lunedì 28 novembre 2011

Yanina la sanguigna

Yanina irrompe sul calciomercato con tutta la sua prorompente vitalità, che non è la sola cosa prorompente che abbia. Yanina Screpante, bella ragazza argentina, è la fidanzata del Pocho Lavezzi. Rifiuta il ruolo di “botinera”, come chiamano al suo Paese, l’Argentina e dintorni, quelle ragazze di magnifico aspetto che prima o poi si fanno notare da un calciatore, gli danno un figlio e si sistemano. Lei a un calciatore non pensava proprio, tanto che s’era fidanzata sì con uno sportivo ma non del pallone: il tennista Del Potro. Ma poi ha incontrato il Pocho ed ha perso la testa, come capita, ma con altri effetti, ai difensori avversari. «Mi manca tanto il mio pagliaccio» ha cinguettato su twitter mettendo una foto di Ezequiel vestito da clown, mentre lui le era lontano, impegnato con la Nazionale. Diceva anche, la bella Yanina, che a Napoli avrebbe dovuto girare con un fucile per scacciare tutte quelle ragazze che con la scusa di una foto sporgono le labbra per rubare un bacio al Pocho o allungano le mani in altre zone.

Ora, invece, Yanina è infuriata con quella meravigliosa città e quei simpatici cittadini del Golfo: l’hanno rapinata del suo Rolex e rieccola su Twitter, ma stavolta non cinguetta, strepita. Ciudad de mierda, scrive, per dirla tutta, mi porto via il Pocho. Poi chiederà scusa, ma la frittata è fatta e ora da più parti si teme la partenza di Lavezzi

Per altre ragioni, cioè la noia della Torino preolimpica che era una città sonnacchiosa, la signora Zidane voleva lasciare la casa in collina, desiderosa di mare. «La manderemo in Ancona», commentò snob l’Avvocato Agnelli. La signora Zizou, poco ferrata in geografia evidentemente, si accontentò di Madrid, che non è famosa per le sue spiagge, e la Juve di una barca, per restare in tema, di soldi.

di Piero Mei; Il Messaggero

Alla riscossa

È finita com’era cominciata, questa stagione amarissima per la Ferrari. Una Red Bull che vince dominando (Vettel a Melbourne e poi altre nove volte, il compagno Webber ieri a Interlagos grazie a un generoso gioco di squadra) e lo sconsolato Alonso ai piedi del podio, dopo una coraggiosa inutile difesa. Lotta impari. Era terzo, appena ha montato le gomme medie ha visto sfilargli davanti Button che pareva un missile, il solito copione di ogni Gran Premio. Non basta correre da fenomeno, come ha fatto Fernando anche in Brasile, specialmente all’inizio quando «aveva la macchina» ed era stato lui a passare di slancio l’inglesino.

Una sola volta, nell’arco di otto mesi, la Ferrari si è dimostrata vincente come il suo campione: a Silverstone, 10 luglio. Sembrava l’inizio della riscossa, si è rivelata un’illusione, un’impennata senza seguito. Con la Red Bull non c’è stata mai partita e anche la McLaren da metà stagione è cresciuta, rivelandosi più competitiva delle Rosse.

Il problema ora è voltare rapidamente pagina, a Maranello lo sanno perfettamente e da tempo lavorano allo sviluppo della prossima monoposto, per non ripresentarsi il 18 marzo in Australia con un gap penalizzante. Montezemolo ha assegnato un 5 politico in pagella al suo team, chi lo conosce sa che ha dovuto violentarsi per non mettere in piazza una delusione ben maggiore. Ma dietro le quinte il presidente si è fatto sentire, avviando una rivoluzione (di metodo più che di uomini) finalizzata al Grande Riscatto. Vietato fallire.

Si riparte da zero, l’anno prossimo cambierà molto. Nuovi motori (6 cilindri turbo 1.6 anziché V8 2.4), nuove gomme («faremo Pirelli più veloci e costringeranno tutti ad almeno 3 pitstop», ha anticipato Tronchetti Provera), nuovi regolamenti in parte ancora misteriosi che verranno ratificati dal consiglio mondiale il 7-8 dicembre in India. Si ipotizzano perfino penalizzazioni in classifica per chi sfora dai costi, una sorta di salary cap della Formula 1. Primo obiettivo della Ferrari è recuperare quell’equilibrio dinamico in ogni condizione, gomme medie comprese, che si è rivelato problema vitale e insolubile quest’anno. La nuova macchina sta nascendo in simbiosi con gli pneumatici, con un’attenzione maniacale all’aerodinamica e con soluzioni tecniche in parte già collaudate in gara, ad esempio inediti scarichi che ne ottimizzano i flussi di carico. I motori non preoccupano, per tradizione sono un must del Cavallino. La chiave del futuro è tuttavia l’intero «pacchetto» macchina-aerodinamica-gomme: questo il puzzle che la Ferrari non può più sbagliare.

