domenica 25 dicembre 2011
Simulatore
L’«ufficio» di Fernando Alonso e Felipe Massa a Maranello è una cabina nera che sembra uscita da un film di alieni e oscilla su sei bracci telescopici. Si chiama simulatore di guida: un sistema che sta ai videogiochi come una Formula 1 a un’utilitaria. Oggi che i test in pista sono proibiti, è qui che i piloti si allenano, sviluppano la vettura e la preparano per i gran premi. La Ferrari per la prima volta l’ha fatto provare a quattro giornalisti dopo una selezione sul simulatore statico della pista di Fiorano. Il mio tempo sul circuito virtuale è 1’08’’, quello di riferimento del collaudatore Andrea Bertolini 59’’. Promosso all’«astronave».
L’ingresso avviene attraverso una botola. L’ingegnere mi consegna il casco, mi fissa le cinture di sicurezza e mi dà le istruzioni base: «Le gomme sono già calde, per frenare dai un pestone forte al pedale, ma non rallentare troppo sennò il motore stalla. E non toccare i pulsanti sul volante: non hai il tempo per capire come funzionano». Suggerimento superfluo: non mi sarei mai sognato di complicare una situazione già così complessa. Il test può cominciare: la stanza, grande come mezzo campo da tennis, è buia. Le uniche luci, oltre al maxischermo a 180 gradi che mi spalanca davanti la pista, sono i led sul volante. Un impianto home cinema fa vibrare il motore otto cilindri virtuale. Partenza lanciata, curva stretta e lungo rettilineo dove è un piacere cambiare fino alla settima. A 150 metri da un tornante, lanciato a 300 chilometri orari, mi sembra una buona idea frenare. Non lo è: premo il pedale sinistro (serve una pressione di 100 chili) e a 50 metri dalla curva mi ritrovo quasi fermo e con il motore spento. La voce paziente dell’ingegnere via radio mi avvisa: «Ricominciamo». Ricominciamo: curva stretta, rettilineo, frenata meno brusca e... prato, testacoda, la pista scomparsa, l’abitacolo che trema. L’unica notizia consolante è che il motore è rimasto acceso. «Bisogna frenare forte quando la velocità è elevata e diminuire la pressione sul pedale quando si rallenta e il carico aerodinamico diminuisce», mi spiegheranno poi davanti ai risultati della telemetria. L’esatto contrario di quanto si insegnava a scuola guida prima che venisse inventato l’abs.
Ritrovato l’asfalto, cerco di domare questo mostro imbizzarrito che a ogni accelerata minaccia di sbandare e a ogni frenata di spegnersi. Il movimento della cabina non si avverte: il mio cervello è convinto di essere su una monoposto vera. La difficoltà successiva è il tratto in salita sul ponte: la pista non si vede, perché la posizione di guida è infossata. Casualmente scelgo il punto giusto di staccata, ma mi domando come faccia un pilota in gara ad avere i punti di riferimento. Mi racconteranno della tecnica usata da Mika Hakkinen: un’ora prima del via si chiudeva in una stanza buia e ripassava mentalmente il percorso. Proseguo senza grossi problemi, anche se l’alta velocità è una roba differente. L’esperienza dura tre giri, il migliore in 1’20’’. L’unica consolazione, quando scendo, è non avere problemi di stomaco. «Raikkonen al simulatore si sentiva male» è la frase più incoraggiante che riescono a dirmi i tecnici al muretto. Già, però lui è Kimi Raikkonen.
