ma i nomi più osannati allo stadio saranno probabilmente quelli di Tariq al Quto, Ayman Alkurd, Shadi Sbakhe e Wajeh Moshtahe: quattro giocatori del campionato palestinese morti in diverse circostanze, negli scorsi anni, durante scontri a fuoco con l'esercito israeliano.

Fra i giocatori della nazionale, del resto, non mancano i problemi: per allenarsi e per partecipare ai tornei hanno infatti bisogno di visti e permessi che spesso vengono negati dalle autorità di occupazione. Nel 2007, ad esempio, tutta la squadra decise di rinunciare a una trasferta a Singapore (decisiva per le qualificazioni ai Mondiali) perché era stato negato il visto a due giocatori.

Tuttavia la partita di mercoledì al "Faisal Al-Husseini Stadium" è un segno d'apertura senza precedenti da parte del governo israeliano verso la giovane Federazione calcistica palestinese.

I 'rossi' dei Territori, che sono al 151° posto del ranking della Fifa, vengono da un pareggio e da una vittoria con il Pakistan: entrambe in trasferta, perché nei Territori non si poteva ancora giocare.

L'allenatore della Palestina, il tunisino Mukhtar Al Talili, sostiene che la sua squadra punterà molto «sulla maggior prestanza fisica» rispetto agli orientali. Il suo collega thai, Kasem Jariyawatwong, ammette di essere «un po' preoccupato perché i palestinesi si preparano da mesi a questa sfida», ma aggiunge che i suoi giocatori «sono tecnicamente molto più forti».

All'andata vinsero i Thailandesi 1-0, ma si giocava a Bangkok. A poche centinaia di metro dalle mura di Gerusalemme, le emozioni saranno diverse.

di Adriano Botta; l'Espresso

Sta arrivando

C'è un uomo solo all'inseguimento. La sua maglia è nerazzurra, la sua pelle è scura, il suo nome è Samuel Eto'o. Domenica scorsa ha segnato due reti, avviato con passaggi smarcanti le azioni per altre due. Ha fatto l'inchino a Nagatomo per la quinta, segnalato all'arbitro (quando ancora il risultato era in ballo) che non aveva subito fallo da rigore. Ha devastato la difesa del Genoa, fin qui tra le migliori. Questo, in un pomeriggio. Nel resto della stagione ha fatto gol a catena, difeso Benitez, esaltato Leonardo. Ha eseguito una danza con i sacchetti di plastica sul tetto del mondo. Ha fatto dimenticare Milito, illuminato Pazzini, cercato (e ritrovato) Sneijder. Ha provocato la prima sospensione di una partita per cori razzisti. Ha allacciato le scarpe al portiere del Brescia. Ha tenuto insieme lo spogliatoio, di cui è il leader silenzioso e si dice che, una volta, l'abbia pure ripulito. Stavano avviando le pratiche di beatificazione quando ha dato una testata a Cesar del Chievo, come già due anni prima a un giornalista spagnolo.

È incontenibile, nel bene e nel male. Quando il campionato sarà finito e dovremo scegliere l'uomo dell'anno è già evidente che sarà una partita a due. Questo torneo è in realtà un duello. È la resa dei conti tra due centravanti scaricati dal Barcellona e rinati a Milano. Eto'o contro Ibra: il vincitore si prende tutto. L'interista ha cinquanta milioni di ragioni per uccidere l'altro. È l'estate del 2009. Eto'o accarezza bambini e ricordi.
È una macchina da gol e da figli. Ne ha tre dalla moglie. Una da una ragazza sarda, faticosamente riconosciuta: di qui gli attacchi quando giocherà a Cagliari. Ogni tanto gliene attribuiscono uno nuovo. L'accusa avrà titoloni ("Se non abortisci ti decapito", gli fanno dire), la smentita sarà un colonnino. Non parlerà più con i giornalisti. Guarda il cellulare e legge l'ennesimo sms di Materazzi: "Vieni da noi, spacchiamo il mondo". Eto'o l'ha appena fatto. Il "triplete" (scudetto, coppa di Spagna e Champions) ha la sua firma. Trenta reti in campionato, una (decisiva) nella finale a Roma contro il Manchester. Guardiola, appena arrivato, l'aveva messo nella lista degli indesiderati. Deportati di lusso: lui, Ronaldinho, Deco. Anche un genio può sbagliare, una volta su tre.