Sotto il profilo psicologico, non sarà facile recuperare il miglior Massa, dopo un’intera stagione senza nemmeno un podio. Lui dovrà metterci del suo.

di Piero Bianco; LA STAMPA

Gary Speed

Riposa in pace.

Parla il Grillo

Alla fine l’ho trovato, non è stato facile ma l’ho trovato. E adesso che l’ho trovato posso finalmente pubblicare in esclusiva la prima intervista in assoluto a uno dei personaggi più misteriosi della Formula 1, il Grillo Rampante, la vocina interiore (ma spesso anche esterna) della Ferrari, quella che nei momenti “mediaticamente” più delicati interviene da Maranello a seconda dei casi per dire la sua, per chiarire, per ricordare, per mettere i puntini sulle i, per togliere sassolini dalle scarpe, per rispondere, per smorzare, per annacquare, per confondere le acque.
Non svelare le coordinate del suo nascondiglio è stata l’unica condizione posta dal Grillo, che infatti si è lasciato contattare solamente ad Abu Dhabi, in trasferta, ai piedi del Ferrari World, luogo dove, nonostante il trauma dell’anno scorso, il grillo ama tornare per riflettere. Ed io la rispetterò.
Intanto, grazie per avermi concesso l’intervista. Non deve essere stato facile accettare di parlare dopo una stagione del genere.
“Il grillo è un esperto del settore (ndr: come Maradona e Cassano, l’intervistato ha il vezzo di parlare di se stesso in terza persona, di tanto in tanto) e non ha problemi ad ammettere quando gli altri hanno fatto un lavoro migliore del nostro. Vanno più forte, hanno lavorato meglio ed è giusto che vincano. Non c’è problema, è solo sport. Del resto ho ancora ben vivo nella memoria il ricordo di anni in cui accadeva scientificamente il contrario, la Ferrari davanti gli altri a inseguire”.
Ecco, appunto. Adesso che vive in prima persona le sensazioni chi sta dall’altra parte, di chi subisce il dominio, che effetto le fa?
“Eh, fa male. C’è una grande frustrazione a vedere il gruppo che lavora tantissimo, si illude di recuperare terreno e poi invece vede l’obbiettivo sempre più lontano, sempre più avanti. Non è stato facile stare uniti. Non è stato facile anche perché intorno succedevano parecchie brutte cose… ”
Ok cominciamo. Leviamoci il primo sassolino…
“Ma no. Nessun sassolino. Dico solo che per tutto l’anno mi ha ferito una certa tendenza da parte di alcuni a travalicare i limiti della critica e cercare di ferire la sensibilità di chi lavora”.
Ottimo tema, su Repubblica.it si è parlato spesso di questo. Pensa che la critica sia stata troppo dura con la Ferrari?
“Più che altro mi è dispiaciuto che molte delle nostre spiegazioni siano costantemente cadute nel vuoto. Se la stampa, ma anche la tv i siti e i blog, diciamo, se la critica si fosse limitata a dirci che avevamo fatto la macchina inadeguata, non ci sarebbero stati problema. Purtroppo era innegabile. Però si è andati oltre. Le faccio un esempio. Forse quello che mi ha colpito di più: i pit stop. Abbiamo spiegato per tutto l’anno, dati alla mano, che i nostri pit stop non erano peggio degli altri. Anzi che in molti casi erano più veloci. E invece niente, alla fine è passato il concetto che i nostri meccanici - probabilmente i migliori del paddock – di colpo non erano più capaci di fare il loro lavoro. A tale proposito, mi piace soffermarmi anche su certe, chiamiamole così, ingenuità: recentemente un comunicato stampa della Mercedes ha mostrato come i tedeschi siano i più bravi a fare i pit stop. Dati alla mano. Il grillo è andato a vederli questi “dati alla mano” e si è accorto che c’erano un po’ di anomalie”-
