venerdì 31 dicembre 2010

Retrospettive (II)

FERRI MARIO
(rappresentante di bevanda energetica, in arte Falco)
La sua arte, diciamo così, è quella di invadere i campi di calcio, che giochi la nazionale o squadre di club. Sponsorizzato da un bar pescarese, a volte si maschera da Superman, spesso perora la causa di Cassano, una volta (in Real-Milan) quella di Sakineh. Ad Abu Dhabi gli è andata male. Carcere, tentativo di evasione, ripreso in fondo a una nave, messo in ceppi e rimesso in libertà lunedì scorso. In Italia è stato arrestato all'arrivo perché si è sottratto all'obbligo di firma dopo ripetute invasioni. Fa già parte del team di Lele Mora, studia recitazione (questa è una minaccia), non è pericoloso se non per se stesso. Mi sa che non ce ne libereremo tanto facilmente. Voto 3 di incoraggiamento.

FUENTES EUFEMIANO
(ginecologo spagnolo, anche noto come Doctor Sangre)
Dice, non dice, allude, si ritrae, tende a far pensare che dietro molte vittorie dello sport spagnolo (calcio incluso) vi siano sacche d'ombra, o di sangue. Un brillante cialtrone. Voto 1.

GARRONE RICCARDO
(presidente Sampdoria)
Nel caso-Cassano ci rimette anche dei soldi, ma non la faccia, e dimostra che il perdono non si compra e non si impone a furor di popolo. Bravo a tenere duro: 9.

GINNASTICA RITMICA
(squadra nazionale)
Vincere l'oro a Mosca nel concorso generale è un po' come vincere a calcio al Maracanà giocando in nove. Contro un esercizio perfetto nemmeno una giuria malevola (come fu quella di Pechino) può mettersi di traverso. Voto 10.

GRANDE FRATELLO
(trasmissione televisiva)
Non peggiora il voto dell'anno scorso: -15.

GUARDIOLA PEP
(allenatore Barcellona)
Imminente il rinnovo del contratto. Altrove il suo calcio è impensabile e forse irrealizzabile. 8,5 di stima.

IBRAHIMOVIC ZLATAN
(calciatore)
A prescindere dalla simpatia che ispira, dove va lui arriva lo scudetto e il gioco si semplifica. Sempre che poi non torni a complicarsi per acquisti azzardati. Voto 8.

IDEM JOSEFA
(canoista)
Medaglia nel '84 a Los Angeles, medaglia nel 2008 a Pechino, e in mezzo un'infinità di altre medaglie italiane, europee, mondiali, olimpiche. Ora nel mirino c'è Londra 2012. Sarebbe un miracolo agonistico, alla sua età, ma ai miracoli questa donna ci ha abituato. Voto 9,5.

INIESTA ANDRES
(calciatore)
Un anno fa gli consegnavo il mio Pallone d'oro personale. Ora che gli tocca quello vero (così pare, almeno) gli invento su misura un Premio Cartesio e gli confermo il 9.

INTERCITY 1589
(treno)
Parte alle 7.05 del 24 dicembre da Milano per Reggio Calabria. Non c'è una toilette agibile. Colpa degli utenti, dice il capotreno. Colpa un po' di tutti, aggiungerei, e comunque la sosta per pisciare, la prima, è alle porte di Roma. Episodio assurdo, come quello delle auto fatte entrare in autostrada pur sapendo che finiranno in una gola paurosa, interminabile. Pubblicità regresso, voto -10.

INZAGHI FILIPPO
(calciatore)
Raggiunto e scavalcato Gerd Müller nella classifica europea dei marcatori. Appena guarisce, stupirà ancora e migliorerà ancora. 8,5.

JABULANI
(modello di pallone usato agli ultimi Mondiali)
Mi prendo la responsabilità di votarlo a nome di tutti gli onesti portieri che ha ingannato: 2.

KUMARITASHVILI NODAR
(slittinista)
Arrivato a Vancouver per godersi la prima Olimpiade, muore in maniera assurda durante le prove.

LEONARDO
(allenatore Inter)
Al Milan, la cosa migliore, con un piede già fuori, fu la parabola degli specchi sul narcisismo di Berlusconi. Ha coraggio andando all'Inter, dove farà i conti con un ambiente molto difficile e con l'eredità non tanto di Benitez quanto di Mourinho. Voto per il passato 7,5 e per il futuro sospeso. Diamogli il tempo di lavorare.

LEPROUX ROBIN
(presidente Psg)
Per combattere gli ultrà, ha "sciolto" le curve e rivoluzionato l'assegnazione dei posti allo stadio. Ecco la prova che, volendo, qualcosa si può fare. 9.

LIPPI MARCELLO
(ex ct Nazionale di calcio)
La più brutta Italia mai vista in un Mondiale. Il debito di riconoscenza lo pagò anche Bearzot in Messico nell'86, ma c'è modo e modo. Voto 3.

LOEW JOACHIM
(ct Germania)
Un buon terzo posto per la sua squadra multietnica, dunque più brillante e leggera nel gioco. Voto 7,5.

MANASSERO MATTEO
(golfista)
A diciassette anni batte tutti i record di precocità e gioca come unno scafato professionista. È il futuro (ma anche il presente). Voto 8,5.

MARCHETTI FEDERICO
(calciatore)
Da titolare in nazionale a fuori rosa nel Cagliari. Scusate se insisto, ma se non è mobbing questo come dobbiamo chiamarlo. Cellinata? Voto all'episodio, non certo a Marchetti, 0,5.

MARCORÈ NERI
(attore)
"Per un pugno di libri", trasmissione tv che conduce da nove anni, ha un difetto per chi mangia pane e pallone: va in onda domenica pomeriggio. Me la gusto registrata e continuo a trovarla buona, senza effetti speciali ma di un'intelligenza che non pesa. 9.

MATERAZZI MARCO
(calciatore)
Parafrasando Scopigno, tutto mi sarei aspettato nella vita tranne che di vedere questo giocatore in Mondovisione prima campione del mondo per squadre nazionali e poi per squadre di club. Forse lascerà l'Inter perché si sente trascurato. I tifosi lo rimpiangeranno tantissimo, io meno. Però, quisque faber fortunae suae, una tenacia da 7,5.

MILITO DIEGO
(calciatore)
Forse era meglio salutare, dopo il triplete. O forse tornerà alla sua quota. Voto fino al cambio di passo e relativo 2-0 al Bayern: 9.

MOLINARI EDOARDO E FRANCESCO
(golfisti)
Vincitori di tornei mondiali e della prestigiosa Ryder Cup. Grazie a loro il golf prova a liberarsi dall'etichetta di sport elitario. 8,5.