Ma gli dei non lo puniscono. A Guardiola, liberatosi degli altri due, Eto'o era rimasto tra i piedi. E gli aveva regalato la stagione migliore. Gol a raffica, grande intesa con Messi. Neppure uno di quegli infortuni che facevano precipitare a Barcellona parenti dal Camerun con stregoni al seguito. "Tieni le zampe di pollo per la mamma di Samuel", sentii dire in un locale accanto al mercato coperto. Eppur non basta. Guardiola ha un sogno e il suo presidente glielo compra: Ibra. Che prenda il posto di Eto'o ci può anche stare. Altrove, la vita continua: si schiudono altre porte, altre donne. L'offesa è il come. O meglio: il quanto. L'insulto è il conguaglio: 50 milioni di euro. La differenza tra Ibra e Eto'o viene fissata da quella cifra impossibile, un refuso di mercato. Eto'o più la Sampdoria (o l'Espanyol) = Ibra. Samuel fa le valigie. Ci mette dentro le magliette attillate e l'orgoglio ferito. La vendetta, come una partita, ha due tempi. Il primo è nella semifinale di Champions 2010. Pur di buttar fuori il Barcellona, nell'Inter decimata Eto'o gioca un'ora da terzino. Come una rockstar stanca di groupies scopre l'impegno. Compie sacrifici invocando la nemesi.

Tu guarda: diventa il primo nella storia a conquistare due "triplete" consecutivi con due maglie diverse. E Ibra? Lascia Barcellona umiliato e offeso, maledicendo Guardiola. E finisce a Milano, sponda rossonera. A questo punto del western non c'è più spazio per i comprimari. Nel secondo tempo gli attori non protagonisti lasciano la scena. Con tutto il rispetto per Pato e Robinho, Pazzini e Sneijder, gli oscar minori sono già stati assegnati. Ora tocca ai grandi, attenti quei due. Il vincitore è... Un mese di tempo per saperlo.

Eto'o continua la rincorsa. Si era caricato l'Inter in spalla quando non era più una squadra, adesso corre più leggero. Si è comprato una casa di mille metri quadri all'ultimo piano di un palazzo in via Turati, davanti alla sede del Milan. Ha invaso il garage di auto: ultimo il fuoristrada con cui s'è fatto multare dalla vigilessa Massimiliana Pinto (per questo elogiata dal sindaco Moratti a cui l'adempimento del dovere fa impressione). Non ultima la Bentley che gli hanno rubato mentre era in prestito ad Arnautovic. Ma è sul tetto che lui si apposta. Da lì ha la visione migliore. Ha visto Ibra arrivare per firmare, indossare la nuova maglia, lanciare proclami. Lo aspetta, lo ha nel mirino, ancora cinque passi e ci siamo, l'avrà preso. In classifica marcatori è avanti di tre gol. Al fantacalcio, tra assist e pagelle, vale di più. Nel derby d'andata ha subito. Ogni viaggio ha un ritorno. Lo ha già sognato, immaginato, preparato. Cinquanta milioni di volte.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

martedì 1 marzo 2011

Purtroppo

Il mondo è pieno di Zamparini, di Rossi non ce ne saranno mai abbastanza.

El Topo

Una sera d'autunno, a fine allenamento, il nuovo allenatore Guidolin lo prese sottobraccio e se lo portò a cena a casa sua. Il menù era castigato, la conversazione sgasata finché, alla frutta, il padrone di casa disse: "Tu diventerai il nuovo Kakà". Boom! Il tappo come un proiettile. Fuochi artificiali nella notte friulana. Nasceva, doveva nascere, una stella. Alexis Sanchez, 8 gol in due stagioni, molti dribbling e poca concretezza, un passato leggendario e un presente ordinario. "Ti cambio ruolo, ti cambio vita", disse Guidolin. Non aveva la faccia da profeta. Eppure.

Sanchez si porta dietro un carico di epopea. È nato, appena 22 anni fa, nella cittadina di Tocopilla. La stessa dove, molti anni prima, si era manifestato al mondo Alejandro Jodorowsky, psicomago, autore eclettico e lisergico, regista di "El Topo", film cult inclassificabile. El Topo Sanchez, un metro e settanta di tritolo, ne condivide la carica eversiva e la difficoltà a farsi incasellare. Da ragazzino debuttò col botto: in una partita del primo campionato segnò otto gol, inducendo il sindaco a regalargli le sue scarpe da calcio. Vennero da tutto il mondo a vederlo giocare, lo prese l'Udinese. Lo pagò due milioni di euro che a giugno prossimo, di questo passo, si tramuteranno in trenta.