L’ingresso avviene attraverso una botola. L’ingegnere mi consegna il casco, mi fissa le cinture di sicurezza e mi dà le istruzioni base: «Le gomme sono già calde, per frenare dai un pestone forte al pedale, ma non rallentare troppo sennò il motore stalla. E non toccare i pulsanti sul volante: non hai il tempo per capire come funzionano». Suggerimento superfluo: non mi sarei mai sognato di complicare una situazione già così complessa. Il test può cominciare: la stanza, grande come mezzo campo da tennis, è buia. Le uniche luci, oltre al maxischermo a 180 gradi che mi spalanca davanti la pista, sono i led sul volante. Un impianto home cinema fa vibrare il motore otto cilindri virtuale. Partenza lanciata, curva stretta e lungo rettilineo dove è un piacere cambiare fino alla settima. A 150 metri da un tornante, lanciato a 300 chilometri orari, mi sembra una buona idea frenare. Non lo è: premo il pedale sinistro (serve una pressione di 100 chili) e a 50 metri dalla curva mi ritrovo quasi fermo e con il motore spento. La voce paziente dell’ingegnere via radio mi avvisa: «Ricominciamo». Ricominciamo: curva stretta, rettilineo, frenata meno brusca e... prato, testacoda, la pista scomparsa, l’abitacolo che trema. L’unica notizia consolante è che il motore è rimasto acceso. «Bisogna frenare forte quando la velocità è elevata e diminuire la pressione sul pedale quando si rallenta e il carico aerodinamico diminuisce», mi spiegheranno poi davanti ai risultati della telemetria. L’esatto contrario di quanto si insegnava a scuola guida prima che venisse inventato l’abs.
Ritrovato l’asfalto, cerco di domare questo mostro imbizzarrito che a ogni accelerata minaccia di sbandare e a ogni frenata di spegnersi. Il movimento della cabina non si avverte: il mio cervello è convinto di essere su una monoposto vera. La difficoltà successiva è il tratto in salita sul ponte: la pista non si vede, perché la posizione di guida è infossata. Casualmente scelgo il punto giusto di staccata, ma mi domando come faccia un pilota in gara ad avere i punti di riferimento. Mi racconteranno della tecnica usata da Mika Hakkinen: un’ora prima del via si chiudeva in una stanza buia e ripassava mentalmente il percorso. Proseguo senza grossi problemi, anche se l’alta velocità è una roba differente. L’esperienza dura tre giri, il migliore in 1’20’’. L’unica consolazione, quando scendo, è non avere problemi di stomaco. «Raikkonen al simulatore si sentiva male» è la frase più incoraggiante che riescono a dirmi i tecnici al muretto. Già, però lui è Kimi Raikkonen.
di Stefano Mancini; LA STAMPA
INTER-Lecce 4-1
Segnano un po' tutti: si sblocca Milito, Pazzini dedica il gol al figlio appena nato, Cambiasso entrando dalla panchina e un ottimo Alvarez. Il povero Forlàn becca due pali.
venerdì 16 dicembre 2011
O.M.
Per carità, non ci si può lamentare di trovarsi il Marsiglia negli ottavi di Champion, ma peggio non poteva andare considerando le altre possibilità.
martedì 13 dicembre 2011
Genoa-INTER 0-1
Ora la classifica inizia a farsi guardare. Continuiamo così e sarà sempre più bella.
Ancora in rete Yuto con un colpo di testa su assist si un più che discreto Ricky Alvarez che ha preso anche un palo su uno splendido tiro dai 30 metri. Buona la prima di Poli, anche se relegato sulla fascia sinistra e ottimo il rientro del Cacha Forlàn.
Tavolo della pace
Weilà, domani 14 dicembre 2011 c'è una grande festa: Moratti porta il panettone, Agnelli lo spumantino.
lunedì 12 dicembre 2011
INTER-Fiorentina 2-0
Una vittoria rassicurante, anche se contro un avversario piuttosto sommesso.