Tipo?
“Ne dico una sola: è stato conteggiato come “pit stop” record della gara di Silverstone, quello della McLaren a Button. E in effetti era stato il più veloce. Solamente che poi cinquanta metri dopo Button ha perso la gomma. Come dire: per risparmiare tempo non hanno avvitato i bulloni. Così sono capace anche io a fare i record. E già che ci siamo. Indovinate un po’ chi ha fatto il miglior tempo al pit stop in quella gara, tolto il cambio delle tre gomme della McLaren?”.
La Ferrari?
“Eh. La stessa cosa, lo stesso atteggiamento che ho notato, vale per la strategia. Ormai è passato il concetto che quando la sbagliamo (raramente) siamo dei cani e quando l’azzecchiamo è caso. Questo ostinarsi oltre l’evidenza mi ha ferito. Non le critiche. Quelle, anche le più feroci, ci possono stare. Siamo strutturati per accettarle o per respingerle, senza problemi”.
Beh, conoscendo la puntigliosità del Grillo nei confronti dei media e delle tesi da loro avanzate, è andata bene se i sassolini sono finiti. Tutto qui?
“C’è un’altra cosa che non mi piace proprio, da un po’ di tanto tempo a questa parte. Il continuo ricorso al “…quando c’era lui…”. Il Grillo ama Ross Brawn ma, proprio perché lo ama e lo conosce, può affermare con certezza che davvero non vinceva da solo, Ross Brawn. E quanto ad errori ne faceva eccome anche lui. Del resto se guardo ai risultati degli ultimi anni… Ecco: sento dire “…quando c’era lui…” poi guardo la classifica e francamente c’è qualcosa che non mi torna. Alla Honda aveva un budget strepitoso condito da quattro gallerie del vento e non ha combinato niente, poi ha vinto un mondiale, ma sappiamo tutti come… E poi la squadra ha cambiato nome, diventando Mercedes, quindi non esattamente un bruscolino nel mondo delle quattro ruote, e i suoi piloti sono andati sul podio due volte in due anni….
“L’altra cosa che mi fa impazzire, dopo “quando c’era lui” è: “Domenicali è troppo buono”. L’altro tormentone”.
In effetti, sembra un pezzo di pane, Domenicali
“Ma che c’entra!! Dire che è troppo buono è come lamentarsi che una cosa funziona troppo bene. Mi sembra che ci sia un velato masochismo dietro una frase del genere. Anche da parte dei giornalisti che preferiscono essere trattati male, come succedeva prima, piuttosto che bene, come succede ora. Questo però, almeno, lo condividiamo con gli inglesi: anche loro ce l’hanno con Whitmarsh perché è troppo buono. Invece quando c’era Ron Dennis…”
In effetti però i risultati, sia in un caso sia nell’altro, parlano chiaro…
“Adesso il Grillo si arrabbia davvero. Non credo che in McLaren abbiano sbagliato le macchine perché Whitmarsh invece di grugnire sorride. Altrimenti non si capisce come abbiano fatto poi a recuperare terreno sulle Red Bull, sempre col sorridente Whitmarsh…”
Con questo cosa vuole dire?
“Che occorre un maggiore sforzo di comprensione da parte di chi critica. Nella noia di certe giornate a Maranello, specie quando i ragazzi sono in trasferta, leggo molti blog e molti forum, oltre ovviamente ai giornali: l’acrimonia dei tifosi da forum è difficilmente sostenibile, con tutta la buona volontà che ci posso mettere. C’è una tendenza alla superficialità. Leggi i blog e vedi che sono tutti pronti a dire che i piloti e gli ingegneri stanno lì solo per i soldi, per le raccomandazioni, che sono tutti incapaci. Possibile mi chiedo? L’80-90 per cento di chi è qui in Ferrari oggi era qui anche cinque anni fa. Quando sugli stessi blog e sugli stessi forum venivano trattati come eroi. Tanto scemi non saranno, quindi. In questi cinque anni, la McLaren ha vinto 27 GP, la Ferrari 24, la Red Bull 26. Gruppi dirigenti che hanno ottenuto risultati simili. E invece oggi a leggere certi siti scopri che i geni sono tutti da una parte mentre in McLaren e Ferrari c’è solo un branco di deficienti… Suvvia: un po’ di equilibrio…”