MORACE CAROLINA
(ct Canada calcio femminile)
"In Canada leggono i curriculum e così mi hanno assunta". Pur lavorando in un paese che non ha un campionato femminile, ha vinto la Gold Cup e si presenta tra le outsider ai Mondiali in Germania. Voto 7,5.

MORANDI MATTEO
(ginnasta)
Si può festeggiare un bronzo mondiale come fosse un metallo più nobile? Sì, se lo si ottiene agli anelli, la specialità di Chechi, dietro a due cinesi di un altro pianeta. Si deve festeggiare così. Voto 8,5.

MORATTI LETIZIA
(sindaco di Milano)
Fosse una gara, sarebbe salto in basso. Difficilissimo fare peggio di Albertini ma ci è riuscita. Il titolo di peggior sindaco nella storia della città non glielo insidia nessuno. Voto 2.

MORATTI MASSIMO
(presidente Inter)
Dall'inizio alla fine del rapporto con Benitez il suo atteggiamento tra il distaccato e il gelido non mi è piaciuto, quindi 4. Quando il tecnico chiedeva di intervenire perché 4-5 titolari anziché la testa alzavano il gomito, era il caso di dargli retta. Se Leonardo non facesse l'allenatore potrebbe fare l'indossatore, quindi è da escludere che porti i calzini dei Simpson o quelle tremende cravatte violacee su camicie lilla, che un cinque per cento di iella in più secondo me l'hanno portato.

MORENO BYRON
(detenuto in attesa di giudizio)
Arrestato il 21 settembre all'aeroporto di Kennedy di New York mentre cercava di entrare negli Usa con sei chili di cocaina nascosti nelle mutande. Proprio un poveraccio, l'arbitro più insultato dai tifosi italiani. Altro che il gol annullato a Tommasi in Corea, errore più grave dell'espulsione di Totti. Banale anagramma di Moreno: no more. Voto 2.

MOSSE GERARD
(fantino)
A Melbourne lo multano di 230 euro perché manda un bacio alla folla mentre va a vincere in sella ad Americain. A Hong Kong altri 300 euro di multa per aver dato una pacca di incoraggiamento a Jolly Good nel canter di partenza. 7 di solidarietà è il minimo.

MOURINHO JOSÈ
(allenatore Real Madrid)
Dispiace che in Spagna non sappiano apprezzarne il senso dell'umorismo, la sportività, l'innata modestia. Il triplete comunque vale 9. Sui costi e conseguenze del triplete indagherà una commissione dell'Onu.

MUTU ADRIAN
(calciatore)
Gli resta da picchiare il presidente o l'allenatore e poi può lasciare una città dove si annoierebbe. Voto 2.

NAPOLI
(squadra di calcio)
Percorso da 8,5.

NIBALI VINCENZO
(ciclista)
Gli ultimi 10 km di arrampicata alla Bola del Mundo garantiscono che è un campione vero, di quelli che non perdono la testa neanche producendo il massimo sforzo. È la sua figurina che porteremo al Tour nella speranza che si tinga di giallo restando pulita. 9.

di Gianni Mura; la Repubblica

Retrospettive (I)

ADRIANO
(calciatore)
Perso a Milano, ritrovato a Rio col Flamengo, alza l'asticella della difficoltà (ritrovarsi in Italia con la Roma) ma non abbassa di molto quella della bilancia. Almeno due persone ci credono ancora, lui e Ranieri. Non è poco e la scommessa è ancora in piedi. Voto 6.

ALLEGRI MASSIMILIANO
(allenatore)
Mi piaceva di più il suo gioco a Cagliari e non devo essere l'unico, visto che gli era stata attribuita la Panchina d'oro preferendolo a Mourinho. Nei pochi mesi al Milan ha dimostrato di saperci fare, anche se da Galeone, che cita spesso, non pare aver preso granché. Voto 7.

ALONSO FERNANDO
(pilota)
Crede contro ogni evidenza nella conquista del Mondiale, si batte fino all'ultimo giorno, perde per una macroscopica svista della Ferrari e non lo fa pesare. Un signore d'altri tempi: 9.

BALDONI ENZO
(giornalista)
Era andato in Iraq per capire meglio. Sequestrato e ucciso in circostanze tutte da chiarire. I suoi pochi resti sono stati sepolti a Preci, il 27 novembre, nella più totale indifferenza. Ecco perché ricordarlo è un dovere.

BALLERINI FRANCO
(ct ciclismo)
Era il ct ideale, la giusta prosecuzione di Alfredo Martini, per uno sport tanto bello quanto malato. Era aperto, leale, disponibile, sincero. E troppo presto, in un incidente d'auto, è morto.

BARGNANI ANDREA
(cestista)
Spesso travolgente in una piccola squadra come Toronto, sogna di diventare il primo italiano a giocare l'All Star Game: 7,5.

BARILLARI SIMONE
(saggista)
Ha curato "Il Re che ride", elenco ragionato delle barzellette pronunciate da Silvio Berlusconi (ed. Marsilio, pagg. 207, euro 13,50). Detto così, può sembrare un'operazione di piaggeria. Tutt'altro. Barillari incastona con precisione le barzellette nel contesto in cui sono state pronunciate e risponde con una ricerca quasi psicanalitica, con una lettura obliqua e corrosiva, alla domanda che per stanchezza nessuno si pone più: ma chi glielo ha fatto fare? Voto 8.

BASSO IVAN
(ciclista)
Un Giro da 8 e un Tour da 4. Voto 6.

BEARZOT ENZO
(uomo di sport)
Avrei potuto scrivere ex ct, ma Bearzot non è mai stato ex di nulla. Al 1982 si lega il ricordo dell'ultima, vera, grande, spontanea festa collettiva di un Paese, il nostro. Negli anni successivi ha badato solo a non contaminare i suoi valori di cittadino e di sportivo mescolandoli a quelli, sempre più velocemente cadenti, di un Paese, sempre il nostro. Gli amici sognavano per lui un funerale senza applausi. Non c'è stato, ma bisogna dire che l'applauso è durato proprio poco.

BENITEZ RAFA
(allenatore)
Anche i più pazienti prima o poi sbottano e così ha fatto lui quando si sentiva non protetto (hai visto mai?) ma almeno parzialmente illuminato dal mondiale. Rafa è sbottato quando ha capito che il cerino sarebbe comunque rimasto sempre in mano sua. Non è esente da errori, ma sul piano comportamentale nessuno può insegnargli nulla. Stringi stringi, due vittorie al medagliere le ha pure portate. Gli resta un record difficilmente battibile, anche da parte di Mourinho: unico allenatore cui Moratti non abbia comprato un giocatore. Stretta di mano e 7,5.

BERLUSCONI SILVIO
(raccontatore di barzellette)
Nel campo, si rivela molto meglio dei Fichi d'India e molto peggio di Gino Bramieri. Non fosse vagamente distratto dalla politica, gli consiglierei di rinfrescare il pur vasto repertorio. La barzelletta sui romagnoli razzisti circolava già quando ero al liceo, ma ambientata a Milano. E quell'altra, che parla di un tatuaggio che si rivela essere San Benedetto del Tronto, circolava quando ero alle medie. Voto 5,5.