E martedì c'è il recupero contro il Genoa. Vincere, vincere, vincere per salire in classifica.
venerdì 9 dicembre 2011
City of Manchester
Dei novanta minuti che hanno sepolto Manchester tre finali con una vittoria nelle ultime quattro Champions League per lo United, 326 milioni di sterline investite in tre anni di mercato dal City - rimangono due fotografie. La prima, Basilea. È lo scatto di un ragazzo goffo a due metri dalla porta. La palla gli rimbalza davanti e il ragazzo la deve solo spingere dentro. Invece calpesta il fango e la liscia come un dopolavorista. Lui è Wayne Rooney, il simbolo del tutto e del niente dell’incompleta macchina da guerra di Sir Alex Ferguson, un quarto di secolo di panchina con i Diavoli Rossi e solo tre volte fuori dal G-16 del pallone negli ultimi diciassette anni. Rooney fa una smorfia dolorosa e ha lo sguardo fisso, come se avesse gli occhi di una statua di terracotta. Nei tabloid del Regno Unito la didascalia che racconta la scena è un virgolettato virtuale, un fumetto che gli esce dalla testa: «Davvero sono io, siamo noi, questi qui?». Non è l’immagine di una sconfitta, ma di una ritirata, della rinuncia alla grandezza di un tempo.
La seconda, Etihad Stadium. È un primo piano di Adam Johnson. C’è stupore anche sul suo volto e lui sembra portarsi addosso la stanchezza involontaria di chi è condannato a un’insonnia perenne per un errore che non riesce a perdonarsi. Johnson fa un segno con le mani: 2-0. Non parla dei gol che i suoi compagni hanno segnato al Bayern, ma delle reti di quel Napoli piuttosto favoloso che li sta buttando fuori dal loro sogno. Scansatevi, tocca a noi. Anche questa non è l’immagine di una sconfitta. Di uno spreco, piuttosto. E così, anche se una città intera è costretta a farsi da parte, la prospettiva non è la stessa. Ognuno si aggrappa a quello che ha, sir Alex Ferguson il passato, Roberto Mancini il futuro. Basta ascoltare le parole dei loro giocatori per capire.
Patrice Evra, allo United dal 2006, dice: «È una vera catastrofe. Siamo tristi, è imbarazzante giocare in Europa League. Ma abbiamo meritato di uscire». Come se il nuovo progetto fosse precipitato prima di iniziare. Finita l’era di Paul Scholes doveva arrivare Sneijder, oppure Nasri. Invece l’americano Malcolm Glazer, schiacciato dagli interessi che deve ogni anno alle banche per un club dal valore di un miliardo e mezzo di dollari che nel 2005 ha deciso di comprare a rate, ha guardato Ferguson e gli ha detto: «Linea verde». Sir Alex si è adeguato. Ha preso De Gea in porta al posto di Van der Sar e ha dato spazio a Smalling in difesa. Proprio i due che in Svizzera l’hanno tradito. Anche Roy Keane, che era uno dei suoi avvelenati ragazzi, forse il più cattivo, ha provato a dirlo ai microfoni di ITV: «Lo United è fuori perché lo merita». Il Vecchio Maestro si è risentito. Convinto che il mondo possa essere guardato da un punto di vista oggettivo e di essere lui la persona giusta per farlo ha replicato rinfacciando a Keane i suoi fallimenti da allenatore: «Mi stupisce che Roy parli. Lui c’è stato in panchina e si è accorto di quanto è complicato. I nostri ragazzi stanno crescendo. Sarà come è sempre stato. Torneremo grandi. È la storia che lo dice». Ha voltato le spalle ed è andato via snobbando i giornalisti che gli chiedevano: «Scusa Fergie, non credi che sia arrivata l’ora di passare il testimone?». Fesserie. Per lui la vita senza il pallone sarebbe un errore. Eppure in campionato non domina più, in città è la seconda squadra, l’Europa lo ha espulso e neppure la società se la passa troppo bene. «Ci hanno dati per morti tante volte».
