domenica 30 gennaio 2011

INTER-Palermo 3-2

Vittoria. Una grandissima vittoria in rimonta: sono altri tre punti... Che però valgono molto di più.
A dir poco deludenti gli esordi dei nuovi Pazzini e di Kharja.

lunedì 24 gennaio 2011

Udinese-INTER 3-1

Tutti giù per terra. Il girotondo delle cinque vittorie consecutive si interrompe al "Friuli" e l'Inter si risveglia un po' intronata, un po' meno sicura di sé. Si sa che le rincorse costano fatica e questa, in particolare, è tra le più difficili: non si deve rimontare solo il Milan ma anche le altre squadre che sono davanti, cioè il Napoli e le romane. Per cinque partite, negli ultimi 17 giorni, l'Inter ha fatto il suo dovere, ritrovando le energie psichiche assenti nell'ultima fase di Benitez e atterrando avversari alla sua portata, oltre al Napoli all'esordio. Ma a Udine certi nodi sono venuti al pettine. La squadra, a parte qualche impercettibile correzione dettata dagli infortuni a Thiago Motta e Milito, in queste partite è stata praticamente la stessa, e contro l'Udinese s'è visto: tutti molto stanchi, o comunque poco brillanti, ed è finita che gli avversari andavano al doppio della velocità. Inoltre Leonardo non ha voluto, o non gli è riuscito di cambiare qualcosa nell'assetto della squadra. Eppure ce ne sarebbe stato bisogno, e parecchio. D'accordo, l'Inter era andata in vantaggio ben presto e sembrava poter controllare la partita, ma quando l'inerzia è cambiata a metà del primo tempo si dovevano prendere contromisure adatte, perché l'Udinese, si vedeva a occhio nudo, era padrona del gioco sulle fasce e lì si doveva intervenire. Invece di interventi non ne sono arrivati, a parte la sostituzione tardiva di Thiago Motta con Biabiany, e l'Inter si è lentamente adagiata sulla partita, senza reagire più. A ben guardare insomma, da Udine giungono improvvisamente segnali allarmanti.

Un elemento, su tutti, sembra farci tornare al passato recente, quello da tutti rimosso come un fastidioso ricordo. Benitez è stato esonerato anche per le sue richieste sul mercato, ritenute esose: "A gennaio mi servono quattro giocatori", proruppe nella famosa notte di Abu Dhabi, a Mondiale per club appena vinto. Fu ritenuto un pazzo, e venne cacciato. Ma dalla sconfitta di Udine qualche allarme arriva, eccome, e forse il non rimpianto Rafa aveva ragione. Ad esempio, è sempre più necessario l'acquisto di un attaccante di peso, che manca come il pane. Se non c'è Milito, come a Udine (e come tante altre volte, perché quest'anno i muscoli del Principe sono di cristallo), l'Inter si ritrova di fatto senza centravanti, perché Eto'o continua a starsene sulla sinistra e guai a chiedergli di spostarsi. E senza centravanti, si sa, nel calcio non si arriva da nessuna parte. Altro che Sanchez o altre seconde punte, all'Inter serve un numero 9: Caracciolo, o uno come lui. Inoltre è fin troppo chiaro che anche a centrocampo servono rinforzi, perché non si può insistere sempre sul trio Zanetti-Cambiasso-Thiago Motta. Col ritorno di Sneijder anche Stankovic potrà dare un aiuto in mediana, ma preso atto che la fiducia di Leonardo in Mariga, Muntari e Obi è limitata, forse si deve intervenire anche in questo reparto. Per non parlare del ruolo di portiere, dove è necessario prendere un vice-Julio Cesar che dia maggiori garanzie di Castellazzi, deludente anche a Udine come in quasi tutte le sue uscite stagionali. Infine, una domanda che comincia a essere inquietante: ma che fine ha fatto Ranocchia? Perché l'unico acquisto del mercato invernale, salutato come il sospirato sostituto di Samuel, non viene mai schierato? Finora, in sei gare ufficiali, ha giocato da titolare solo in Tim Cup contro il Genoa, poi avrebbe dovuto disputare Inter-Cesena ma fu mandato in tribuna nel timore che il suo ingresso provocasse problemi sul piano del regolamento. Forse sarebbe ora di compiere una scelta decisa e rischiare, dandogli finalmente fiducia. Altrimenti questi giovani quando crescono?

di Andrea Sorrentino; la Repubblica

giovedì 20 gennaio 2011

Il tempio della Lanterna

Dal monocolo del marchese Musso Piantelli alle cesoie di Ivan il Nero fa un secolo. Un secolo di storia e di emozioni, di preghiere e di bestemmie, di pianti e di urrà. Di cori, fischi, bandiere. Un secolo di sogni. Era cominciato tutto il 22 gennaio 1911 con un match tra Genoa e Internazionale di Milano. Buon compleanno, Luigi Ferraris: cento candeline per cento anni di gol da favola e partite memorabili, pallonate in tribuna e squallidi pareggi, invasioni di campo, retrocessioni e scudetti: tre rossoblù, uno blucerchiato. Calcio ma anche rugby, concorsi ippici, baseball. Concerti pop, opere liriche, esercitazioni militari. Scimmie, Ufo, fantasmi e una maledizione. Uno stadio ribattezzato il Tempio. Una scatola magica nata per custodire leggende.
Lo stadio più inglese e più antico d'Italia. Il primo monumento ligure da preservare ai posteri, secondo un censimento del Fondo Ambientale Italiano. Più importante dell'Abbazia di San Fruttuoso di Camogli, della cattedrale di San Lorenzo, della grotta di Byron a Portovenere o delle caverne paleolitiche dei Balzi Rossi. Perché Marassi, come è meglio conosciuto per via del quartiere popolare sorto tutt'intorno, rappresenta davvero un pezzo di storia della città e del paese intero. Una storia che sembra uscita dalle pagine di un libro d'avventura, invece è tutto vero.
Qui nel 1935 si giocava già a rugby, l'unico sport cui il regime non "italianizzò" il nome: l'Italia superò la Catalogna, che aveva una sua nazionale. Sessantacinque anni più tardi Lo Cicero avrebbe fatto a cazzotti con gli All Blacks sotto la Gradinata Nord. Dicono che i boati per le reti segnate dal Genoa alla Juventus abbiano coperto il rumore del bombardamento navale degli inglesi, il 9 febbraio del 1941. Durante l'occupazione, con la palla ovale ci si allenavano gli Alleati: i pali erano gialli e neri, qualche yankee provò persino col football Usa. Cinquant'anni fa si esibì la nazionale di baseball cubana, al primo incontro europeo nel segno di Fidel Castro. Su questo prato hanno cantato l'opera, Bruce Springsteen ha ballato la tarantella insieme alla mamma e alla zia. Frank Zappa festeggiò la vittoria azzurra sul Brasile dell'82, Lou Reed giurò di aver chiuso con l'eroina. Dalla e De Gregori scoprirono che quella prima tournée insieme poteva essere un successo. Nei magazzini sotto le gradinate, per anni i fabbri del Comune di Genova hanno forgiato ringhiere e cancelli. E c'era una stanza dove si ricoveravano gli animali feriti trovati nei parchi cittadini: una piccola scimmia fu accudita per settimane, nutrita con banane e frutta regalate dai verdurai del mercato di corso Sardegna. Prima c'erano carbone e fascine sotto il terreno, per impedire le pozzanghere, e il campo era in salita: il dislivello tra la linea di porta e il centrocampo era di quasi di mezzo metro.

Era il prato migliore d'Europa. Poi nel Novanta arrivarono le riprese televisive da una porta all'altra, e allora via la gobba. Adesso rizollano ogni due mesi e nessuno è mai contento. Ci avevano seppellito due medaglie, sotto terra, una d'argento e l'altra d'oro. Quando hanno rifatto il terreno non c'erano più. Qui hanno giocato due Mondiali di calcio. Marcò pure Leonidas, che "segnava gol così belli che anche i portieri si rialzavano per congratularsi". Narrano che tutte le notti i fantasmi dei campioni scomparsi provino e riprovino le azioni sbagliate quando erano in vita, fino a quando la palla non entra in rete. E non mancano gli Ufo, naturalmente: per anni i giardinieri hanno trovato delle misteriose macchie d'erba bruciata a forma di cerchio. Qualcuno sostiene che siano le pipì dei gatti randagi del quartiere, ma non è mai stato provato.

Luigi Ferraris era il centromediano del vecchio Genoa, quello che vinceva tutti gli scudetti. Morì nella Grande Guerra insieme ad altri 25 soci del club (tra gli altri, il terzino Casanova e il leggendario dottor James Spensley, icona rossoblù). Sarà anche per questo che i tifosi del Grifone si sentono i soli padroni di casa. Ma in questo stadio la Samp ci ha vinto un campionato con Vialli e Mancini. E poi qui ci giocava già l'Andrea Doria all'inizio del secolo scorso, in un campo che correva accanto a quello del Genoa: la Cajenna, lo chiamavano.

Da alcuni mesi l'amministrazione comunale genovese ha deciso per il restyling della struttura: insieme agli incontri di calcio tornerà ad ospitare concerti musicali ma anche pièces teatrali, un museo del football su tre piani e convegni. In autunno è stato celebrato il primo matrimonio con foto di rito sul prato. Lo sposo era genoano, la sposa blucerchiata. Hanno pagato seicento euro. "Deve essere un luogo di incontro, di socializzazione: una pagina del passato, del presente e del futuro, a disposizione della città e dei turisti", spiega l'assessore allo sport Stefano Anzalone. Domani sono in programma delle visite guidate per le scuole con visite alle gradinate, spogliatoi, al laboratorio agronomo e proiezione di un video sulla storia del Tempio. Sabato, per festeggiare il centenario, porte aperte al pubblico. I superstiziosi tirano un sospiro di sollievo: avrà termine anche la "maledizione della vecchia", l'anatema dell'anziana proprietaria di un piccolo orto che cent'anni fa fu espropriato per completare la costruzione del campo da gioco. Marassi domenica ospiterà un delicato Sampdoria-Juventus: "Mi accontenterei di celebrare con una vittoria", taglia corto il presidente Riccardo Garrone, che non ha mai nascosto il desiderio di costruire un nuovo stadio genovese, tutto blucerchiato.

Ivan il Nero è l'ultrà serbo che in occasione delle qualificazioni europee ha sfondato a sprangate le vetrate, sradicato seggiolini, imbrattato muri, s'è arrampicato sulle barriere di recinzione e ha tagliato le reti a colpi di cesoia. Non lo sapeva, d'essere a cavalcioni della storia. Il marchese Musso Piantelli, nobile membro del Genoa Cricket and Football Club, è quello che cent'anni fa mise a disposizione un terreno davanti alla sua villa cinquecentesca, di solito lasciato ai cavalli del maneggio. Dicono che da allora tutti, ronzini e fuoriclasse, abbiano sempre corso liberi. E felici.

di Massimo Calandri; la Repubblica

INTER-Cesena 3-2

Leo continua a rivoluzionare il nostro parlato: non c'è quattro senza cinque. E il Milan può iniziare a tremare...

lunedì 17 gennaio 2011

INTER-Bologna 4-1

Non c'è tre senza quattro. Si dice così, più o meno. Altri 2 punti rosicchiati ad un Milan a dir poco mediocre che strappa uno striminzito pareggio contro un inguardabile Lecce grazie ad una clamorosa prodezza di Ibracadabra. Un'Inter totalmente ritrovata, unita per la remuntada.
Consiglio (non richiesto) di mercato per Branca: questo Ramirez non è niente male...

giovedì 13 gennaio 2011

INTER-Genoa 3-2

Un primo tempo magistrale rovinato con un secondo tempo troppo rinunciatario. Nel finale il passaggio del turno è stato messo in discussione, ma questa Inter sa sbandare con giudizio, e dava la certezza di conquistare questo risultato, condito da due capolavori di Eto'o, un'impressionante incornata di Mariga nel sette, dal discreto esordio di Ranocchia, e dalla esagerata ma comprensibile sceneggiata di Muntari.
Buona la prima, la seconda... e ora buona la terza, caro Leo.

martedì 11 gennaio 2011

No grazie

C'è un'immagine passata inosservata che spiega quasi tutto di Antonio Di Natale, da tempo e per qualche tempo ancora miglior marcatore italiano. Questa: la famigerata Italia-Slovacchia in Sudafrica volge al termine, la porta dell'uscita si spalanca con vergognosi cigolii. Il resistibile avversario vince per 3 a 2. I due gol italiani brilleranno nell'album dei ricordi per la loro inutilità. Li hanno segnati Quagliarella e Di Natale.
Cercate le loro facce. Quagliarella piange, disperato: ha fatto una gran cosa, ma fuori tempo massimo e non riesce a darsi pace. Di Natale ride, felice: ha segnato un gol ai mondiali, potrà raccontarlo ai nipoti, ha spremuto quel che aveva, raccolto quel che poteva, va bene così, alla grande. Uno insegue i propri limiti per superarli e, se sconfitto, si abbatte. L'altro ci gioca. E ci fa gol. Quel che succede un paio di mesi dopo è che Di Natale, dall'Udinese, rifiuta il passaggio alla Juventus; Quagliarella, dal Napoli, lo accetta. E guardateli adesso. Di Natale è ancora lì che ride. È in testa alla classifica cannonieri (insieme con Cavani, che ha preso il posto di Quagliarella), è in zona Europa, è a casa. E non se ne andrà mai: uno scugnizzo a Udine, benvenuto al Nord.

Prima di diventare "l'uomo che non è Quagliarella" era stato "il ragazzo che non è Montella". Nato a Napoli, cresciuto a Empoli, sempre all'ombra dell'aeroplanino. Si aggirava per la città con l'aria da guappo, vide una bella ragazza di anni 19 e chiese gli fosse presentata. Quella di nome faceva Ilenia, ma aveva una gemella chiamata Genny (e un paio di genitori che si preparavano al battesimo guardando una soap opera). Pretese di essere rassicurata: "Sicuro che vuole me e non mia sorella?". Risposta: "Vanno bene tutt'e due". Si presentò ugualmente. Accettò una proposta di fidanzamento fatta il primo aprile. La data delle nozze la scelse lei, indovinando un giorno di sole abbagliante. Annunciò di essere incinta nella stessa settimana in cui Totò segnò una tripletta e venne convocato per la prima volta in nazionale, gestione Trapattoni, a galla tra l'acquasantiera di Corea e lo sputo di Totti. Chiamarono il figlio (non Elvis ma) Filippo e lui ne rivela il nome tatuato sul braccio nell'unica immagine che non lo rappresenta: in mutande per la pubblicità di una nota coppia di stilisti. Qualunque cosa dovesse comunicare con gli occhi, il messaggio è: "Guarda Peppì, e mi pagano pure!".

Di Natale ha avuto due sole squadre, ma se le è portate entrambe in spalla. A Empoli, dopo di lui, il diluvio. A Udine, in agosto, già aprivano gli ombrelli. Nessuno in Friuli ha segnato altrettanto. C'è stata una stagione (2005-2006) in cui è stato l'unico italiano a far gol in qualsiasi torneo. Inarrestabile, dalla Champions al biliardino del bar Piave. Perderlo, tutti capivano, avrebbe significato perdere. Ma per lui che cosa avrebbe voluto dire la Juve: salto di qualità o salto nel vuoto? Reduce dalla vacanza a Formentera, accanto a Fabrizio Corona ma con la famiglia, nel momento della scelta lo bacia un raggio luminoso quanto quello del giorno delle nozze. Non è il sole, è la saggezza. Quella che consente di relativizzare l'assoluto e tagliarsi l'esistenza su misura. Tutti proviamo a pilotare la nostra vita, alcuni di noi la spingono, a rischio di schianto, sui percorsi della Parigi-Dakar perché a girare in circuito li attenderebbe una morte sicura. Di noia. Altri capiscono che l'immobilità è la loro forza, nella ripetizione conquistano la velocità, schizzano giro dopo giro dopo giro. Di Natale è cresciuto restando fermo. Sono passati gli allenatori, i compagni, gli hanno tolto le ali (alcune già spennate), non gli hanno mai dato un vero uomo assist (ma ora, occhio a Sanchez). Ha continuato a giocare in quell'uscita ovest della tangenziale italiana e fare tutto praticamente da solo. Quando proprio non vedeva altra possibilità ha segnato perfino dalla bandierina dell'angolo, l'apice del solipsismo: sognare un mondo vuoto, al punto da trasformare in tiro l'azione dal passaggio obbligato.

All'inizio del campionato sembra che sia finito sotto quell'ultimo treno che non ha preso. Non la mette mai dentro e senza di lui l'Udinese affonda. È la prima squadra di Guidolin che parte in folle. Un punto in 5 partite. Di Natale in classifica marcatori: zero. Va perfino in panchina. Quando se ne alza è tornato se stesso. Ha dimenticato i mondiali, la Juventus, quel che è stato e quel che poteva essere. Gli rimane l'eterno presente, l'unico dono che il destino sa farci, se abbiamo la grazia di accettarlo: oggi, e oggi, e oggi. Coniuga il solo verbo che conosce: io segno. Tredici volte nel girone d'andata. In perfetta media Di Natale. Davanti a Ibra. Meglio di lui nello spettacolo al Meazza. Cosa chiedere di più? Niente. Basta ricordarsi che la felicità non ha una gemella.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

domenica 9 gennaio 2011

venerdì 7 gennaio 2011

Rivoluzione carioca

È quasi sconvolgente la rivoluzione che Leonardo rappresenta per l'Inter. Dell'Inter, dell'interismo, del modo di essere interisti della società, dei calciatori e dei tifosi da che l'Inter esiste, Leonardo è l'opposto. È noto ben al di là del luogo comune, ed è stato nuovamente visibile a chiunque anche nella parte finale del 2010: l'interista è insoddisfatto, pessimista, passatista. E tragico. Anche i due allenatori che più hanno fatto la storia del club, Herrera e Mourinho, pur compiendo anche loro – ciascuno a proprio modo – delle rivoluzioni enormi, erano e restano figure fondamentalmente tragiche. O comunque stravolte dalla tensione, dalla consapevolezza di portare sulle proprie spalle il peso di una storia, di un carisma grazie al quale la traversata del deserto sarebbe diventata possibile.

Leonardo arriva all'Inter e parla di “voglia enorme”, di “sogno”, di sfida “straordinaria”. Poi vince la prima partita e spiega: «Adesso, perché viviamo il presente, stiamo a guardare anche le cose che non vanno o che non hanno funzionato. Ma tra vent'anni, il 2010 verrà ricordato come l'anno dell'Inter più forte di tutti i tempi. Perciò, mi chiedo: perché non vivere già adesso la piena consapevolezza della nostra grandezza? Perché non godere tutto ciò?». E già questa è la cosa meno interista che si sia mai sentita in quasi 103 anni di storia. Eppure Leonardo ha altro da aggiungere: «Godere di tutto questo ci permetterà di giocare divertendoci». Non male per uno che poco prima ha detto: «Se devo descrivere come mi sento, faccio fatica. Perciò non voglio capire, voglio vivere tutto questo».

Insomma, un sentimento non si prova, s'indossa direttamente. Questo è, questo sarà Leonardo. Questo non è, questo non è mai stata l'Inter. Perciò la sua sfida è enorme. Perché è una sfida a 103 anni vissuti all'opposto. Il che non significa ovviamente che l'avventura in nerazzurro del brasiliano sarà una lunga strada di trionfi, sorrisi e felicità. Anzi. Ma la rottura è senza precedenti. Lo spiazzamento che il nuovo allenatore dell'Inter produce in chi lo ascolta è totale. Indipendentemente dai risultati. Se non verranno, è già evidente che a cambiare – cioè a continuare a restare se stessa - sarà l'Inter (come è peraltro accaduto con Benitez, per ragioni esattamente opposte), non lui. Perché l'altra cosa apparsa evidente nella prima notte a San Siro da allenatore interista è che quasi tutto del modo di essere di Leonardo è sembrato profondamente naturale, in un modo che il cinismo italiano e la cupezza interista faticano a riconoscere, capire e accettare.
E infatti, Leonardo italiano non è. È un carioca. Anzi, il meglio dell'essere carioca, con quella faccia che esprime solo felicità di esserci e gioia di stare al mondo, trasmesse nell'unico modo possibile: emanando palate di energia positiva. Pensateci: quanti interisti conoscete, che gli assomiglino, anche solo un po'? Per chi ama assistere alle sfide apparentemente impossibili, lo spettacolo è appena iniziato.

di Tommaso Pellizzari; CORRIERE DELLA SERA

INTER-Napoli 3-1

Ottimo esordio per Leo che ha in campo la "vera" Inter, e per gli uomini e per lo spirito.
Intanto questo Thiago Motta aspetta una telefonata da Prandelli.

domenica 2 gennaio 2011

Retrospettive (III)

OBILALE KODJOVI
(ex calciatore)
L'imboscata alla nazionale del Togo a Cabinda (Angola) nell'ultima Coppa d'Africa molti l'hanno dimenticata. Non può farlo chi ne porta i segni, come questo portiere non famoso (serie C francese) costretto a smettere di giocare e, forse, di camminare.

ORMEZZANO GIAN PAOLO
(giornalista)
Il vecchio, ma non rimbambito, Gpo per me è più di un collega, da tante ne abbiamo vissute seguendo lo sport. "Non dite a mia mamma che faccio il giornalista sportivo, lei mi crede scippatore di vecchiette" è il titolo del suo ultimo libro, che rifà il verso a Jacques Seguéla, noto pubblicitario francese. È un libro di ricordi che mescola Alì e Moser, la Simeoni e Pelè, Meroni e Berruti, Platini e Zoff. Un libro da 8, direi anche di più se non temessi di sembrare parziale. Bella anche la prefazione di Massimo Raffaeli.

OSS DANIEL
(ciclista)
Se gli allentano il guinzaglio, dalle classiche del Nord con qualcosa di buono torna di sicuro. 7,5.

PASTORI SARDI
Non saranno le manganellate a cancellare le loro ragioni. E ormai non hanno altra strada che la strada. Amaro 9.

PAUL
(polpo pronosticatore)
Non è che morto un Paul se ne fa un altro. Si può variare. Basta piazzare tre contenitori di cibo con su scritto 1, X e 2 e poi provvedere. Può bastare un cane (Oliviero il levriero), o un gatto (Gaetano il soriano) o chi vi pare, a seconda dei mezzi: Gino il babbuino, Simeone il leone, Riccardo il ghepardo, Lillo l'armadillo, Casimiro il tapiro e la pantera Neera. Tanto i pronostici non li sbaglia solo chi non li fa, come diceva Brera.

PELLEGRINI FEDERICA
(nuotatrice)
I Mondiali di Dubai e la rottura col tecnico Morini preoccupano un po', in vista di Londra. Ma non troppo: 7,5.

PITTIN ALESSANDRO
(sciatore)
Uno dei pochi giovani emersi a Vancouver, fa scoprire all'Italia una disciplina misteriosa come la combinata nordica: 8.

POLVERELLI ROBERTO
(allenatore)
Con la rappresentativa di serie D arriva in semifinale al torneo di Viareggio. 8 strameritato.

PORCEDDA SERGIO
(ex presidente Bologna)
Una delle ultime barzellette dell'anno, solo che non fa ridere. Voto 3.

PRIVIERO MASSIMO
(cantante)
"Rolling Live" conferma la buona vena rock di questo veneto trapianto a Milano, molto attento ai testi e alla sua libertà: 8.

QUAGLIARELLA FABIO
(calciatore)
Simbolo di imprevedibilità, merce rara. 9

RANIERI CLAUDIO
(allenatore Roma)
È quello che ha fatto più punti nel 2010. Si compiaccia, si rilassi, provi a sorridere: 7,5.

RAZZOLI GIULIANO
(sciatore)
In slalom, unico oro olimpico, ma è il dopo-Olimpiadi che allarma. 7 di incoraggiamento.

RED BULL
(Formula Uno)
Vince il Mondiale piloti e costruttori nonostante una tattica leale (o suicida) che non prevede ordini di scuderia: 9.

ROSSI VALENTINO
(pilota)
Ha fatto incetta di voti altissimi. Vediamo come se la cava con la Ducati. Sfida non facile, 8 per ora.

REJA EDOARDO
(allenatore Lazio)
Occhio alle fronde interne, il difficile viene adesso. Se si facesse espellere un po' meno, sarebbe da 9.

SCHIAVONE FRANCESCA
(tennista)
"La cosa che mi piace di più è baciare la terra". Ma quanto è piaciuto anche a noi vederla, stravolta e felice, baciare la terra del Roland Garros: 10.

SCHWAZER ALEX
(marciatore)
Il campione di Pechino dice di non divertirsi più e si separa dal tecnico Damilano. Altro enigma preolimpico. Voto sospeso.

