domenica 28 novembre 2010

INTER-Parma 5-2

Partita sempre in bilico, nonostante il risultato possa far intuire altro. Protagonisti dell'incontro, ovviamente, i marcatori: Crespo (doppietta), Stankovic (tripletta), Cambiasso e Thiago Motta, al rientro. Ma anche Jonathan Biabiany, imprendibile.

sabato 27 novembre 2010

Abbiamo capito

Viene a trovarmi il mio amico Carlo Zuccoli, uno dei maggiori esperti italiani di ippica, e tennista non vile. Da grande competente, Carlo sa tutto sulle scommesse e, come ci sediamo in tribuna, mi domanda perché non porti con me il mio computer, e si sorprende, nel sentirmi rispondere che è proibito, e che addirittura potrebbero sequestrarmelo. La ragione è più che evidente. Da addetto ai lavori potrei conoscere le condizioni di salute dei tennisti, come accadde in un famoso match in Polonia tra Davydenko e Vassallo Arguello, in cui le puntate piovvero sull' argentino prima che il russo, favoritissimo ma infortunato, si ritirasse.O addirittura potrei comunicare in tempo reale chi ha segnato il punto, e scommetterci prima che giungano, sui televisori, le relative immagini. Zuccoli cava di tasca sorridendo un palmare, si collega a Bet Fair e ad un altro Bookmaker, per dirmi che le quote dei giocatori che stanno palleggiando, Federer e Soderling, sono 1.15 e 4 ½. Poi, sorridendo, mi invita a seguire, ad ogni punto, i mutamenti delle quote. «Non accadrà come nel famoso match di Davydenko», obbietto.
«Me lo auguro», risponde, «ma stiamo a vedere».
Inizia il match, Federer va in testa, si fa ripigliare, infine raggiunge il suo quinto gioco e, grazie all' ignobile formula del quoziente game, è a questo punto qualificato per la semifinale. Simile successo parziale, che potrebbe provocare nello svizzero un rilassamento, non sembra invece riguardarlo, tanto che sussurro al mio amico: «Vincendo il match, Roger non solo si qualificherebbe per le semifinali, ma al primo posto del suo gironcino». L' amico sorride, e mi mostra, sul suo palmare, il mutamento delle quote. Federer è disceso alla pari, Soderling è salito a 5 e ½. Non è finita. Dopo il sei pari, e un tiebreak in cui Roger servirà sempre la prima e fulminerà tre ace, eccolo classificato al primo posto nel girone, sempre grazie ai fottuti regolamenti, come li chiama il mio amico. Mi sottopone nuovamente le quote, con un Federer sceso sotto la pari, e Soderling salito tra l' otto e il nove.
«A questo punto - soggiunge Carlino - se Federer volesse sussurrare qualcosa ad un amico scommettitore, potrebbe perdere il match, guadagnare qualche milione di sterline, e qualificarsi lo stesso. Cosa te ne pare?».
«Mi pare sempre di più una formula che fa schifo. E ringraziamo gli Dei che Federer sia un' onesta persona». «Peccato tu non scriva in inglese», conclude Zuccoli, nel salutarmi.
«Forse, capirebbe qualcuno in più».

di Gianni Clerici; la Repubblica

giovedì 25 novembre 2010

INTER-Twente 1-0

Finalmente si torna a vincere, giocando più col cuore che con la testa, la maniera più efficace per portare a casa certe partite.

martedì 23 novembre 2010

A proposito...

Eto'o si becca, oltre ad una multa di 30.000 euro (noccioline), tre giornate di squalifica.
L'Inter presenterà ricorso sperando di scendere a due, ma comunque bisognerà fare a meno dell'unico che finora l'ha messa dentro.