Vincent Kompany, il capitano del City, dice cose diverse. «Siamo fuori, è doloroso. Ma ora vinciamo quello che resta da vincere. Il campionato e l’Europa League». I soldi dello sceicco Mansour non hanno ancora portato i giocatori del City sullo stesso pianerottolo del Barcellona, ma li hanno fatti sentire sullo stesso ascensore, un gruppo in salita, una squadra che vende Tevez e compra Aguero e che se ha bisogno di un centrocampista va a prendere Nasri dall’Arsenal. Miglior attacco e miglior difesa del campionato. Anche se Jens Lehmann, tedesco ex portiere dei Gunners, giura che quelli del City sono solo «noiosi dilettanti. Hanno sempre la palla tra i piedi e non concludono nulla, mentre il Napoli ha cuore e passione». Mancini non gli risponde. «Nel 99% dei casi con dieci punti si passa. Il Napoli ne ha fatti undici, complimenti a loro. Una lezione che serve. La vita prosegue». Non importa se questa notte sembra una cupa sfilata di vinti che smentisce i progetti di gloria, c’è solo una metà di Manchester che ha paura del domani. E non è la sua.
La seconda, Etihad Stadium. È un primo piano di Adam Johnson. C’è stupore anche sul suo volto e lui sembra portarsi addosso la stanchezza involontaria di chi è condannato a un’insonnia perenne per un errore che non riesce a perdonarsi. Johnson fa un segno con le mani: 2-0. Non parla dei gol che i suoi compagni hanno segnato al Bayern, ma delle reti di quel Napoli piuttosto favoloso che li sta buttando fuori dal loro sogno. Scansatevi, tocca a noi. Anche questa non è l’immagine di una sconfitta. Di uno spreco, piuttosto. E così, anche se una città intera è costretta a farsi da parte, la prospettiva non è la stessa. Ognuno si aggrappa a quello che ha, sir Alex Ferguson il passato, Roberto Mancini il futuro. Basta ascoltare le parole dei loro giocatori per capire.
Patrice Evra, allo United dal 2006, dice: «È una vera catastrofe. Siamo tristi, è imbarazzante giocare in Europa League. Ma abbiamo meritato di uscire». Come se il nuovo progetto fosse precipitato prima di iniziare. Finita l’era di Paul Scholes doveva arrivare Sneijder, oppure Nasri. Invece l’americano Malcolm Glazer, schiacciato dagli interessi che deve ogni anno alle banche per un club dal valore di un miliardo e mezzo di dollari che nel 2005 ha deciso di comprare a rate, ha guardato Ferguson e gli ha detto: «Linea verde». Sir Alex si è adeguato. Ha preso De Gea in porta al posto di Van der Sar e ha dato spazio a Smalling in difesa. Proprio i due che in Svizzera l’hanno tradito. Anche Roy Keane, che era uno dei suoi avvelenati ragazzi, forse il più cattivo, ha provato a dirlo ai microfoni di ITV: «Lo United è fuori perché lo merita». Il Vecchio Maestro si è risentito. Convinto che il mondo possa essere guardato da un punto di vista oggettivo e di essere lui la persona giusta per farlo ha replicato rinfacciando a Keane i suoi fallimenti da allenatore: «Mi stupisce che Roy parli. Lui c’è stato in panchina e si è accorto di quanto è complicato. I nostri ragazzi stanno crescendo. Sarà come è sempre stato. Torneremo grandi. È la storia che lo dice». Ha voltato le spalle ed è andato via snobbando i giornalisti che gli chiedevano: «Scusa Fergie, non credi che sia arrivata l’ora di passare il testimone?». Fesserie. Per lui la vita senza il pallone sarebbe un errore. Eppure in campionato non domina più, in città è la seconda squadra, l’Europa lo ha espulso e neppure la società se la passa troppo bene. «Ci hanno dati per morti tante volte».