BERSANI PIERLUIGI
(politico)
Onesto, non si discute. E poi le maniche rimboccate, che ideona. Ma io continuo a vedermelo in una riunione di condominio: il calorifero nel salotto della signora Rossetti non scalda, poi c'è da mettere a norma la caldaia, abbiamo chiesto due preventivi, e sono da sostituire due citofoni. Voto 6.

BLATTER JOSEF
(presidente Fifa)
I primi Mondiali giocati in Africa, i primi Mondiali assegnati alla Russia, i primi Mondiali a un paese arabo. Stavolta sì che merita un voto alto: 5.

BOIVIN
(ristorante)
A Levico Terme (Trento), miglior cena del 2010 con un menu fisso di 30 euro (vini esclusi).

BRONDI VASCO
(cantante, nome d'arte Le Luci della centrale elettrica)
Di nuovo in giro c'è poco. Col secondo cd si conferma questo ferrarese specializzato nel cantare precarietà lavorative e sentimentali. 7,5.[

BRONZINI GIORGIA
(ciclista)
Lo sprint con cui vince l'oro su strada in Australia è degno di un Saronni. Voto 8.

CANTARINI GERMANA
(giocatrice di bocce)
Cremonese, parrucchiera, 46 anni, già conquistati sei titoli mondiali (si gioca ogni quattro anni). L'ultimo quest'anno, specialità raffa, unica italiana in gara. Era stata ferma un anno per curare un tumore al seno. "Volevo giocare ma durante la chemio le gambe non mi reggevano". Il ritorno alle gare non era stato facile: "Mi hanno tolto diciassette linfonodi nella parte destra e io sono destra. I primi tiri sono stati molto dolorosi, ma non mi sono persa d'animo. Voto 10 (storia letta su Sportweek).

CASSANO ANTONIO
(calciatore)
I bookmakers non hanno ancora deciso chi sarà il primo milanista a litigare con lui. Io sì: nell'ordine, Ibrahimovic, Ambrosini o Boateng. Gattuso no perché ha deciso che gli farà da tutore. Col nuovo presidente parlerà d'altro e andranno d'accordissimo.

CECINI GIUSEPPE E RINALDI GIUSEPPE
(pensionati)
Ex sindaco, 83 anni, il primo, presidente provinciale dell'Anpi, 87 anni, il secondo. A Grosio (Sondrio) viene ripristinata sulla facciata del municipio una scritta fascista. La spiegazione è che fa parte della nostra storia. Il 25 luglio, di notte, i due agganciano un pennello a una canna da pesca e scrivono sulla stessa facciata: "Vergogna". Giovanotti in giro in moto gli dicono che queste cose non si fanno. Sì, invece, voto 9. Denunciati per imbrattamento, saranno processati e ci tengono molto a essere processati.

CLUB TENCO
Sempre più difficile il lavoro, con i migliori che se ne vanno e i fondi continuamente tagliati. Pure, l'ultima edizione, in forse fino all'ultimo, se l'è cavata bene: 7,5.

CONSTANT KEVIN
(calciatore)
Per ora è al Chievo. Bravo il ds Sartori a scovarlo nello Châteauroux, serie B francese. È già scattata la sfida tra Milan e Inter a chi lo compra prima. Centrocampista di origine guineane, vede poco la porta ma corre per due. Voto 7.

CONTADOR ALBERTO
(ciclista)
Film già visto, vincitore del Tour accusato di doping (clenbuterolo) si difende accusando un filetto di manzo. Insorgono in Spagna gli allevatori di manzi. Lui dice che la verità verrà a galla e noi aspettiamo che qualcosa venga a galla, se poi è la verità meglio. Voto sospeso.

CONTI BRUNO
(dirigente Roma)
Il migliore degli azzurri al Mundial di Spagna. Lo disse Pelè, che di calcio capisce. Si legge volentieri la sua storia in "Essere Bruno Conti" (ed. Castelvecchi, 190 pagine, 14,90 euro), biografia non banale scritta da Gabriella Greison.

DEL BOSQUE VICENTE
(ct Spagna)
La foto più bella del Mondiale è quella che lo vede correre incontro al figlio down. Negli occhi del padre e del figlio il flash ha fissato un mondo. Voto 9.

DE PAOLI EUGENIO
(Rai)
Grandi e lunghi (anche troppo) dibattiti, a inizio campionato, quando annunciò che avrebbe mandato in pensione la moviola, oppure l'avrebbe utilizzata al minimo. Poi, silenzio (anche troppo). Invece, a bocce ferme, è il caso di dire che della moviola in tv e nella vita di tutti i giorni si può fare benissimo a meno. Quindi, non era una brutta idea: 7,5.

DI FRANCISCA ELISA
(fiorettista)
E le ragazze, cosa combinano le nostre schermitrici? Vincono l'ennesimo Mondiale con l'ennesimo fiore della scuola (o serra) di Jesi. Voto 8.

DI NARDO FRANCESCO
(giudice sportivo Comitato Lombardia)
Nel campionato Allievi infligge due giornate di squalifica a un'intera squadra di Casal Pusterlengo per comportamento razzista nei confronti di un avversario. Ben fatto, 8.

DOMENECH RAYMOND
(ex ct Francia)
Definisce una pagliacciata l'ammutinamento, molto serio, dei suoi giocatori in Sudafrica, va a casa al primo turno (come l'Italia, con cui aveva giocato la finale quattro anni prima). Non stringe la mano al ct avversario, Parreira, dopo l'eliminazione. Persa la panchina, si iscrive alle liste di collocamento. Da giocatore era un provocatore e tale è rimasto. Per me, bastava un episodio del '96 ad Atlanta (vendeva da bagarino i biglietti delle partite) a inquadrarlo. Voto 3.

EDWARDS JONATHAN
(ex atleta)
Primatista del salto triplo e simbolo di fede nello sport, annuncia di essersi convertito al darwinismo. Fatti suoi, ma qui si premia la trasparenza della comunicazione: 8.

FAZIO FABIO
(intrattenitore televisivo)
Il suo programma, con Roberto Saviano, ha bloccato fino a dieci milioni di italiani davanti ai teleschermi. Non era un programma leggero, né di futili contenuti, anzi. Due le reazioni, forse collegate. Dunque c'è un'altra Rai. Dunque c'è un'altra Italia. Voto 9, un dubbio c'è: una trasmissione così rimarrà piantata come un obelisco tra i nanetti da giardino o ne produrrà altre? Se penso a Masi (2) ho già la risposta.