Pelo

Più Pelo per tutti! Con questo allegro slogan la curva del Chievo ha accolto il ritorno in campo del suo capitano, Pellissier Sergio da Aosta, 10 anni e 87 reti con la stessa maglia, in B come in Europa, finché pensionamento non li separi. Ha 31 anni, ma è molto più giovane di quando ha cominciato a giocare su questo campo defilato, senza immaginare che si sarebbe preso la luce dei riflettori, la fascia da capitano, una maglia (proprio una) della nazionale e che una domenica di novembre avrebbe, tornando da un infortunio, affondato l'Inter, segnando come Eto'o, ma uscendo, lui, a testa alta, con l'inedita umiltà dei vincitori.
È un animale in via d'estinzione, Pelo: incarna la specie a rischio degli attaccanti di provincia. Discende dai Maraschi di Vicenza, dagli Hubner di Cesena. Condivide un testardo presente con Di Natale a Udine. Non prevede eredi, ha una figlia femmina di nome Sofia che veste di gialloblu e mostra al popolo adorante come una principessa ignara. Dopo di lui, il diluvio, ma intanto piovono gol.
Pelo è un uomo di montagna, ruvidamente avvolto nel silenzio, aggrappato a un tronco di semplicità. Cominciò al Torino dove, ma che sorpresa, non lo capirono. Lo prese il Chievo, quando ancora uno si chiedeva che autostrada prendere per arrivarci. Lo diede in prestito alla Spal. Andava a mangiare in un ristorante convenzionato. S'innamorò di una ragazza che ci lavorava. Una storia d'amore e buoni pasto. Poiché le parole definitive gli inciampavano in gola si dichiarò per e-mail. Andarono in luna di miele a New York, poi si stabilirono nel libero stato di Chievo, repubblica federalista di Verona. Lì, partiti Marazzina e Corradi, è diventato il faro dell'attacco, il capitano, il sindaco (volendo). Riverito, ma non controllato. Amato, ma non asfissiato.
È il miglior cannoniere della storia della squadra. Punta ai 100 gol prima di lasciare e il suo sito si apre coniugando all'infinito molti verbi (correre, sudare, lottare), ma non quello. Se prendete un qualunque goleador da copertina e lo fotocopiate in bianco e nero viene fuori Pelo. Non passa le serate all'Hollywood ma a casa con la moglie, giocando insieme alla playstation o guardando lo snooker in tv. Al polso ha uno Swatch.
Dice cose come: "La passione è quella cosa che ti fa guardare le caviglie gonfie e sorridere", "Se segno sono felice", "Chievo è il mio paradiso". Per due volte è stato vicino all'ascensore che l'avrebbe portato ancora più su. Due anni fa lo voleva il Napoli e lui era pronto. Ci è rimasto male quando ha capito che offrivano troppo poco, ma l'ha presa come una lezione. Quando l'estate scorsa è arrivata la chiamata della Fiorentina, con ingaggio raddoppiato, è stato lui a riappendere. Meglio un posto sicuro in prima squadra. Meglio giocare. E meglio ancora dire: "Io lo so come vive la gente e se penso che guadagno già venti, trenta volte più di uno che ha studiato, perché dovrei volere di più?".
Ha avuto perfino la nazionale, anche se è stata la storia di una notte. L'ha raccontata presentando il libro di Gigi Cavone e Francesco Facchini "Romanzo mondiale" di cui ha scritto la prefazione. Coverciano, nel suo ricordo, sembra un posto sospeso tra Disneyland e la Città del Sole. La porta dell'albergo che si chiude alle sue spalle mentre con la sacca dal bordo tricolore si avvia al campo è una porta che si apre. Nel prepartita, accarezzato dai cori che inneggiano all'Italia, scambia due chiacchiere con l'unico con cui ha già giocato: Matteo Brighi. Ha l'estrema dignità di ammettere: "Ero lì come sostituto di un sostituto". Si era fatto male Floccari. La prima volta va bene così. La seconda, considera, meglio andarci perché sei una vera scelta, sennò tanto vale restare a casa con la famiglia. Poi entrò pure in campo e segnò un gol: il terzo, il più bello. Non fu "l'inizio di una bella amicizia", fu la fine di tutto. Ai Mondiali non ci è mai arrivato. Non si è perso molto: poteva partecipare alle nomination del Sestriere, o andare in Sudafrica e fare Quagliarella, segnare fuori tempo massimo. Di sicuro non avrebbe pianto. Ha il senso del pudore, delle proporzioni e della realtà.
Sentendo parlare di Argentina '78 (aveva sei anni), del trofeo propaganda, del capitano Carrascosa che si chiamò fuori per protesta, delle torture a pochi passi dallo stadio, ha domandato, più sensato che ingenuo: "È tutto vero, sì? Ma perché nessun giornalista ne parlò allora?". Perché spesso i giornalisti sono difensori con pessima scelta di tempo. Entrano in scivolata quando già la palla è lontana, l'attaccante è scappato via. S'annoiano del mondo, mai di se stessi. Il Chievo? Uh, una vecchia favola moralista. E intanto ti sfugge il Pelo, un pelo d'etica nell'uovo marcio.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