Vincent Kompany, il capitano del City, dice cose diverse. «Siamo fuori, è doloroso. Ma ora vinciamo quello che resta da vincere. Il campionato e l’Europa League». I soldi dello sceicco Mansour non hanno ancora portato i giocatori del City sullo stesso pianerottolo del Barcellona, ma li hanno fatti sentire sullo stesso ascensore, un gruppo in salita, una squadra che vende Tevez e compra Aguero e che se ha bisogno di un centrocampista va a prendere Nasri dall’Arsenal. Miglior attacco e miglior difesa del campionato. Anche se Jens Lehmann, tedesco ex portiere dei Gunners, giura che quelli del City sono solo «noiosi dilettanti. Hanno sempre la palla tra i piedi e non concludono nulla, mentre il Napoli ha cuore e passione». Mancini non gli risponde. «Nel 99% dei casi con dieci punti si passa. Il Napoli ne ha fatti undici, complimenti a loro. Una lezione che serve. La vita prosegue». Non importa se questa notte sembra una cupa sfilata di vinti che smentisce i progetti di gloria, c’è solo una metà di Manchester che ha paura del domani. E non è la sua.
di Andrea Malaguti; LA STAMPA
giovedì 8 dicembre 2011
Spaccanapoli
Battuto due reti a zero il Villareal e storica qualificazione agli ottavi
di Champion League ottenuta meritatamente.
Un applauso però anche alla sportività di Roberto Mancini,
allenatore del Manchester City.
lunedì 5 dicembre 2011
La prima volta del Capitano
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgg4sBm_BZdwk7-37aeNqoZ0LrL8w_MDS5c7ydcd7g1y_tQ3fnXDAAPCcUuv-joABLlZTjSNAgF4gB2RFAjW6zQvauzdK3XlUraA1iTmjzV4tbM1H5ocyS5nt1PzoMt-t1J7AYJQi9GrgBa/s320/javier_zanetti_espulso_getty.jpg)
Questa è la prima volta del cartellino rosso: Javier Zanetti è dal 1995 all’ Inter, prima di Mancini, prima di Mourinho, prima degli scudetti ritrovati (e anche trovati, come quello del 2006) e in campionato non gli era mai successo.
Accadde a San Siro, la sera del 3 dicembre, giorno compleanno di un fatterello che ha cambiato la vita di noi tutti: il 3 dicembre 1992 venne inviato il primo sms della storia con scritto semplicemente “Merry Christmas”. Ora la data sarà ricordata anche per la prima espulsione di Javier Zanetti che magari non avrà compagnia fino al ritiro e resterà unica. Il capitano ha appena festeggiato la sua gloria di bandiera stampando un libro che si riferisce alla sua alta fedeltà e al traguardo già superato delle 757 partite.
Per rendere meno amara la giornata Julio Cesar parava il conseguente rigore che Di Natale, che aveva già ispirato il gol poi vincente di Isla, sbagliava. Rovesciamento di fronte e rigore per l’Inter. Il portiere dell’Udinese prima in classifica pro tempore non doveva fare nulla: faceva tutto Pazzini scivolando sul dischetto e mandando il pallone, come fosse un vecchio Shuttle, in direzione Luna. E’ il calcio, bellezza.
di Piero Mei; Il Messaggero
domenica 4 dicembre 2011
venerdì 2 dicembre 2011
Raffaele Rubino
Già il primo gol aveva l'oro in bocca. Un calcio di rigore, trasformato a Valenza, la città degli orafi, il 16 settembre 2001, era il presagio di qualcosa di aureo. Dieci anni e due mesi dopo, Raffaele Rubino ha finito di cesellare quel gioiello diventando il primo giocatore nella storia del calcio italiano a segnare almeno un gol in tutte le serie professionistiche con la stessa maglia. Dalla Valenzana al Parma: 76 reti con il Novara dalla Serie C2 (allora si chiamava ancora così) alla A. I primi centri con Castelnuovo, Montevarchi, Meda, Biellese e Rondinella; poi 52 reti in C1 e 6 in B fino al colpo di testa da primato sabato scorso contro i gialloblu del suo idolo personale Hernan Crespo, entrato nel finale per cercare di raddrizzare il 2-1 per i piemontesi.