A proposito, è vero che il Grillo non ha affatto apprezzato la rubrica di Jarno Trulli, ospitata su queste colonne
“Non è che non l’ho gradita. E’ solo che penso che sia molto difficile e delicato giudicare da dentro, senza una visione di insieme, senza il necessario distacco, l’operato dei colleghi. Tutto qui”.
Capitolo Massa. Felipe ha deluso.
“Non lo posso negare”.
Cosa gli è successo?
“Credo che il problema vada trovato negli aspetti psicologici e motivazionali. Logico ma superficiale sarebbe stato dire: ha subito un grave incidente e da quel giorno non ha più vinto una gara. Ma non è così. Io ho parlato spesso con gli ingegneri di Felipe. Quando chiedi a loro se ha perso la velocità, loro ti dicono di no. Dal punto di vista della telemetria è tutto come quando andava veloce. Non frena prima, non da gas dopo… “
E però i numeri sono impietosi.
“Secondo me è un problema di spirito. In certe situazioni in termini di spirito, ha l’aria di trovarsi in difficoltà. Felipe aveva sempre avuto compagni di squadra “importanti”, ma nessuno come Alonso. Con Micheal era il fratellino minore che cresceva bene. Tra i due c’era un rapporto diverso. Così come era diverso il rapporto con Raikkonen: a Maranello, il punto di riferimento era sempre Felipe. Invece con Alonso le cose sono cambiate. Fernando è arrivato e si è inserito in un modo mostruoso. Ha sorpreso tutti”.
Anche Massa. Non è il caso di arrendersi all’evidenza e cercare di portare a Maranello, Button. Lei ha esternato moltissimo contro l’ipotesi di arrivo dell’inglese in Ferrari…
“Su Button ci terrei a chiarire di non aver mai detto che è un paracarro, a differenza di qualcun altro che si è dovuto rimangiare il giudizio. Anzi, mi è sempre piaciuto. (Quando il grillo era giovane si era invaghito di un’addetta stampa inglese ed era anche il primo anno di Button che esordì in F1, impressionando. E quindi si era illuso che potesse lavorare nella Scuderia portando con sé la suddetta suddita della Regina come interprete, poi invece non se ne fece niente). Il punto è che la F1 non è il calcio. Il futuro va programmato. Nel 2012 diamo ancora fiducia a Massa. Poi vediamo”.
A proposito. Chiudiamo l’intervista con un paio di auspici. Cosa si augura per il futuro.
“Così a bruciapelo la prima risposta che mi viene è: spero che torni Kimi Raikkonen. Un personaggio bellissimo. Vorrei proprio rivederlo in una pista di F1. E poi un altro desiderio, un po’ più retorico. Posso?”.
Basta che non cita Shakespeare come l’ultima volta che ha voluto fare il retorico.
“Io penso che la F1 sia alla vigilia di una rivoluzione. Di un enorme cambiamento. C’è del fermento sottotraccia, un’attività che credo da gennaio darà i suoi frutti. Ecco quello che vorrei è che questo cambiamento porti con sé più partecipazione da parte della gente e dei media, che sarebbe una rivoluzione culturale per questo sport. Perché il Grillo, in fondo, è sempre stato un rivoluzionario”.
 