lunedì 22 novembre 2010

Chievo-INTER 2-1

Continua il grande momento dell'Inter, sotto l'aspetto del gioco, della brillantezza e dei risultati. Così un Chievo che non segnava da quattro (!) partite infila due gol a Castellazzi, come sempre molto sicuro e autoritario sulle uscite. Ma quello che preoccupa di più è la squalifica che andrà a prendersi Eto'o per una testata degna del miglior Zidane.

giovedì 18 novembre 2010

Siamo tutti Balotelli

C'era una volta la Nazionale, con la voglia di stare tutti uniti almeno in occasione delle partite dell'Italia. C'era una volta una squadra di tutti, un simbolo. Adesso, anche quando gioca l'Italia, si respira un clima insopportabile: dopo la partita maledetta di Genova, ecco il razzismo nelle sue varie forme. I buu e i cori contro Balotelli hanno accomunato gli ultrà azzurri e quelli romeni. E non capiremo mai in quale logica se non calandoci in tanta immensa e nera (questa sì) ignoranza. C'era una volta la nazionale, perché aspettavamo questa partita per riconciliarci col calcio dopo i fatti devastanti di Genova: la violenza e il delirio degli ultrà serbi, la partita sospesa, gli incidenti gravissimi dentro e fuori lo stadio. E invece non c'è stata alcuna riconciliazione, la partita rovinata da un razzismo becero e insopportabile. Forse qualcuno avrebbe dovuto intervenire, forse l'arbitro doveva essere sollecitato, forse i giocatori stessi avrebbero dovuto fermarsi, in ogni caso è assurdo e inconcepibile che questo accada. Questa storia va avanti da due anni e non ne siamo mai usciti, ce la portiamo appresso come una maledizione, un cancro del nostro sport.

Forse una cosa positiva alla fine di tutto questo c'è: speriamo che nessuno intervenga più nella polemica negando che questi non siano cori razzisti, ma solo contestazione verso un giocatore. Né più né meno fischi di disapprovazione per un gol sbagliato. Che la pelle insomma non c'entra. Invece c'entra, eccome. Ormai è dimostrato: il razzismo negli stadi cresce e si moltiplica. E' diventato quasi una moda, un rito assurdo, allucinante. Speriamo che almeno ci si renda finalmente conto del problema, che non lo si nasconda più, e che si cominci ad affrontarlo con tutte le armi possibili. Idea personale: che le squadre si fermino e che il pubblico venga richiamato, in questi casi è fondamentale.

Fin troppo bravo è stato Balotelli costretto a vivere con questa storia che lo insegue e non lo abbandona mai. Di città in città, di stadio in stadio: ogni volta che mette piede su un campo, o anche in un bar o una piazza (è capitato pure questo, purtroppo) il muro di fischi e buuh che lo rifiuta. Ha giocato la partita con grande freddezza, e persino con grande efficacia (è stato uno dei migliori in campo) senza farsi condizionare.