In mezzo un decennio da bandiera itinerante. Arrivato nel 2001 a 23 anni, su intuizione dell'allora ds Sergio Borgo - un dirigente che andava in panchina solo con una camicia dalle maniche rimboccate anche in pieno inverno, da calciatore campione d'Italia con la Lazio di Tommaso Maestrelli - ha iniziato a fare coppia con Massimiliano Palombo. E il genio della coppia pareva Palombo, romano dalla battuta facile ("A Totti è andata bene che non mi sono impegnato davvero, altrimenti là davanti nella Roma avrei giocato io") che ha deciso di rimanere a vivere a Novara a carriera finita, aprendo un locale che vende piadine in centro. E si è fermato a Novara anche Emiliano Bigica, l'ex centrocampista della Fiorentina e dell'Under 21, che
In mezzo un decennio da bandiera itinerante. Arrivato nel 2001 a 23 anni, su intuizione dell'allora ds Sergio Borgo - un dirigente che andava in panchina solo con una camicia dalle maniche rimboccate anche in pieno inverno, da calciatore campione d'Italia con la Lazio di Tommaso Maestrelli - ha iniziato a fare coppia con Massimiliano Palombo. E il genio della coppia pareva Palombo, romano dalla battuta facile ("A Totti è andata bene che non mi sono impegnato davvero, altrimenti là davanti nella Roma avrei giocato io") che ha deciso di rimanere a vivere a Novara a carriera finita, aprendo un locale che vende piadine in centro. E si è fermato a Novara anche Emiliano Bigica, l'ex centrocampista della Fiorentina e dell'Under 21, che
in comune con Rubino non ha solo la città di nascita (Bari) e una stagione nel Novara (2005-06), ma anche la storia famigliare: nel 2005 il centravanti-bandiera ha sposato Giulia, sorella di Lisa, la moglie dell'ex centrocampista.
Mentre Palombo, Bigica e tanti altri gli passavano a fianco e smettevano, Rubino andava e veniva: il Siena, il Torino, la Salernitana e il Perugia. I tifosi del Novara lo seguivano come un loro ambasciatore nel grande calcio: la squadra annaspava nelle categorie minori, ma pareva che Raffaele segnasse anche per loro nel pallone che conta. Quasi fosse stato mandato in avanscoperta per studiare quello che sarebbe successo più avanti. Perché poi nel 2007 l'attaccante pugliese è tornato per la scalata definitiva: prima la B e poi la A. E, anche se altri erano titolari al posto suo, per tutti il capitano è rimasto sempre e solo lui. Alle feste dei club, alle serate delle associazioni o dei circoli, alle cene degli appassionati era sempre il primo della rosa a essere invitato. E lui - una passione per le moto tenuta a freno per esigenze calcistiche - ricambiava promettendo che avrebbe concluso la carriera a Novara, continuando a lottare per guadagnarsi scampoli di partita.
Fino alla serata dell'apoteosi sabato scorso. Il suo colpo di testa alle spalle di Mirante è stato un segnale che è andato al di là di un gol in una partita di Serie A. Tutta la panchina è schizzata in campo per abbraccialo. Lui ha indossato una maglietta bianca con una scritta raffazzonata, "record", ed è scoppiato a piangere. A portare la casacca, che ha dato il via ai festeggiamenti, è stato il medico sociale del Novara, Giorgio Fortina, la terza generazione di una famiglia che da mezzo secolo si prende cura della salute dei calciatori azzurri: prima il nonno Giuseppe, poi il papà Giacomo che ora siede nel cda del club. Le storie del calcio di provincia sono così: passioni che si tramandano di padre in figlio intrecciate alla carriera di bomber, nati dall'altra parte d'Italia, che trovano il loro paradiso impossibile da lasciare quasi 1.000 chilometri più a nord.