di Marco Mensurati; la Repubblica

Siena-INTER 0-1

Luc sconfigge anche la noia di una partita inguardabile.

venerdì 25 novembre 2011

Si gioca!!!

Non so perché (anzi sì) ma stasera c'è l'anticipo della tredicesima, Udinese-Roma, udite udite, per tutelare le squadre impegnate in Europa Leaugue. Una coppa molto affascinante per i nostri club che vi schierano abitualmente le riserve. Buon calcio a tutti, come dice la bella Ilaria.

mercoledì 23 novembre 2011

Mortacci sua (il guardalinee)

E la scena madre abortì. Il gol più bello della domenica viene concepito, ma non arriva all' anagrafe per un intervento arbitrale che lo sospende nel limbo delle reti fantasma. Resta a mezz' aria Pablo Osvaldo, immortalato in un' acrobazia da bustina Panini, un gesto perfetto che la memoria non sa se conservare come un brillante o gettare come un pezzo di vetro. C' è un crinale di non poco conto da valicare, scomodando la filosofia, il dirittoe la calciofilia. Che cosa esiste: quel che abbiamo percepitoo quel che viene registrato? Dobbiamo arrenderci alla giustizia anche quando ci chiede di essere ingiusti? E soprattutto: questo funambolo del superfluo è un campione o un bidone? Rewind. Olimpico di Roma, squadra di Luis Enrique, come spesso, padrona & sprecona. Dal possibile 3-4 a 0 a un poco rassicurante 2 a 1 contro il Lecce. Manca il killer che ammazzi le partite. Bojan è, in tutti i possibili sensi, pietoso. Lamela ricama. Totti è torvo. Resterebbe Pablo Osvaldo, prelevato in estate a caro prezzo stupendo molti. Perfino un lontano cugino marchigiano di Filottrano, che da tempo cerca invano di organizzargli una festa in paese, ebbea dire: «Davvero varrà tutti quei soldi?». Tranquilli, è l' annata del riuso. C' è la crisi, si guarda in fondo al guardaroba, si tira fuori una giacca che un tempo pareva pacchiana, si destruttura togliendo le spalline, si abbina con gusto et voilà: in testa alla classifica marcatori c' è Denis che a Napoli era una mutanda. Osvaldoa qualcuno sembra nuovo, ma ha già giocato nell' Atalanta (proprio come Denis), nel Lecce (con Zeman, che lo stimava), nella Fiorentina di Prandelli, nel Bologna. Per sbocciare è dovuto andare a Barcellona (lato Espanyol) e tornare. Ha già segnato quanto nella miglior stagione italiana tutta intera. Ha recitato da Zelig, facendo il Totti a Roma (con la maglietta della purgaa sproposito)e l' arcitaliano in nazionale (cantando la nenia di Mameli più forte degli altri). È pronto per il salto, a tutti gli effetti. Gli manca il passaggio (in) giusto. Glielo fa Gago. Dal lato destro del campo fa partire un cross sbagliato, troppo arretrato rispetto alla posizione del centravanti. Non è mai dato sapere quel che il giocatore pensa, se pensa. C' è un luminoso secondo che schiude le porte del possibile e accende l' eterno interrogativo: che fare? Lasciar andare o buttarsi? Tentare il gran gesto rischiando la fetenzia da Gialappa's ? In quell' istante soccorre l' esperienza di sé, il tracciato del già fatto, quindi ripetibile. Sono bravo, bene: bis. Osvaldo aveva azzeccato la rovesciata un' altra volta, in un frangente ancor più estremo: ultima di campionato 2007-2008, Fiorentina-Torino, se la Viola vince va in Champions. Lui fa l' acrobata, segna, esulta, Prandelli ringrazia e qualche anno dopo ricambia con una maglia azzurra. Memore, Pablo dà le spalle alla portae butta le gambe dalla parte opposta, impatta, trova la traiettoria perfetta e insacca. L' Olimpico esulta, solo l' arbitro fischia. Ma il suo gesto annulla quello di migliaia di persone. La maglietta di Osvaldo resta tirata sulla faccia ad annullarne (dopo la rete) il volto. Una maschera di nessuno, la celebrazione di niente. Eppure. Dove sta il confine? Se l' arbitro non sbaglia, quel gesto finisce nella rubrica del gol di Gianni Mura al lunedì come il piatto migliore del menù. Viene invece spazzato in questa raccolta di avanzi e frattaglie del martedì. Che senso ha ricordare quel che non è stato? Un momento: davvero non è stato? Chi ha il potere di annullare i ricordi? C' è una sequenza che ricorre nei film in cui si inscena un processo. L' accusa porta una prova (diciamo, un' intercettazione) che dimostra in modo chiarissimo la responsabilità dell' imputato. La difesa eccepisce l' irregolarità del metodo. Il giudice intima alla giuria di non tenerne conto nel verdetto e quella, alla fine, assolve. Boskov direbbe: gol è se arbitro dà. Ma Platone concorderebbe? Quello di Osvaldo non è, ontologicamente, un gol? Adesso non vorrei addentrami nella caverna e proiettare l' immagine della rovesciata sulla parete per distinguere l' idea dall' entità, perché mi perderei. Resta la scelta del cuore. Nel "Più mancino dei tiri" Edmondo Berselli glorificava lo studioso rinchiuso in prigione che scrive la storia sulla base di quel che la memoria, non l' archivio, gli consente. Tramandiamolo allora come un meraviglioso (non) gol e annulliamo l' arbitro. Quanto al lontano cugino di Filottrano, lasciamolo pure nel dubbio.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

Trabzonspor-INTER 1-1

Ottima partita di Ricky e poco altro... ma siamo qualificati come primi del girone.

