C'è un'immagine passata inosservata che spiega quasi tutto di Antonio Di Natale, da tempo e per qualche tempo ancora miglior marcatore italiano. Questa: la famigerata Italia-Slovacchia in Sudafrica volge al termine, la porta dell'uscita si spalanca con vergognosi cigolii. Il resistibile avversario vince per 3 a 2. I due gol italiani brilleranno nell'album dei ricordi per la loro inutilità. Li hanno segnati Quagliarella e Di Natale.
Cercate le loro facce. Quagliarella piange, disperato: ha fatto una gran cosa, ma fuori tempo massimo e non riesce a darsi pace. Di Natale ride, felice: ha segnato un gol ai mondiali, potrà raccontarlo ai nipoti, ha spremuto quel che aveva, raccolto quel che poteva, va bene così, alla grande. Uno insegue i propri limiti per superarli e, se sconfitto, si abbatte. L'altro ci gioca. E ci fa gol. Quel che succede un paio di mesi dopo è che Di Natale, dall'Udinese, rifiuta il passaggio alla Juventus; Quagliarella, dal Napoli, lo accetta. E guardateli adesso. Di Natale è ancora lì che ride. È in testa alla classifica cannonieri (insieme con Cavani, che ha preso il posto di Quagliarella), è in zona Europa, è a casa. E non se ne andrà mai: uno scugnizzo a Udine, benvenuto al Nord.
Prima di diventare "l'uomo che non è Quagliarella" era stato "il ragazzo che non è Montella". Nato a Napoli, cresciuto a Empoli, sempre all'ombra dell'aeroplanino. Si aggirava per la città con l'aria da guappo, vide una bella ragazza di anni 19 e chiese gli fosse presentata. Quella di nome faceva Ilenia, ma aveva una gemella chiamata Genny (e un paio di genitori che si preparavano al battesimo guardando una soap opera). Pretese di essere rassicurata: "Sicuro che vuole me e non mia sorella?". Risposta: "Vanno bene tutt'e due". Si presentò ugualmente. Accettò una proposta di fidanzamento fatta il primo aprile. La data delle nozze la scelse lei, indovinando un giorno di sole abbagliante. Annunciò di essere incinta nella stessa settimana in cui Totò segnò una tripletta e venne convocato per la prima volta in nazionale, gestione Trapattoni, a galla tra l'acquasantiera di Corea e lo sputo di Totti. Chiamarono il figlio (non Elvis ma) Filippo e lui ne rivela il nome tatuato sul braccio nell'unica immagine che non lo rappresenta: in mutande per la pubblicità di una nota coppia di stilisti. Qualunque cosa dovesse comunicare con gli occhi, il messaggio è: "Guarda Peppì, e mi pagano pure!".
Di Natale ha avuto due sole squadre, ma se le è portate entrambe in spalla. A Empoli, dopo di lui, il diluvio. A Udine, in agosto, già aprivano gli ombrelli. Nessuno in Friuli ha segnato altrettanto. C'è stata una stagione (2005-2006) in cui è stato l'unico italiano a far gol in qualsiasi torneo. Inarrestabile, dalla Champions al biliardino del bar Piave. Perderlo, tutti capivano, avrebbe significato perdere. Ma per lui che cosa avrebbe voluto dire la Juve: salto di qualità o salto nel vuoto? Reduce dalla vacanza a Formentera, accanto a Fabrizio Corona ma con la famiglia, nel momento della scelta lo bacia un raggio luminoso quanto quello del giorno delle nozze. Non è il sole, è la saggezza. Quella che consente di relativizzare l'assoluto e tagliarsi l'esistenza su misura. Tutti proviamo a pilotare la nostra vita, alcuni di noi la spingono, a rischio di schianto, sui percorsi della Parigi-Dakar perché a girare in circuito li attenderebbe una morte sicura. Di noia. Altri capiscono che l'immobilità è la loro forza, nella ripetizione conquistano la velocità, schizzano giro dopo giro dopo giro. Di Natale è cresciuto restando fermo. Sono passati gli allenatori, i compagni, gli hanno tolto le ali (alcune già spennate), non gli hanno mai dato un vero uomo assist (ma ora, occhio a Sanchez). Ha continuato a giocare in quell'uscita ovest della tangenziale italiana e fare tutto praticamente da solo. Quando proprio non vedeva altra possibilità ha segnato perfino dalla bandierina dell'angolo, l'apice del solipsismo: sognare un mondo vuoto, al punto da trasformare in tiro l'azione dal passaggio obbligato.
All'inizio del campionato sembra che sia finito sotto quell'ultimo treno che non ha preso. Non la mette mai dentro e senza di lui l'Udinese affonda. È la prima squadra di Guidolin che parte in folle. Un punto in 5 partite. Di Natale in classifica marcatori: zero. Va perfino in panchina. Quando se ne alza è tornato se stesso. Ha dimenticato i mondiali, la Juventus, quel che è stato e quel che poteva essere. Gli rimane l'eterno presente, l'unico dono che il destino sa farci, se abbiamo la grazia di accettarlo: oggi, e oggi, e oggi. Coniuga il solo verbo che conosce: io segno. Tredici volte nel girone d'andata. In perfetta media Di Natale. Davanti a Ibra. Meglio di lui nello spettacolo al Meazza. Cosa chiedere di più? Niente. Basta ricordarsi che la felicità non ha una gemella.
di Gabriele Romagnoli; la Repubblica
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