FEDERER ROGER
(tennista)
Passano le stagioni e lui è sempre il signore che conosciamo. 9.

di Gianni Mura; la Repubblica

venerdì 24 dicembre 2010

Si volta pagina

Dopo l'addio al tanto bistrattato Rafa, ecco il buon Leo, da oggi un ex milanista a tutti gli effetti. Uno che le ha cantate al Silvio come neanche il Gianfranco.
In culo alla balena. E forza Inter!!!

mercoledì 22 dicembre 2010

Il Vecio (II)

Non è vero che italiani come Bearzot non ne nascono più. È vero invece che nascono quasi sempre negli stessi posti: vicino a un confine.

Là dove dell’italianità, evidentemente, arrivano solo gli effluvi e non le pestilenze. Italiani di confine erano i piemontesi Cavour e Gobetti, il trentino De Gasperi e - per rimanere nel paradiso ristretto dei commissari tecnici campioni del mondo - l’alpino torinese Vittorio Pozzo. Dell’italiano di confine, Enzo Bearzot da Aiello del Friuli aveva tutte le caratteristiche, a cominciare dal cattivo carattere che è tipico, diceva Montanelli, di chi un carattere ce l’ha.

Nella patria dei vittimisti che scaricano di continuo le proprie responsabilità, lui era uno che si assumeva spesso anche quelle degli altri. Proteggeva i suoi miliardari in mutande come un papà. Ma non come un papà moderno e cioè dando loro sempre ragione. Sapeva ascoltarli, sgridarli e poi aspettarli, per mesi o per anni come con Paolo Rossi, trasmettendo sicurezza a quei cuori fragili. Nella patria dei disfattisti seppe raccogliere i cocci di un ambiente distrutto dal calcio-scommesse e trasformare le polemiche con la stampa in benzina reattiva. Nella patria dei cinici impose una sua visione romantica del calcio, senza però mai dimenticarsi che il contropiede non è una parolaccia ma l’essenza di una nazione che, dal Piave al Bernabeu, in contropiede ha vinto tutte le battaglie reali o metaforiche della sua storia.

Nella patria dei raccomandati lui, ex capitano e tifoso del Toro, penalizzò in Nazionale le bandiere granata a beneficio delle maglie juventine che aveva combattuto all’ultimo sangue in tanti derby. Nella patria dei gerontocrati lanciò Rossi e Cabrini a vent’anni e Bergomi a diciotto nella finale Mundial. E, quel che più conta, nella patria degli opportunisti non trasse alcun vantaggio dall’impresa spagnola che fece di lui e della sua pipa l’icona di almeno due generazione di italiani. Finita l’avventura in azzurro non gironzolò per talk show, non firmò contratti pubblicitari o di consulenza, anche quando per molti club sarebbe stato un onore potersi fregiare della sua collaborazione. Semplicemente si mise da parte, con un senso impeccabile dell’uscita di scena, senza aggrapparsi alla coda filante della gloria perché non ne aveva la nostalgia né il rimpianto. Gli era più che sufficiente serbarne il ricordo.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

martedì 21 dicembre 2010

El Matador

Anche in questo preciso momento, mentre voi leggete e ogni cosa sembra accaduta, la messa finita, i tifosi andati in pace, anche ora non si può escludere che Edinson Cavani stia segnando. Fuori tempo massimo, fuori da ogni logica, ma che altro è la fede? La partita di calcio è un rito collettivo, la celebrazione di una speranza condivisa. Sintesi di questo supremo anelito è l'idea di una vita oltre la vita, ovvero di un gol oltre il novantesimo che per definizione, finanche televisiva, rappresenta il sipario. Laddove la sua calata non venga accolta come un nuovo inizio.

Accade a Napoli, dove altro sennò? La città si presta, la sua anima lo pretende. Quando il quarto uomo alza il tabellone dell'agonia supplementare altrove si mettono la sciarpa e s'incamminano, al San Paolo si tolgono la giacca e se la giocano. Cominciò già l'anno scorso, all'arrivo di Mazzarri in panchina. Era chiaramente un rito, lui in maniche di camicia biancotalare, muta la folla, un cielo squarciato d'azzurro, il riverbero di tutti i momenti di sacra follia partenopea: le lacrime di sangue sul volto di San Gennaro, la Bibbia tradotta da Erri De Luca evocando angelici voli dai terrazzi di Montedidio, la telecronaca di Alvino & Auriemma da Torino al gol del 3 a 2 sulla Juventus: "Vogliamo morire adesso, seppelliteci qui!", "Grazie Dio che m'hai fatto tifoso del Napoli!". Mancava, era evidente, soltanto un sacerdote all'altezza della cerimonia. Maggio, Hamsik, Lavezzi erano chierichetti. Poi l'estate scorsa è arrivato lui, don Edinson Cavani, il centravanti in missione per conto di Dio.

Nell'infanzia la sola vocazione che gli si era presentata era quella calcistica, ma già il padre lo portava al campetto come a una funzione domenicale e gli insegnava che c'è una provvidenza dietro gli schemi. Tortuose le sue strade. Il profeta s'affacciò al giovane Edinson sulle rive del Danubio, intesa come squadra in cui giocava diciottenne. Si chiamava Julio Cesar Gonzales e gli parlò di Cristo mentre tornavano dall'allenamento, le borse in spalla. Cavani domandava, quello rispondeva, non era una chiamata, soltanto uno squillo. Ma pochi anni dopo, sbarcato a Palermo, se lo ritrovò curiosamente davanti, senza né ingaggio né futuro. Date un tetto a chi non ce l'ha. L'accolse, ne ascoltò la parola, luce fu. Cavani prese il numero 7, che l'Antico Testamento ricopre di significati. Quando arriverà a Napoli esigerà, soddisfatto, che se ne svesta per darglielo addirittura Lavezzi.

Il Cavani di Palermo è una promessa, un giovane dotato con l'apparecchio ai denti e la moglie ragazzina. Uno la cui casa è aperta a tutti, inclusa la suocera e il gatto Simplicio. Più che un appartamento, una parrocchia. Gioca, quando gioca, seconda punta. Reclama la prima fila, invano. Delio Rossi trova difficile parlargli. Devoto, ma spigoloso. Chi lo ha visto nel fortunato mondiale dell'Uruguay non si è lasciato convertire: chiuso tra l'onnipotenza di Forlan e le diavolerie di Suarez è sembrato un mistero glorioso. Come misteriosa è rimasta l'aggressione del 9 dicembre 2009, l'auto su cui viaggiava presa a colpi di catene da sconosciuti per motivi mai chiariti. L'effetto: chiede a Zamparini di essere ceduto. A chi? A chi lo faccia giocare prima punta, a chi gli dia tutto lo spazio e il tempo disponibili e anche quelli che non lo sarebbero, a chi creda in lui e in Lui. Che finisca a Napoli è quasi doveroso. All'inizio sembra che lo prendano al posto di Denis. Poi vendono Quagliarella. Infine si fa male Lucarelli. E Cavani resta solo, come voleva e come era scritto: uno, ma come fosse trino. Si stabilisce fuori città. Riceve a domicilio il messo evangelico.