INTER-Cagliari 2-1

Ossigeno prezioso... e gran gol di Coutinho.

sabato 12 novembre 2011

SuperMario

La pecora nera, come gufava il ct nemico Smuda, ha trovato invece il tocco del fenomeno, annerendo l’arena di Wroclaw. Magari ha solo fatto il promo sul palcoscenico dei prossimi Europei, dove vuole arrivare da star. «E se continua a giocare così, diventerà uno decisivo», sorride alla fine Cesare Prandelli.
Ecco a voi Mario Balotelli: freccette, petardi e gol, sempre più spesso. Mica può essere una rete normale: la prima in Nazionale, al sesto tentativo. La prima di un giocatore di colore nell’Italia. Il nostro piccolo Obama. Uno che ha già iniziato a far cambiare le cose. Per esempio ammutolendo lo stadio dove dentro c’erano una decina di Ultrà Italia, quello stesso gruppo che, un anno fa, lo fischiò a Klagenfurt. «Non ci sono negri italiani», era stato il simpatico gingle. Altroché: ci sono, giocano, segnano, e ti fanno vincere le partite. Pure per questo il ct esce dagli spogliatoi con il sorrisone: «Complimenti a Mario e alla squadra, è stata un’ottima partita. Sono soddisfatto perché, al di là del gol, lui è sempre stato in partita, facendo quello che gli è stato chiesto». Giocare.

Perché sempre io? D’ora in poi SuperMario potrà infilarsi sempre quella maglietta, ma non per le boiate che combina, anche se lui dice son cose divertenti, ma per le reti segnate. Prenditi l’Italia, gli aveva chiesto Prandelli, e così è stato. Con i suoi tempi, però. Con le sue liturgie. Avvio lento, quasi da scontroso. Da incavolato con il mondo. Anzi, orribile. Due palloni toccati e due falli, fatti. Un paio di scatti, e tutti giù per terra, scivolando. Pareva una serataccia. Unico avvistamento dopo 23 minuti, con un colpo di testa alto. Per sbucare nella partita gli ci vuole mezz’oretta. Prima l’assaggio: dribbling e tentativo di tiro a giro, un po’ scolastico. Dopo qualche secondo è già docente. Controllo sulla frontiera dei 25 metri, un’occhiata al portiere, pericolosamente sul pianerottolo, e dolce fiondata sotto la traversa. Il pallone cala alle spalle del polacco accarezzando la rete. Quasi irridente, da nemico di Premier Laegue, visto che il povero Szezesny di mestiere fa il guardiaporta dell’Arsenal.

Tant’è bello il colpo che per qualche minuto, in tribuna, ci si chiede se quell’infernale parabola non sia frutto di qualche complice deviazione: macché, è tutta roba di Balotelli. Però al gol bisognerebbe esplodere, invece lui implode. Se ne sta fermo, porta un pezzo di maglietta alla bocca e niente. Sono gli altri che gli corrono addosso, e lo sommergono. Fa più rumore il silenzio del pubblico, ammutolito. Perché c’è qualche fischio, più polacco che degli Ultrà Italia. Ma stavolta il razzismo non c’entra: è la rabbia che lanci sempre contro il più forte, quello che ti ha battuto. Gli avversari e gli incivili. SuperMario starà muto pure quand’è finita, filando sul pullman con il berretto azzurro calato sugli occhi. Come dire: niente parole ai posteri, basta e avanza la conferenza dell’altro giorno.

Poi però non è che il bad boy s’è fatto boy scout. Prendi l’avvio di ripresa: abbattuto con una spallata da Murawski, Balotelli alza la gamba per agganciarlo, e un po’ ci riesce. Nulla di irreparabile, un po’ da bulletto però sì. Non sarebbe lui. Da protagonista dell’Europeo, chiede un polacco. Prandelli sorride: «Lo speriamo tutti».

di Massimiliano Nerozzi; LA STAMPA

Polonia-ITALIA 0-2

Mario Balotelli, per chi non l'avesse ancora capito, è un fuoriclasse.

mercoledì 9 novembre 2011

Amico gipsy

Ci sono libri che dovrebbero togliere la smania di giudicare, per aiutarci semmai a capire. "Io, Ibra" è uno di questi. È la ponderosa storia (396 pagine!) del campione milanista, scritta da David Lagercrantz, in uscita in Italia a fine settimana per Rizzoli. Nelle anticipazioni svedesi si è molto parlato degli attacchi di Ibra a Guardiola ("il vigliacco meditabondo") e al Barcellona (" quella m... di collegio").

Ma dentro questo racconto c'è ben altro. Non è solo un libro di sport. È invece un viaggio nel dolore infantile (è dedicato "ai bambini che si sentono un po' strani e diversi"), nel disagio sociale, nell'abbandono. È una lunga trama di solitudine. Qui s'incontra un bimbo maltrattato dalla famiglia, scisso in un'identità meticcia non solo per questioni di provenienza geografica (il padre Sefik, bosniaco, muratore, la madre Jurka, croata, donna delle pulizie), alle prese con una sorella tossica e un papà alcolista, cresciuto in un sobborgo svedese con gli assistenti sociali alle calcagna, e senza amore.

Ecco, nella ferita del non amato Ibra è impressa la matrice di tutto il resto: ovviamente non giustifica i furti di biciclette o le bravate ai 250 all'ora, le risse con i compagni e lo spaventoso egocentrismo non solo calcistico, ma qualcosa spiega. Non serve una laurea in psicologia per capire come
quel ragazzino balbuziente, magrissimo, basso (uno scoop) e col naso enorme, bisognoso del logopedista per imparare a dire la esse, avrebbe cominciato a prendere a cazzotti la vita per essere qualcuno, per sentirsi qualcosa.

La biografia di Zlatan Ibrahimovic è impietosa e aspra, piena di spigoli proprio come lui. Il bambino nasone grida io esisto. Irriverente, non sopporta la disciplina, le lezioni morali, le regole. Nel libro ci sono le lacrime di Moggi ormai finito, un provino per il Verona, nientemeno, i trucchi e i ricatti ogni volta che Ibra vuole cambiare squadra: non proprio un lord della trattativa.

E ci sono molti ritratti. Capello è glaciale, ma solo con lui si comincia a crescere. Guardiola è perbene, ma falso. Mourinho è un divo, ma pieno di passione, segue tutto dei suoi ragazzi, sa farsi amare perché ama. E Maxwell è un vero amico. E Beenhakker un pallone gonfiato. E Ronaldo il mito assoluto. E Van Basten un modello. E Mancini un fighetto di sostanza. E quella Juve, la più grande squadra del mondo, piena di uomini d'acciaio, altro che Calciopoli.

C'è un personaggio, in questo romanzone d'appendice, che svetta su tutti: il "ciccione idiota, quel meraviglioso ciccione idiota" di Mino Raiola, il procuratore con l'aria di uno scappato da casa. Quello che va a trattare affari milionari in t-shirt e Nike sfondate, quello che teneva i conti in pizzeria, quello partito da Nocera Inferiore, periferia estrema, un po' come il sobborgo svedese di Rosengard, cioè il ghetto di Ibra, le sue radici: i due si sono piaciuti anche per questo, per una sporca faccenda d'identità condivisa. Poi, certo, Mino tira a fregare tutti e governa senza scrupoli le strategie di Ibra, complice e non solo procuratore: pensavate che il calcio fosse popolato solo da gran signori? In che mondo vivete?

L'altro personaggio importante è Helena, la moglie manager, undici anni in più di Ibra e parecchio sale in zucca. Prima di innamorarsi e sposarlo lo ha accudito, lo ha protetto: i bambini non amati ne hanno bisogno. Ed è così, tra una coccola e un gol di tacco, che lentamente le ferite si rimarginano (scomparire, mai), insieme ai ricordi brutti con i quali scendere a patti: un padre non più perduto e lontano, due figli piccoli dentro una nuova vita, il segno remoto della meningite, l'immagine di un frigorifero sempre vuoto e vagonate di pasta con il ketchup, un paio di scarpette da calcio prese al supermarket. Questo è Ibra, questa la sua antipatica fragilità. Ma dal dolore è germogliata anche tanta bellezza.

di Maurizio Crosetti; la Repubblica
 

venerdì 4 novembre 2011

martedì 1 novembre 2011