SIMONI GIGI
(dt Gubbio)
Scottato dalle ultime esperienze nel cosiddetto calcio che conta, sta pilotando la squadra umbra verso la serie B. Complimenti a un gentiluomo non d'altri tempi, se ancora si ritrova in questi: 8,5.

SPALLETTI LUCIANO
(allenatore Zenit)
Primo italiano a vincere lo scudetto in Russia. Con una squadra forte, è vero, ma anche con molta autorevolezza: 8,5.

TABAREZ OSCAR
(ct Uruguay)
Altro gentiluomo della panchina, presenta una squadra bella, tosta, che esalta la "garra charrua" senza farla tracimare. Quarto per un pelo, ma la traversa di Forlan può compensare il mani di Suarez col Ghana. Voto 8.

TAGLIAVENTO PAOLO
(arbitro)
Primo arbitro italiano a fermare una partita di serie A per cori razzisti. Bravo: 9.


TROST ALESSIA
(saltatrice in alto)
Una delle promesse della nostra atletica è questa ragazza di Pordenone. Bene augurante 7,5.

VAN DEN VORST MONIQUE
(ex atleta disabile)
Olandese, 26 anni, tre ori mondiali e due argenti paralimpici con la handbike. Dopo tredici anni sulla carrozzella torna a camminare. Nessun voto adeguato alla gioia di risentire i piedi, le gambe, alla felicità del movimento ritrovato.

VARGAS LLOSA MARIO
(scrittore)
Il peruviano, Premio Nobel per la Letteratura, dà il calcio di inizio di Real Madrid-Valencia il 4 dicembre. Mi sforzo, ma non ricordo che Montale o Fo o Quasimodo siano mai stati invitati all'equivalente, in Italia. Anche quando la cultura faceva meno paura. Vargas Llosa dirige anche un master all'Università europea di Madrid per chi volesse specializzarsi in calcio e dintorni (comunicazione, marketing, salute, etica, gestione). Segnalazione di pura cronaca, senza voto.

VASSALLO ANGELO
(sindaco di Pollica)
Altro nome da ricordare. Ammazzato solo perché faceva gli interessi della sua gente e non della malavita. Isolamento da vivo e tanti applausi da morte, così pare vadano le cose.

VENDOLA NICHI
(politico)
La parola "passione" salta sempre fuori, quando si parla di lui. E qualcosa vorrà dire. Per me 8,5.
VERITAS
(ristorante)
A Napoli, miglior pranzo del 2010.

VICTORIA
(aquila)
È la sorella portoghese di Olympia, l'aquila laziale. Ma non vola più da tre settimane sul Da Luz per una lite tra il Benfica (in arretrato con i pagamenti) e Juan Bernabè, l'addestratore. Il club vuole rimpiazzare Victoria con altro esemplare e, ovviamente Bernabè con altro addestratore. Uno squallore da 5.

VITTEK ROBERT
(calciatore)
Ahn, forse perché sotto Gaucci, aveva avuto più pubblicità come affossatore dell'Italia. Strano che nessuno abbia ingaggiato questo nerboruto slovacco (7).

WHITE SHAUN
(sciatore)
Giovane e alternativo, affascina il pubblico olimpico con esibizioni spettacolari e molte pericolose nello snowboard half pipe: 8,5.

ZANETTI JAVIER
(calciatore)
Gioca meglio adesso di quando è arrivato, una vita fa. E, da buon capitano, gioca sempre per la maglia che porta e mai contro l'allenatore: 9.

ZENGA WALTER
(ex allenatore Al-Nassr)
Lascia la squadra al secondo posto nel campionato saudita e sbatte la porta. "Non mi licenziano, sono io che me ne vado. Sono senza stipendio da sei mesi, come il mio staff". Se anche gli arabi prendono la brutta abitudine di non pagare, con tutti i petrodollari che hanno, il mondo del pallone si restringe, e l'episodio ci costringe a scrivere 3.

ZOEGGELER ARMIN
(slittinista)
"Solo" (avverbio osceno, nel caso) terzo a Vancouver, subito si rilancia vincendo a 37 anni in Coppa, una gara dopo l'altra: 8,5.

di Gianni Mura; la Repubblica