Mette incinta la moglie. Non risponde a domande sulla camorra. Va in campo e segna. Praticamente sempre. Se Quagliarella faceva (e fa) i gol impossibili, Cavani li fa tutti. San Paolo stadio adora il suo volto da Gesù Cristo pasoliniano (benché al prosaico presidente De Laurentis ricordi più Massimo Ranieri). Gli dedicano una pizza, un amico campano solitamente misurato mi scrive: "Quando segna Cavani penso alla pace nel mondo". Da piccolo era El Botilla per l'esile struttura, da grande è diventato El Matador per come trionfa nell'arena, ma ecco affacciarsi El Salvador, dispensatore di miracoli annunciati. Perché quando la fede diventa pratica domenicale il pubblico comincia ad aspettarsi che ogni volta l'evento si compia. A esser laici non è altro che una scelta strategica: non accontentarsi del pareggio, piuttosto perdere, ma provare a vincere, dunque aprirsi e rischiare, Grava salva sulla linea evitando lo 0 a 1, poi palla avanti. Ma è difficile restare scettici quando il 7 azzurro prende quel pallone inoffensivo e compie una transustanziazione sportiva, due gesti, una prece e lo trasforma in gol, furor di popolo, liberazione. Ora, proprio in nome di Dio, il calcio si ferma. Qualcuno lo dica a Cavani.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

Il Vecio

Con quel profilo azteco, Enzo Bearzot pareva già un personaggio storico quando ancora andava in panchina, lui e la sua pipa, lui e il suo labbro tremulo per troppa emozione. Erano tempi in cui la gente tutta d'un pezzo controllava quasi ogni parte del corpo, nel tumulto emotivo: non era freddezza, era decoro. Poi, tanto, sarebbe di certo venuto il giorno della gioia piena e suprema, incontenibile. Basta aspettare, e lavorare, basta essere seri e veri.

Stava male da tempo, e da tempo non concedeva interviste, pareri, commenti, giusto qualche pezzo sulla Gazzetta. Era anche ritrosia, o forse amarezza: non poteva, il vecio, sentirsi contemporaneo di questo calcio volgare e cialtrone che pure lui non offese mai: meglio il silenzio, più dignitoso. Il silenzio che nasce per misericordia, e pudore.

Nei giorni del mundial spagnolo, i primi e più difficili, Enzo Bearzot venne ferocemente criticato da tutti. Perché si ostinava con Paolo Rossi. Perché l'Italia giocava male e lui niente, avanti così. Un testone. La sua squadra bellissima, la migliore tra quelle azzurre del dopoguerra e forse di sempre (addirittura inarrivabile per brio, freschezza, classe) fu quella del mondiale argentino del '78, dove nacque il trionfo di quattro anni più tardi. Gli "argentini" giocarono anche meglio degli "spagnoli".

Lui, Zoff, Scirea, i tre angoli di pietra di una squadra di uomini. Gente robusta dentro, pochissime parole, solo fare bene e lasciar dire. Gente come non se ne trova più, oppure bisogna saperla cercare. Gente che, nel calcio, e tra gli allenatori, non a caso arriva spesso dal Friuli, terra di valore e valori: Bearzot, Capello, ora Reja e Delneri. Perché per insegnare bisogna sapere, e per saper insegnare bisogna essere.

Enzo Bearzot appartiene ai padri della patria, non pensiamo sia un'esagerazione dirlo, e scriverlo. È nella storia vera, quella che si fa senza chiacchiere, perché lo sport è vita al quadrato, è emozione, forza, tenacia, educazione, lo sport è la strada attraversata dai sogni quando i sogni prendono corpo, e ogni tanto succede. Bearzot era perfetto, accanto a Pertini: due gemelli, non solo per la passione delle carte e dello scopone.

In un tempo che fatica a ritrovarsi, dove gli esempi e i riferimenti svaniscono e sbiadiscono, figure come Enzo Bearzot sono stelle polari, anche adesso che tutto cambia, forse più adesso di prima. Non tutto è perduto se resta la memoria, e se raccontiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti di come lottarono e vinsero quegli azzurri, soli contro tutti, anche se poi non è mica una coppa del mondo il vero trionfo. Il trionfo è essere com'era Bearzot, come dovrebbero essere tutti quelli che amano, insegnano e praticano lo sport. Schivi quanto basta, sinceri e concreti sempre. Una leggenda, una specie di zio nei ricordi di tanti. Un punto di riferimento non per ieri, ma per domani. E grazie, di cuore, per quella gioia lontana che pure non finisce mai.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

sabato 18 dicembre 2010

Pupi (& Co.)

Mostrare la coppa al mondo. Alzarla più in alto che si può. Sollevarla con i compagni. Meritarsela tutta, dal primo all'ultimo grammo, dalla prima all'ultima stilla di sudore, dal primo all'ultimo giorno di Inter. Javier Zanetti mostra la coppa del mondo che il suo club ha appena vinto, regolando senza problemi i congolesi del Mazembe, e in quell'ostensione c'è una storia di vita e di sport che è un esempio per chiunque. Zanetti e l'Inter, ormai, sono una cosa sola.

Il capitano è all'Inter dal 1995. Ne ha attraversato tutta la storia recente, che tra l'altro coincide con la presidenza Moratti. E' stato il simbolo delle sconfitte più atroci: l'Inter dei perdenti si identificava in lui, in quel suo correre sempre uguale e sempre potente, ma alla fine mai produttivo, o comunque mai vincente. Lui ha avuto la capacità di rimanere fedele a se stesso, sempre puntando sulla professionalità, sull'impegno nel lavoro e negli allenamenti, sulla correttezza cristallina in campo e fuori. Un esempio per i compagni di squadra, un avversario stimato da tutti i giocatori delle altre squadra. Ha attraversato e vissuto sulla propria pelle i tracolli interisti più drammatici, come quello del 5 maggio 2002. Ha lasciato il segno però nell'unico trofeo vinto da Moratti nel suo primo decennio di presidenza, quella Coppa Uefa del 1998 che lo vide protagonista in finale contro la Lazio, segnando persino un gol bellissimo, lui che non ne segna quasi mai. Poi è rimasto il simbolo dell'Inter anche negli anni della risalita, quando le distanze da Juve e Milan si sono annullate dopo il terremoto di Calciopoli, e il suo club ha iniziato a vincere gli scudetti inseguiti per tanto tempo. E Zanetti sempre lì, sempre pettinato allo stesso modo, sempre professionale e impeccabile, anche nel nuovo ruolo di centrocampista che gli ritaglia Mancini.

