martedì 15 febbraio 2011

Il Fenomeno che non c'è più

Ci sono notizie che precedono di molto il proprio annuncio. L’addio di Ronaldo al calcio è una di queste: per noi si era perso da almeno quattro anni, non c’era bisogno della conferenza stampa nella sede del Corinthians per sapere che era diventato un ex.

Lo ha detto tra le lacrime. C’è sempre stato qualcosa di tragico nel suo personaggio. Non ricordiamo un campione che abbia dovuto lottare con tanta follia contro il proprio fisico. Madre Natura lo ha dotato di qualità che, se non ne hanno fatto il centravanti più forte di tutti i tempi, come dice Moratti che per lui stravedeva, lo hanno reso un attaccante molto speciale: quando ti scappava sullo scatto non lo raggiungevi più, e non solo perché aveva una coordinazione straordinaria nel controllare la palla, ma perché era, muscolarmente, veloce. A Parigi, al Parco dei Principi, nella finale di Coppa Uefa contro la Lazio, partì da metà campo e arrivò davanti a Marchegiani, il portiere, ancora con la forza e la lucidità per metterlo a sedere con una serie infinita di finte. Il gol, come altri tra le centinaia che ha segnato, resterà per sempre nelle teche per la sua bellezza più che per l’importanza. Eppure il fisico è stato la sua maledizione.

A 24 anni aveva già un ginocchio in briciole, con due interventi al tendine che lo bloccarono per due stagioni, e molti pensavano che non si sarebbe più ripreso. Un medico ci rivelò che Ronaldo aveva una malformazione al ginocchio mai indagata da bambino per cui quel tendine restava come una corda di violino perennemente tesa e pronta a spezzarsi a ogni accelerazione. Un guaio quasi insanabile per un atleta che aveva nella potenza l’arma più terribile. Ci passò sopra, non si fermò. Ma il fisico gli tese altri cento agguati, alcuni misteriosi. Sempre a Parigi, per la finale di Coppa del Mondo che consacrò Zidane, sul foglio con le formazioni, a meno di un’ora dall’inizio, non appariva il suo nome. Comparve in un secondo tempo e si diffusero illazioni di ogni tipo attorno alle voci di un attacco epilettico. Tutto gli ha giocato contro: i muscoli di cristallo, le articolazioni d’argilla, e il peso difficile da tenere a bada, per colpa di una disfunzione alla tiroide, ha spiegato ieri, ma anche per le troppe birre e uno stile di vita che progressivamente cedeva ai piaceri negati nell’adolescenza a un ragazzo che a 18 anni era già un protagonista in Europa e a 20 una «star».

Negli ultimi anni lo chiamavamo «Sua Grassezza», e non era una definizione esagerata. Ronaldo è stato grandissimo: ha vinto due Mondiali e due «Pallone d’Oro», per tre volte l’hanno giudicato il miglior calciatore del mondo, ha giocato nel Barcellona e nel Real Madrid dei «Galacticos», nell’Inter e nel Milan, anche se quando lo prese Berlusconi era ormai un convalescente cronico, più in infermeria che in campo. A cavallo del nuovo millennio non c’era nessuno come lui, quando era sano. Eppure resta la sensazione di incompiutezza. Ronaldo avrebbe potuto offrire e ottenere di più. A noi italiani, in fondo, restano impresse soprattutto le sue sfortune. Il rigore che non gli fischiarono contro la Juve nel primo anno in cui poteva vincere il campionato; le urla per il ginocchio spezzato senza il minimo contrasto all’Olimpico di Roma; le lacrime con cui si congedò dall’Inter in quel 5 maggio in cui gettò alle ortiche il più incredibile degli scudetti. Grande e tragico. Già disperso nella memoria. All’annuncio dell’addio al calcio molti si saranno sorpresi che giocasse ancora.

di Marco Ansaldo; LA STAMPA

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