"Dottore, preparami un'altra maglietta", aveva detto Rubino qualche giorno prima, dopo aver saputo che avrebbe giocato a Marassi col Genoa. Era successa la stessa cosa anche l'anno scorso in B quando aveva iniziato ad approssimarsi il gol numero 70 col Novara: obiettivo centrato con una doppietta al Crotone che costrinse Giorgio Fortina e i massaggiatori a fare gli straordinari coreografici correggendo al volo il 70 in 71 con lo scotch sulla maglietta celebrativa tra una rete e l'altra. Chissà se Crespo, ancora seduto tra le riserve, ha capito quello che stava succedendo dall'altra parte del campo. Di sicuro l'ha capito Tommaso, il figlio di Rubino, che ha già un debole per il pallone e sabato sera era il più felice di tutti. Magari tra un po' toccherà a lui segnare un gol sul prato sintetico del Silvio Piola. Perché ormai Raffaele Rubino non ha più nessuna voglia di lasciare Novara, come Palombo, Bigica e tutti quelli che lo hanno accompagnato da Valenza Po alla Serie A.
Mentre Palombo, Bigica e tanti altri gli passavano a fianco e smettevano, Rubino andava e veniva: il Siena, il Torino, la Salernitana e il Perugia. I tifosi del Novara lo seguivano come un loro ambasciatore nel grande calcio: la squadra annaspava nelle categorie minori, ma pareva che Raffaele segnasse anche per loro nel pallone che conta. Quasi fosse stato mandato in avanscoperta per studiare quello che sarebbe successo più avanti. Perché poi nel 2007 l'attaccante pugliese è tornato per la scalata definitiva: prima la B e poi la A. E, anche se altri erano titolari al posto suo, per tutti il capitano è rimasto sempre e solo lui. Alle feste dei club, alle serate delle associazioni o dei circoli, alle cene degli appassionati era sempre il primo della rosa a essere invitato. E lui - una passione per le moto tenuta a freno per esigenze calcistiche - ricambiava promettendo che avrebbe concluso la carriera a Novara, continuando a lottare per guadagnarsi scampoli di partita.
Fino alla serata dell'apoteosi sabato scorso. Il suo colpo di testa alle spalle di Mirante è stato un segnale che è andato al di là di un gol in una partita di Serie A. Tutta la panchina è schizzata in campo per abbraccialo. Lui ha indossato una maglietta bianca con una scritta raffazzonata, "record", ed è scoppiato a piangere. A portare la casacca, che ha dato il via ai festeggiamenti, è stato il medico sociale del Novara, Giorgio Fortina, la terza generazione di una famiglia che da mezzo secolo si prende cura della salute dei calciatori azzurri: prima il nonno Giuseppe, poi il papà Giacomo che ora siede nel cda del club. Le storie del calcio di provincia sono così: passioni che si tramandano di padre in figlio intrecciate alla carriera di bomber, nati dall'altra parte d'Italia, che trovano il loro paradiso impossibile da lasciare quasi 1.000 chilometri più a nord.
"Dottore, preparami un'altra maglietta", aveva detto Rubino qualche giorno prima, dopo aver saputo che avrebbe giocato a Marassi col Genoa. Era successa la stessa cosa anche l'anno scorso in B quando aveva iniziato ad approssimarsi il gol numero 70 col Novara: obiettivo centrato con una doppietta al Crotone che costrinse Giorgio Fortina e i massaggiatori a fare gli straordinari coreografici correggendo al volo il 70 in 71 con lo scotch sulla maglietta celebrativa tra una rete e l'altra. Chissà se Crespo, ancora seduto tra le riserve, ha capito quello che stava succedendo dall'altra parte del campo. Di sicuro l'ha capito Tommaso, il figlio di Rubino, che ha già un debole per il pallone e sabato sera era il più felice di tutti. Magari tra un po' toccherà a lui segnare un gol sul prato sintetico del Silvio Piola. Perché ormai Raffaele Rubino non ha più nessuna voglia di lasciare Novara, come Palombo, Bigica e tutti quelli che lo hanno accompagnato da Valenza Po alla Serie A.
di Stefano Scacchi; la Repubblica
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