Arriva Mourinho e si pensa che Zanetti potrà avere qualche problema: macché. Il capitano rimane una colonna anche col portoghese, irrinunciabile in qualsiasi frangente, da terzino di destra o di sinistra, da centrocampista multiforme. Passano gli anni e il capitano è sempre lì, mai una flessione di rendimento. E' giusto che a Madrid alzi lui la Champions, ed è persino sacrosanto che la vittoria arrivi nel giorno in cui lui festeggia la partita numero 700 con la maglia nerazzurra. Poi si arriva ad Abu Dhabi e il capitano, quello che non segna quasi mai, realizza il gol del 2-0 in semifinale. La finale col Mazembe ha poca storia, e anche grazie a Zanetti, che dopo l'1-0 di Pandev avvia e perfeziona con un assist l'azione del 2-0, prima del 3-0 nella ripresa di Biabiany. Il trionfo è completo, assoluto. Quasi sedici anni di Inter, una vita dentro e per il suo club. Dietro quella coppa del mondo che il capitano alza nella notte araba, c'è una meravigliosa vita di sport che tutti vorrebbero imitare.

di Andrea Sorrentino; la Repubblica

Mazembe-INTER 0-3


Kifumpa

Si chiama Kifumpa. E a Lumunbashi, la città casa del Mazembe, tutto gira intorno al gioco più bello del mondo. Non serve un pallone di cuoio, basta una kifumpa. Stracci cuciti insieme da un filo resistente, la forma è rotonda, la sostanza è una palla da prendere a calci. Il settanta per cento dei bambini ci gioca per strada, il Mazembe è una società ricca, molto ricca con un budget da 10 milioni all'anno garantiti dal presidente Moise Katumbi Chapwe, governatore del Katanga, benestante regione del Congo. Sessanta milioni di abitanti, il rame è la miniera d'oro: il Mazembe rappresenta l'avanguardia del calcio e anche del Paese.

Stipendi che superano i 40 mila dollari al mese in una nazione dal reddito pro capite intorno ai 300 dollari mensili. Una Accademy che raccoglie 300 giovani, dai pulcini fino all'uscio della prima squadra: dal kifumpa al pallone dei grandi. Democrazia fresca, ancora sotto osservazione, il problema a sentire chi vive in quelle zone sono le vie di comunicazione: ipotesi di strade cui linee aeree non proprio affidabili cercano di supplire. Per la Farnesina è ancora un Paese a rischio, il Mazembe anche per questo vuole vincere il Mondiale per club: «E' arrivato il momento di voltare pagina, l'Africa può giocarsela con una delle squadre più forti del mondo. Non deluderemo i nostri tifosi». Nella sera della vittoria contro l'Internacional di Porto Alegre ce ne erano almeno mille in tribuna, molti di loro spesati proprio dal presidente. Lumunbashi attende con trepidazione la finale di Abu Dhabi, la birra è pronta a scorrere, per l'ultima vittoria nella Champions africana del Mazembe i tifosi hanno invaso le strade e cominciato a girare nudi.

Lamine N'Diaye, tecnico del Mazembe, è senegalese e musulmano. La squadra, tutti cattolici, prega prima della partita e nell'intervallo, tutti in ginocchio sulla linea di porta. Lui prega da solo, in silenzio, sa che Abu Dhabi può entrare nella storia del calcio africano: mai nessuna squadra di questo continente ha vinto un titolo mondiale. Due tv al seguito Nyota, (Stella), emittente di Lumumbashi, e Rtnz, la tv di stato. Cinque giornalisti della carta stampata e un tifoso-accompagnatore: Gabriele Salmi, dal 2004 in Congo con una Ong (Alba, si occupa dei bambini) è entrato in contatto con il Mazembe proprio grazie al pallone. E così quando la squadra congolese cercava un posto per il ritiro prima della finale di Champions League in Tunisia hanno chiesto a Gabriele: lui li ha portati a Licata, clima simile alla Tunisia e ospitalità da vendere. Ora li segue in tutte le trasferte e sarà il primo bianco a gioire in caso di vittoria sull'Inter. Mazembe: un coccodrillo che mangia il pallone ne è il simbolo. L'Inter è avvisata, le fauci sono già spalancate.

di Paolo Brusorio; LA STAMPA

mercoledì 15 dicembre 2010

Seongnam-INTER 0-3

Il ritorno del Principe Milito, autore di un goal (il terzo della serata) e di un magnifico colpo di tacco che ha liberato Zanetti per il raddoppio, che ha seguito la rete d'apertura di Stankovic.
Sabato nella finalissima ce la vedremo con il Mazembe, dal Congo.

La numero 3

La prima immagine di papà Giacinto sui campi è legata ad Appiano Gentile. Casa Inter, insomma. "Ero piccolissimo, ricordo quelle tute nero azzurre attorno a me che correvano. Io li guardavo, mi sembravano tutti giganti. Erano gentili, si divertivano a farmi calciare un pallone. Sì, ero un bimbo tra i giganti, un bimbo in un mondo magico". Gianfelice Facchetti ha la stessa aria pulita di suo padre Giacinto, lo stesso tono sobrio ed elegante. Giacinto Facchetti: in una parola una leggenda del calcio nazionale e internazionale. Il primo terzino sinistro a difendere e ad attaccare. Il primo terzino sinistro a segnare come un bomber. E a conquistare il mondo con l'Inter. Giacinto se n'è andato qualche anno fa, prima che l'Inter di Massimo Moratti prendesse a vincere ovunque e a raffica. Come lui avrebbe fortemente voluto. Gianfelice, attore-regista di teatro, è uno dei figli, impegnato nel custodirne i valori e lo spirito. Con uno stile inconfondibile, quello di casa Facchetti.

LA TIMIDEZZA DEL CAMPIONE - "Papà - così apre il libro dei ricordi Gianfelice - aveva molto pudore a parlare di sè come giocatore. Non si è mai autocelebrato. Ha vinto tutto, eppure non stava lì a ricordarlo a nessuno. Tantomeno a noi. Sembrerà strano ma solo negli ultimi tempi, grazie a Roberto Boninsegna, con cui pranzava spesso, prese a parlarne. Sembrerà paradossale, ma io, suo figlio, in qualche modo ho recuperato tutta la sua storia sportiva da quando non c'è più.
Così ho scoperto quel papà così "normale" che vinceva le Coppe Intercontinentali ed era ammirato in tutto il mondo...".

NOTTE MAGICA COL LIVERPOOL - Ma di tante galoppate sulla fascia, di tante partite epocali, cosa era rimasto nella mente del capitano della Nazionale? "La partita di San Siro con il Liverpool, quella su tutti. Ne avevano prese di santa ragione in Inghilterra, 3 a 1 con cori di sfottò e quel when the saints go marching in che risuonava ancora nelle orecchie di tutti gli interisti. Papà mi raccontava che al ritorno fu tutto magico, che non aveva mai visto lo stadio milanese così carico, al punto da spingere letteralmente tutta la squadra alla clamorosa rimonta. Finì tre a zero per la Grande Inter e papà segno una grandissima rete. Così la canzoncina degli inglesi stavolta la cantammo noi, con qualche parolina cambiata...".

LA MONETINA EUROPEA - Con l'Italia, Giacinto ha raggiunto anche la finale mondiale del '70, il torneo di Italia-Germania 4 a 3. Tuttavia, dice Gianfelice, della sua lunga e ricca carriera azzurra, papà Giacinto amava ricordare un trionfo passato anche per la dea bendata. "La vittoria del campionato europeo a Roma, nel 1968, lo inorgogliva e lo divertiva anche per come era avvenuta. In semifinale, a Napoli, finì zero a zero con l'Urss, anche dopo i supplementari. Allora i rigori non venivano proprio contemplati. Così fu il lancio della monetina a decidere il finalista. Il sorteggio favorì l'Italia che poi affrontò due volte la Jugoslavia in finale, la prima finì uno pari, la seconda vincemmo per due a zero. Questo è il ricordo più azzurro di mio padre".

L'INTERCONTINENTALE E LE MINI-COPPE - Tra i successi di Facchetti, naturalmente, le due Intercontinentali. "Che tempi: figurarsi che il premio, mi raccontava papà, allora consisteva nel potersi tenere la maglietta con cui si era giocato e nella consegna di piccole riproduzioni del trofeo mondiale. Adesso sinceramente non so dove siano finite le due mini-Intercontinentali, devono essere da qualche parte. So che la riroduzione della prima Coppacampioni papà l'aveva data a sua sorella".

PICCOLETTI TERRIBILI - Tante gioie e soddisfazioni sui campi verdi, si perde nella notte dei tempi il ricordo di un Giacinto in difficoltà. "Beh, forte era forte ma c'era un certo tipo di giocatore che gli dava molto fastidio". Chi, Gianfelice? "Mi raccontò di avere sofferto le pene dell'inferno nel marcare quegli attaccanti, ali soprattutto, piccoli di statura e molto rapidi di gambe. Lui, così alto, faceva una gran fatica. Mi parlò in particolare di Giancarlo Danova, detto Pantera, del Milan, con cui poi divenne grande amico; e di Igor Cislenko, ala sinistra dell'Unione Sovietica. Con loro, ammise, non fu facile".

BONIMBA CHE AMICO - Ma chi era il compagno di squadra più vicino a Giacinto? Sorpresa, non proprio uno della Grande Inter anni Sessanta, ma comunque sempre un grandissimo nerazzurro come Roberto Boninsegna, il goleador dello scudetto del 1971 e della Coppacampioni persa l'anno successivo con il fortissimo Ajax di Cruijff. "Già, Bonimba, che amico per papà. Ce lo siamo ritrovati sempre vicino soprattutto nei momenti brutti, quelli della malattia. Sì, d'accordo, magari erano molto differenti come indole e carattere, ma si trovavano nei valori importanti. Nell'amicizia. Devo dire grazie a Roberto Boninsegna per il tempo che ha passato con noi, Bobo spronava il suo vecchio compagno di squadra a uscire dal suo riserbo, a ricordare. Quando doveva esserci, Bonimba c'era".

SARTI, BURGNICH, FACCHETTI - Nello scioglilingua che qualsiasi interista ha mandato a memoria, altri rapporti di amicizia. "Papà era legatissimo a Tarcisio Burgnich, suo compagno di squadra nella Grande Inter. E poi ad Aristide Guarneri, con cui si vedeva spesso. Personalmente, poi, mi ha davvero colpito Giuliano Sarti, l'ho incontrato solo nel 2008 e, ascoltandolo, mi sono reso conto di quanto fosse simile e vicino a mio padre".

I RAPPORTI CON MAZZOLA - Nei filmati di repertorio, un classico Inter è l'abbraccio tra Sandrino Mazzola e Giacinto Facchetti dopo le innumerevoli giocate vincenti confezionate dai due. Eppure, qualcosa, negli ultimi anni, si era rotto tra il Baffo e il terzino goleador. "Sì, c'era stato qualche screzio ed era calato un certo gelo, non ne conosco i motivi; però devo aggiungere una cosa importante - afferma Gianfelice - quando qualcuno in questi tempi balordi si è permesso di diffamare mio padre, il primo a intervenire con durezza per prendere le parti di chi non c'è più è stato proprio Mazzola. Un giorno, a una presentazione di un libro su mio padre, dove c'era poca gente e nessuna telecamera, intervenne Sandrino, di cui avevo sempre sentito parlare senza mai conoscerlo personalmente. Ebbene, disse cose splendide su papà. Poi gli parlai e, con grande umanità e umiltà, mi spiegò che sì, erano stati davvero molto amici ma poi qualcosa si era rotto. Aggiunse: "Ma forse, se questo è accaduto è perchè ho sbagliato qualcosa io, così come lui, insomma abbiamo sbagliato entrambi". E' bello sapere che, oggi, Mazzola difende sempre l'onore di papà".

CAMBIASSO E LA NUMERO 3 - E oggi, c'è ancora chi festeggia i nuovi trionfi interisti con il numero 3 sulle spalle: è Esteban Cambiasso. Un retroscena che Gianfelice racconta con piacere: "Quando l'Inter vinse il primo scudetto sul campo del Siena, Cambiasso mi telefonò: "Buonasera, sono Esteban, potrei avere una maglia di suo padre, vorrei indossarla e fare festa per il titolo che lui avrebbe voluto vedere e vivere, sa ho conosciuto Giaginto e mi sento molto legato a lui". Gliela diedi, ne abbiamo pochine ormai, di maglie. Il tempo passa, no? La indossò con orgoglio. Poi me la riportò lavata e stirata. Gli dissi: "Esteban, è tua, tienila". Poi ha indossato ancora la 3 nella notte di Madrid. Bello. Dei giocatori attuali lui e Ivan Ramiro Cordoba sono i più vicini a noi, assieme a Javier Zanetti".

I QUADERNI DEL MAGO - Difficile scegliere tra i mille aneddoti che Gianfelice ha ereditato da papà Giacinto. Irrununciabile quello su Helenio Herrera. "Papà aveva una devozione per il Mago. Fu lui a lanciarlo e soprattutto fu lui a difenderlo perchè, sì, pochi lo ricorderanno, ma all'inizio il pubblico di San Siro prese di mira quel terzino così alto che si spingeva così in avanti. Mago Helenio non fece una piega e lo tenne in campo. Coerente e coraggioso. I due si stimavano molto. Non è un caso se poi Herrera ha voluto che uno dei suoi celebri quaderni con gli appunti sulla Grande Inter finisse proprio al suo terzino. Ogni tanto sfoglio quelle pagine e ritrovo anche mio padre".

FIGURINE DI PAPA' - Gianfelice continua a "recuperare" la memoria di quel campione inimitabile e di quel padre così discreto rispetto ai suoi successi. Uno dei tanti modi è legato alle figurine. Spiega: "Mi piace trovare tutte le sue immagini sparse per il mondo. Raccogliere le figurine di ogni tipo sparse per le varie nazioni. Sono tantissime, non ci credereste. Foto di ogni tipo, caricature comprese. Rivedo papà Giacinto, rivedo tutte le sue espressioni. Lo rivedo giovane, forte e campione".

di Giovanni Marino; la Repubblica

L'altro calcio

Il nostro calcio scoppia: in Italia ci sono 127 club professionistici (perché lo scorso anno la Lega Pro ha ridotto gli organici di 5 unità, da 90 a 85). Un record che ci sta portando a fondo. Basta pensare che in Inghilterra i club "pro" sono in tutto 92, in Germania 56, in Spagna 42, in Francia 40 e che nello sport Usa, poi, ci sono solo 30 club nell'Nba, nel Mlb e Nhl (basket, baseball e hockey ghiaccio) e 32 nel Nfl (football). Per il calcio italiano una situazione insostenibile, fuori da ogni logica. "E questa -ammonisce Mario Macalli, presidente della Lega Pro - è solo la punta dell'iceberg: quello che sta sotto è molto peggio...". Quello che si sa è che in A il Bologna annaspa e cerca di salvarsi con l'azionariato popolare, in serie B l'Ascoli ha 5 punti di penalizzazione per stipendi non pagati, in Lega Pro i calciatori di Pro Patria (prima in seconda divisione, girone A) e Catanzaro (ultimo in seconda divisione, girone C) si sono fermati per un minuto all'inizio della partita perché da luglio non hanno visto un centesimo. Ora metteranno in mora i club, e si svincoleranno: a Catanzaro, giocano addirittura a porte chiuse perché non hanno i soldi per aprire lo stadio e pagare gli steward. "Noi come Lega dovremmo chiedere i danni d'immagine a questi due club -tuona Macalli - Così non possiamo più andare avanti: io credo che siano una trentina i club che non pagano gli stipendi. E ora siamo solo a dicembre, figuriamoci a maggio... Una situazione disastrosa: sarà un campionato pieno zeppo di penalizzazioni. Ma che senso ha?".

Per ora sono state già penalizzate Spal, Salernitana, Lumezzane, Foggia, Cavese, Foligno (prima divisione), Rodengo, Canavese, Sangiovannese, Villacidrese e lo stesso Catanzaro (seconda divisione). Altre se ne aggiungeranno presto, dopo gli ultimi controlli Covisoc e i deferimenti di ieri della procura federale nei confronti di Catanzaro (ancora...), Cavese, Sangiovannese e Ternana. In difficoltà anche il Como: tra l'altro, sabato scorso sono state bloccate le puntate sul "2" (la partita Como-Spal, giocata domenica, è finita guarda caso 2-3...). E anche quello delle scommesse, soprattutto in Lega Pro, è un fronte sempre ad altissimo rischio. "Bisogna monitorare il sistema per garantire la legalità", ha detto Giancarlo Abete, presidente Figc. Il 21 dicembre, nell'ultimo consiglio federale dell'anno, sia Macalli che Carlo Tavecchio (Lega Dilettanti) proporranno il blocco dei ripescaggi, "l'unico sistema per fare una riforma dei campionati". Il sindacato calciatori è contrario. "Si vota - insiste Macalli - e se non passa conosceremo i nomi dei responsabili: noi abbiamo proposto tre gironi da 20 ciascuno, un'autoriduzione. Non vogliono fare nulla? Lo dicano: chissà quanti club potranno iscriversi al prossimo campionato?".

di Fulvio Bianchi; la Repubblica

giovedì 9 dicembre 2010

Viva i calciatori

Primo. Le rivendicazioni dello sciopero erano legittime. Nella bozza proposta dalla Lega calcio, un organismo dominato da Adriano Galliani e Claudio Lotito per tramite del giornalista-manager Maurizio Beretta, c'erano clausole contro la legge. Il meccanismo del trasferimento forzato e degli allenamenti a parte per i fuori rosa è discriminatorio e Lotito è già stato condannato per averlo praticato alla Lazio.

Secondo. I tifosi sembrano credere che i calciatori non siano lavoratori. Il peggiore dei cori da stadio per una squadra di scarso rendimento è: andate a lavorare. Notizia: i calciatori sono lavoratori. Hanno una carriera breve e, fra loro, disparità di trattamento economico colossali. Altra notizia: non è vero che guadagnano sempre di più. La maggioranza guadagna sempre di meno e, a parte il caso del Bologna in serie A, i mancati stipendi sono la regola nelle serie professionistiche inferiori.

Terzo. Se il calcio è devastato dagli stipendi dei campioni, la colpa non è dei campioni. Se Messi riempie lo stadio e, con tutto il rispetto, Moscardelli no, la legge di mercato deve premiare Messi. Il calcio è un mestiere di tipo artigianale. Un artigiano molto bravo si chiama artista e se nessuno si scandalizza del prezzo di un Andy Warhol, non si vede perché scandalizzarsi dello stipendio di Ibrahimovic. Warhol e Ibrahimovic basta non comprarli.

Quarto. Il modello economico del calcio è un caso lampante di liberismo integralista e autolesionista. I proprietari dei club sono abituati a non avere regole. Il calcio è un'impresa come le altre, diceva il distruttore di imprese Sergio Cragnotti. Aveva torto. Infatti, la sua Cirio è finita in bancarotta. La sua Lazio è stata salvata.

Quinto. Tutte le terapie proposte per salvare i conti del calcio, dal salary cap alla proprietà degli stadi, sono o impraticabili o palliative.

L'unica cura, semplicissima, è: spendere in base ai ricavi. Se ogni anno un club perde un mare di soldi, come capita a tutti i grandi, deve essere penalizzato in classifica.

Grosso modo, è la strada che tenta di imboccare Michel Platini, il cosiddetto fair play finanziario. È la l'unica soluzione, se davvero gli oligarchi del calcio continentale non si metteranno di traverso. C'è da avere qualche dubbio perché, con il fair play di bilancio, vincerà chi è bravo non chi è ricco o chi perseguita meglio le maestranze.
Meglio i dribbling del mobbing.

di Gianfrancesco Turano; L'ESPRESSO

mercoledì 8 dicembre 2010

Werder Brema-INTER 3-0

Il Presidente pretende di non vedere altre cavolate? Eccolo servito con l'ennesima grande prestazione collettiva.
...E Arnautovic è proprio scarso.