Ha provato anche a scappare in Inghilterra, ma ogni contatto con l'Italia a questo porta. Quello degli ultrà italiani che lo hanno contestato era un piccolo gruppo, qualche decina di esaltati che come prova di virilità, nel loro delirio, guardano queste partite al freddo a torso nudo: hanno pure fatto molti chilometri e sono arrivati fin qui a Klagenfurt in Austria per farsi notare. Per pubblicizzare il loro razzismo. Ma sono qualche decina di razzisti dietro cui si cela purtroppo una massa molto più grande. "No all'Italia multietnica" - lo striscione che gli ultrà Italia hanno esposto nel secondo tempo - è un concetto purtroppo condiviso da molti.

A tutti loro rispondiamo che "Siamo tutti Balotelli". E basta.

di Fabrizio Bocca; la Repubblica

lunedì 15 novembre 2010

INTER-Milan 0-1

Sarebbe stata una notiziona, l'anno scorso (e non solo), ma non lo è. Purtroppo.

giovedì 11 novembre 2010

Lecce-INTER 1-1

Ragazzi, se perdiamo il derby finiamo a meno 6 dal Milan. Dimostrate chi siete.
Siamo con voi.

martedì 9 novembre 2010

R. Baggio

Campione grande e atipico, difficile da collocare non solo in campo: Roberto Baggio è un "fuori taglia", un personaggio altro, talvolta altrove. E' diventato buddista in anticipo sulle mode, quando quel tipo di scelta non era ancora da copertina (l'attore famoso, il cantante in cerca di se stesso, qualche guru da asporto). Era, nel suo caso, la risposta a una ricerca di senso. A Baggio accadde dopo un infortunio molto grave, quando il dolore del corpo dice al fuoriclasse, al privilegiato, che anche i marziani possono atterrare in un istante sul pianeta di tutti, quello dove si soffre, si è soli, si viene sconfitti e la pelle è cucita dalle cicatrici.
Persona schiva, Roberto Baggio è scivolato via dal calcio dal giorno del suo ritiro fino a poche settimane fa, quando la Federcalcio gli ha offerto un incarico ufficiale nell'anno nero del nostro pallone: se non sarà solo un ruolo di facciata, è possibile che Baggio - dalle profondità del suo silenzio, che però non è vuoto - trovi qualche idea per rilanciare, magari, il talento così bistrattato rispetto a muscoli e palestre.
Simile a Francesco Totti per l'impegno umanitario e benefico, Baggio (come il capitano della Roma) preferisce fare il bene a fari spenti, e per questo la sua azione vale di più. Non sorprende, dunque, questo premio che i Nobel gli hanno assegnato, perché davvero Baggio ha presente che la sofferenza e la miseria altrui non sono concetti astratti. E se può, quando può, aiuta. Probabile che lo stia facendo anche adesso, nel suo Veneto martoriato dall'alluvione: ne ha sofferto Caldogno, il suo paese, il suo borgo vicentino dove sempre Baggio si è rifugiato in mezzo alle tante tempeste della carriera (il passaggio quasi blasfemo dalla Fiorentina alla Juventus, il rigore sbagliato a Pasadena, i rinnovi contrattuali complessi come incontri al vertice tra capi di stato), perché la dimensione domestica è quella che gli appartiene di più. Oppure, per contrasto, Baggio sceglie la fuga verso le praterie, o nella pampa argentina dove ama cacciare (nessuno è perfetto, neppure i buddisti) e dove il concetto di amore universale difficilmente si coniuga con il fragore della doppietta. Ma sono dettagli, è la semplice cornice di un quadro complesso, a tinte forti, anche se la leggerezza del suo modo artistico di vivere lo sport ha alleggerito i pesi, ha tolto spessore all'intricata complessità delle cose. Uno vero, comunque, Robibaggio. E raro.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica

INTER-Brescia 1-1

Sempre peggio, nella sfiga e nel gioco.
...Ma soprattutto auguri Walter!!!

mercoledì 3 novembre 2010

Tottenham-INTER 1-3

Il finale di partita dell'andata si è protratto, con immenso dispiacere per i nostri.

lunedì 1 novembre 2010

Formula Fernando

Le mani di Fernando Alonso Dìaz sono ancora mani da ragazzo. Sottili, glabre, le vene azzurre si scorgono appena attraverso la pelle del dorso, le unghie sono curate, una fede d'argento è infilata all'anulare destro. Ai polsi non porta nulla. Le tiene appoggiate sui jeans chiari. Il resto sono scarpe da ginnastica, t-shirt nera e felpa grigia. Nelle mani c'è una parte del suo talento. "In gara con una mano in media cambio marcia settanta, settantacinque volte ogni giro. Schiaccio un pulsante sul volante, seguendo le indicazioni di una luce graduata sul computer. Nello stesso momento con l'altra mano modifico i parametri della macchina. Ne abbiamo quaranta, dalla mappatura del motore, al differenziale, dal freno motore alla miscela della benzina, dal sottosterzo al sovrasterzo. Mentre faccio queste operazioni penso a come affrontare la curva successiva, ascolto ciò che gli ingegneri mi dicono dai box, se piove e non vedo assolutamente nulla leggo il circuito che mi sono impresso nella memoria, calcolo mentalmente in quale punto di esso mi trovo in quel preciso secondo, cerco di scorgere chi mi precede e chi mi sta dietro".

Parla lentamente, con l'indulgenza dei giovani bene educati messi di fronte a uno sprovveduto. Lo ascolto, so che non riuscirò a riportare con fedeltà la tecnica che sta illustrando con tanta naturalezza, ma sarebbe così anche se avessi di fronte un ciabattino. Alonso sorride, di nascosto, e in quest'ombra si accomoda l'altra parte del talento, quella che sta nella sua testa, ed è la freddezza. Del campione, dell'uomo non so, anche se pare di vedere in lui il solco della solitudine, quella necessaria in un mondo in cui se sei solo non può accaderti nulla di male.

"Rimanere da solo mi piace molto, stare lontano dalla gente, dal rumore. Vivo a Ginevra. Mi alzo alle dieci o alle undici del mattino, una fortuna che condivido con pochi, forse con gli scrittori? Salgo sulla bici, una bicicletta da corsa, e sto in sella fino alle due del pomeriggio. Penso. Penso alle cose che devo fare, al prossimo gran premio, alle mie faccende private. Faccio calcoli, programmi... Alle tre e mezzo mangio, poi esco a fare la spesa, la sera guardo la tv, vado al cinema, qualche volta a teatro. Non ceno mai prima delle undici. Tutto qui".

Alla Ferrari per qualcuno Schumacher era il "monaco", c'è chi impiegò due anni per trovare il coraggio di rivolgergli la parola. Fernando era il "nemico", in due settimane li ha condotti tutti dalla sua parte. Da solo, senza portarsi neppure un suo ingegnere. "Non so a chi assomiglio, credo sia impossibile fare raffronti con i campioni del passato. Non ho studiato nessuno, mi sono costruito da solo il mio stile di guida. Quando avevo otto anni c'era Senna, ma in Spagna la Formula Uno allora aveva poco appeal e scarso spazio televisivo. Ecco, Ayrton lo ricordo in tivù. Lo ammiravo soprattutto perché mi piacciono quelli che vincono. Sul lavoro sono un perfezionista, non mi risparmio, sono molto concentrato sui dettagli. Qualcuno può definirmi per questa ragione un rompicoglioni. Non mi offendo".

Nella Formula Uno dicono che ci sono uomini che si riconoscono da come consumano le gomme nelle curve. Alonso vi arriva dritto, punta la curva con il muso della macchina, poi gira di colpo. Niente di morbido, le gomme lui le scava. È uno che può permettersi di non essere ipocrita, a costo di apparire feroce. In dio non crede: "È stata una mia scelta". Si fida poco anche degli uomini: "Sono timido, chiuso, se mi chiedi il numero di cellulare non te lo do, è un modo per proteggermi". Non ha mai votato: "Mi manca il tempo di seguire la politica". E non ha paura della morte. "Non penso di fare un mestiere pericoloso, mi dico: Fernando, stai sereno, non succederà mai niente di brutto. E se dovesse accadere non potrei cambiare il corso del destino nell'ultimo secondo riservato alla mia esistenza".

È venerdì mattina, lo chiama Montezemolo. Vuole semplicemente sapere se è in forma. Gli dice che la Ferrari vuole vincere il mondiale, è naturale. Mancano due gare, Brasile e Abu Dhabi. Alonso gli risponde che può essere come no, quasi lo tranquillizza. È venuto a Oviedo per riposarsi. Questa è la sua terra, la sua famiglia, l'infanzia, l'adolescenza. Qui c'è la verità. C'è Fernando e basta. Martedì prenderà un aereo per il Sudamerica e allora tornerà a essere Alonso. "Posso vincere. Posso perdere. Tutto in poche ore, in pochi minuti, in un attimo. È la quarta volta in sei anni che mi trovo in una situazione del genere, in due occasioni mi è andata bene e sono diventato campione del mondo. Lo stress è sempre lo stesso, ci sono abituato".

Nelle Asturie, terra di montagne, foreste e mare in uno spazio di sessanta chilometri, in questa stagione la mattina è buio fino alle nove. "Sono entrato sempre a scuola di notte". Il ristorante Tierra Astur è di legno e vetro, gli passi davanti e vedi chi c'è seduto ai tavoli. Dentro incontri soprattutto ragazzi, i camerieri alzano a tutto braccio la bottiglia di sidro sulla testa per versarlo nel bicchiere che tengono con l'altra mano all'altezza del ginocchio. Un po' di sidro cade sempre sul pavimento, rendendolo molto scivoloso. È uno dei locali preferiti da Fernando. Ogni tanto ci viene per sfidare la fabada, fagioli bianchi, coda, orecchie e stinco di maiale, sanguinacci, un osso di jamon serrano, lardo, cipolle, due denti d'aglio e altri ingredienti infuocati. "Ma i miei piatti preferiti sono la pizza, la paella e le tortillas. Sono fiero di essere asturiano, credo sia la sola terra della Spagna che non è mai stata conquistata, anche se venne saccheggiata da Napoleone e assediata durante la guerra civile. Ovunque siano nel mondo, gli asturiani portano la bandiera piegata nella valigia, la croce gialla in campo blu. Io ce l'ho disegnata sul casco".

La sua famiglia da qualche anno abita fuori città. Il padre Josè Luis fabbricava esplosivi per le miniere, la madre Ana lavorava in un centro commerciale, la sorella Lorena, che ha trentaquattro anni, cinque più di Fernando, è medico. La casa dei ricordi, però, stava in centro, in via Capitan Almeida, quella la strada, ora è diventata via Fernando Alonso. "In quell'appartamento ho trascorso vent'anni della mia vita, ho nella testa ogni sua mattonella, la mia camera, il tavolo sul quale allineavo le macchinine rosse, il corridoio dove correvo stringendo un volante tra le dita e mimavo il rumore del motore con la bocca. Ricordo le passeggiate con mia nonna, Luisa, le sue parole rassicuranti quando mi lasciava davanti al portone della scuola. Non ero un bambino di grandi sogni. Se giocavo a pallone m'interessava vincere, se ingaggiavo una corsa in bici con i compagni di classe il mio solo desiderio era di arrivare primo. Sono diventato pilota non perché lo ha scelto papà o la vita, ma perché lo ha deciso il risultato".

Un giorno suonerà la campana della fine. "Lo so, ho fatto la mia prima gara a tre anni. Ne ho ventinove, potrei arrivare, che so, a trentasei o trentasette, come potrei smettere prima. Quando scenderò dalla macchina scenderò anche dalla Formula Uno. A me piace guidare, vorrei organizzare un'academy, insegnare il mestiere. Ci saranno nuove esperienze da affrontare. Invecchierò e non sarà facile affrontare questa realtà. Sono stato sempre il più giovane in tutte le categorie, non lo sarò più. Arriveranno altre sfide. I figli, la famiglia, credo succederà presto. Un posto dove stare e costruire finalmente qualcosa lì. Mi piacerebbe Tokyo, ma è soltanto una suggestione. Oggi non riesco a immaginare un'altra vita per me. Sono stato trattato molto bene dal destino fin qui". La moglie di Alonso è una cantante pop, Raquel Del Rosario. Il suo gruppo si chiama Il sogno di Morfeo. Si sono conosciuti durante un'intervista radiofonica fatta a Fernando in un palazzetto dello sport di Madrid. C'erano oltre quindicimila persone, Raquel si esibiva nelle pause, appena prima della pubblicità. Sono diventati anche loro uno spot. Lui dice di credere in un amore che si potrebbe definire variabile: "L'intensità del sentimento non è sempre la stessa. Servono pazienza e tranquillità. Spesso ci confondiamo, diamo il nome dell'amore a qualcosa che con l'amore non ha nulla a che vedere. Non importa quale sia la vita che facciamo, se siamo piloti, maghi della finanza, impiegati, operai. Molti tengono il cuore coperto".

Fernando Alonso è un uomo che guadagna forse trenta milioni di euro a stagione. Almeno quindici glieli dà la Ferrari. "È tutto in banca, non compro case, non seguo nulla. Se ne occupa soprattutto mio padre". Trascorre centocinquanta giorni l'anno tra pista, motorhome, box e Maranello. Nel 2010 ha già percorso 8752 chilometri, di cui quasi 5123 in gara, 665 al comando. Come i cowboy ha sempre nelle tasche un mazzo di carte con le quali si esibisce in giochi di prestigio. È superstizioso, attento soprattutto ai numeri: "Considero il 14 il mio portafortuna perché il 14 luglio 1996 vinsi il campionato del mondo di kart e avevo 14 anni. Temo il 13, il 17 e altri che preferisco non nominare". Sceglie le camere d'albergo a seconda del numero, a volte gli capita la peggiore e il suo manager si accomoda in quella in un primo tempo destinata a lui. È stato tradito, deluso, non ha dimenticato e non ha mai cercato vendette. Ha pochi amici veri, non nel suo ambiente. "In Formula Uno non esiste l'amicizia, esistono soltanto buoni rapporti. Gli amici sono quelli che avevo qui, a Oviedo. Loro sono rimasti fedeli a un patto lontano, nonostante il tempo e le distanze. C'è Alberto che è diventato maestro di sci. C'è Manuel, detto Kama perché era un fan di Camacho, che ora monta ascensori. Infine c'è Pedro, che costruisce infissi per le case".

Vorrebbe andare con loro a vedere il Real Madrid, in incognito, per evitare l'assedio dei fan. Assieme alla Nazionale è diventato il simbolo della Spagna. A Oviedo nelle vetrine delle librerie ci sono soltanto la biografia di Letizia Ortiz, altro orgoglio delle Asturie, e di Felipe di Borbone, "i principi che si preparano a regnare", i volumi su Wojtyla e Benedetto XVI, le guide sui funghi della regione e libri fotografici su Alonso. Nelle stanze d'albergo i clienti trovano accanto alla Bibbia una rivista patinata con Fernando in copertina, il "cavaliere" che vuole il suo terzo titolo. Gli domando se lo inseguirà con la testa o con le mani. Dice che non può rispondere: "Non so se sono intelligente. So qual è il mio istinto. Lo ascolterò".

di Dario Cresto-Dina; la Repubblica