Per farlo maturare lo lasciò al Colo Colo, ovvero a bagnomaria nell'epica. È la squadra mito del Cile. Prende il nome dal capo guerrigliero mapuche che combatté gli spagnoli senza mai una sconfitta. È nata da una scissione storica. Il suo fondatore, David Arellano, morì a 25 anni di peritonite dopo uno scontro con un avversario spagnolo. Lutto permanente sulle maglie e nello stadio. Retorica immanente nel motto: "D'orgoglioso sangue e nobile cuore, Colo Colo eterno campione". Al cospetto di cotanta storia El Topo Sanchez segnò cinque gol. Poi andò in Argentina, al River Plate. Nel 2008 all'Udinese, finalmente. Il primo anno non incantò. Qualcuno mise in giro la voce che i video su You Tube, in cui faceva la veronica e l'aurelio, erano taroccati. Il secondo anno s'infortunò quasi subito e perse il girone d'andata. Nel ritorno mostrò qualche psicomagia, ma bazzicava al largo, lui da una parte, Pepe dall'altra e Di Natale in mezzo.

"Tu non sei un'ala - gli disse Guidolin - sei un trequartista, giochi dietro la prima punta, farai assist e gol". Sanchez disse: "Sì, va bene". È un ragazzo di poche parole e poche storie. Tornò a casa, dove vive da solo. Ci è abituato da quando aveva 16 anni. Pellegrino del calcio, non si porta dietro nessuno. I genitori hanno altri tre figli, la mamma lo raggiunge una volta l'anno. Il padre telefona. Quando lui torna in Cile è per giocare in nazionale. Fa tutto da sé, come talora gli accade in campo. Non ha domestica: cucina e fa le pulizie. Potrebbe sembrare un immigrato qualsiasi, di quelli che si radunano al campetto la domenica pomeriggio, svuotano casse di birra, creano due squadre improvvisate e si sfidano con il sottofondo di musica latina. Ma il suo campo è in uno stadio di serie A, per non dire che ha giocato ai Mondiali. Ricordo un cronista sudafricano chiedersi scorrendo la formazione cilena: "Che ci fanno tutti questi nell'Udinese?". Sono di passaggio, lui e Isla sicuramente, li aspetta qualche squadra scudetto, italiana o inglese.

Da ieri c'è un nuovo video del Topo Sanchez su You Tube e non è taroccato. Poker di gol, repertorio completo (o quasi, che segni di testa non si può pretendere). Ne fa uno da psicomago e uno da tamarro. Nel primo c'è tutta la letale ferocia degli schemi di Guidolin. Palla recuperata in difesa, ripartenza innescata a memoria. Lancio sulla fascia destra a Di Natale che non guarda neppure mentre fa proseguire di sponda in avanti e al centro: sa già che cosa sta succedendo, sta arrivando Sanchez, alla velocità di uno spirito. Fende l'aria con l'aerodinamica crestina di capelli impomatati, gonfia il torace mostrato sul sito "Pettorali famosi", corre come si vede solo nei cartoni animati. Nella testa gli detta i movimenti un sergente folle: passo, passo, doppio passo, tiro, gol. Lascia seduto il portiere superandolo con quelle due umilianti pedalate di bicicletta. Sulla riga di porta il difensore allarga le braccia.

Quand'è troppo è Sanchez. L'ultimo gol è l'opposto. Non c'è classe e non c'è inganno. Va lungo, perde il tempo, ritrova la palla soltanto per l'ignavia disperata degli avversari. Vede uno spiraglio e ce la infila. Di punta. Una scarpata da cortile. Una cosa come il "piattone", proibita sui grandi schermi, vietata ai maggiori di anni 18. Ma proprio questo è il segreto dell'esplosione del Topo Sanchez: gioca come a 15 anni, quando ne faceva 8 e gli regalavano le chiavi della città sotto forma di scarpini. Guidolin l'ha riportato nello stesso ruolo, gli ha ridato la stessa allegria. Manchester o Milano sono un esame di maturità lontano: per adesso è un ragazzino che bigia la scuola e, felice, fa quel che gli pare.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica