giovedì 28 luglio 2011

Forza Fabio

La sindrome di Fabio Scozzoli, già conosciuta come sindrome di Willer Bordon, si manifesta in vari modi ma la costante è di arrivare al momento sbagliato, e puntualissimi, all’appuntamento col destino.
Fabio Scozzoli ieri ha vinto la sua seconda medaglia d’argento ai Mondiali di nuoto in contemporanea con il nuovo l’exploit di Federica. La prima l’aveva vinta lunedì, appena 24 ore dopo il titolo iridato nei 400 della Pellegrini, che però è un fenomeno, e le sue medaglie risplendono d’oro. Ieri non c’era un sito che celebrasse con foto e punti esclamativi i trionfi di Scozzoli: erano tutti presi dalle conquiste infinite della Pellegrini, comprese quelle del cuore, per cui in serata si rilanciavano gossip sull’ultimo filarino.

Fin qui il fuoriclasse era stato Bordon. Politico integerrimo ma non fortunatissimo, Bordon toccò il vertice dimettendosi da coordinatore di Alleanza democratica (partito non indimenticabile messo su con Nando Adornato) un quarto d’ora prima che Achille Occhetto si dimettesse da segretario del Pds. Era il 1993. Non gli bastò. Con gesto plateale e cavalleresco, quindici anni più tardi si dimise dalla politica, dal Senato, insomma dalla casta, e lo fece la mattina in cui fu arrestata la moglie di Clemente Mastella, e il governo Prodi cominciò a cadere.

La storia è naturalmente piena di episodi simili. Il grande Carl Lewis inseguì per tutta la carriera il record del lungo di Bob Beamon, 9 metri e 90 e, dopo averlo mancato di centimetri per anni, realizzò a Tokyo il nove novantuno che tre minuti più tardi Mike Powell spazzò via con un incredibile nove e novantacinque. Il povero Roland Ratzenberger morì all’autodromo di Imola il giorno prima di Ayrton Senna, e così fu espulso anche dal libro della scalogna. Jonathan Franzen lanciò Le Correzioni - il romanzo che intendeva raccontare la psicosi della nuova America - l’11 settembre del 2001, giorno in cui le psicosi cambiarono per davvero. «Forza Italia», il documentario di Roberto Faenza, Antonio Padellaro e Carlo Rossella molto critico con la Dc, uscì in contemporanea col sequestro di Aldo Moro, e non finì meglio. La giovane Jo Moore, portavoce di un ministro inglese, l’11 settembre ebbe la prontezza e il cinismo di consigliare la diffusione di notizie indigeribili e occultate per mesi - aumenti di spesa e di tasse eccetera - intanto che i sudditi erano piuttosto distratti. Si sarebbe presto accorta che col virus di Bordon (e di Scozzoli) è meglio non scherzare.

di Mattia Feltri; LA STAMPA

Fede ripagata

Oro anche nei 200 sl.

domenica 24 luglio 2011

Abbiamo Fede...

Oro nei 400 sl.

Finalmente, Cadel

Cadel Evans è un uomo che ha inseguito per 20 anni un sogno e l'ha realizzato quando poteva credere che non l'avrebbe più raggiunto. Ha vinto il Tour de France che si conclude formalmente a Parigi e vediamo in giro gente felice che ci sia riuscito benché non siano suoi parenti nè suoi amici: è che quanti hanno voluto bene al ciclismo negli anni in cui sarebbe stato comprensibile abbandonarlo disgustati, vedono nell'australiano dagli occhi chiari e commossi il ritorno a uno sport in cui credere.

Cadel era il più esposto nel condannare l'abuso di chimica quando i suoi colleghi sostenevano che ci fosse una macchinazione contro il ciclismo e che il doping non esisteva. Sebbene l'esperienza insegni a non mettere la mano sul fuoco per nessuno, se beccassero Evans con il sangue sporco sarebbe come scoprire che Ronald Reagan era una spia dei russi. «Non mi importa cosa pensano gli altri - ha ribadito Evans vestito finalmente della maglia gialla -. La mia idea è che per l'importanza che ha assunto nella società, chi fa sport debba essere un modello».

Nel senso di un esempio. Nell'altra accezione, Cadel non assomiglia a un modello. Anche se guadagna quasi 2 milioni all'anno, non è patinato, non è mondano, non gioca sullo charme: è uno nato a Katherine, un posto nei Territori del Nord «e se c'è una cosa che mi piace dell'Australia è il senso di libertà con cui ci si vive».

Non significa che sia uno grezzo. Parla quattro lingue, vive in una bella casa a Stabio, appena oltre il confine svizzero, si è sposato con Chiara, che conobbe quando arrivò nel Varesotto una decina di anni fa: una raffinata pianista che gli ha insegnato ad amare anche la musica classica. Le sue battaglie sono per i bambini in Tibet e ne ha adottato uno, è coinvolto nell'associazione di Ian Thorpe per l'integrazione degli aborigeni australiani e in una fondazione per la sicurezza dei ciclisti nelle strade. Ma, per raccontare il tipo, Evans è anche uno che indica tra i 4 ristoranti del mondo in cui gli piace mangiare, la cucina del rifugio Fantoli sull'Alpe Ompio, nel Verbano: «Fanno una polenta con il gorgonzola fantastica. Bisogna fare un bel po' di movimento per smaltirla».

Ci si chiederà cosa c'entri tutto questo con la vittoria nel Tour. C'entra perché lo stile di vita e l'umiltà di Cadel sono parte del suo successo sui fratelli Schleck, saliti sul podio ma sui gradini più bassi e non crediamo che la mega festa prenotata dal loro patron, l'imprenditore lussemburghese Flavio Becca, sia riuscita un granché. Era la sfida tra chi poteva sfilarsi l'etichetta di magnifico perdente, per quanto Evans nel 2009 fosse diventato campione del mondo e se la fosse un po' scollata. Era l'occasione lasciata dal cedimento di Contador sul Galibier. Andy Schleck l'ha affrontata con presunzione: la sua squadra era rimasta a dormire all'Alpe d'Huez e si è presentata a Grenoble senza provare il percorso della crono se non in auto.

Evans invece aveva voluto correre il Giro del Delfinato quasi esclusivamente per testare il circuito e l'aveva rianalizzato in allenamento. «Immaginavo che il Tour si potesse decidere qui».
Partiva con 57 secondi da recuperare al lussemburghese. Gliene ha inferti altri 94: dopo 25 chilometri di corsa c'era già stato il sorpasso e l'incompiuto Andy strusciava la faccia sulla spalla, non si sa se per asciugare il sudore o le prime lacrime.

E' stata una delle più belle crono nella vita di Cadel. In bicicletta sembrava persino più spesso e compatto di quanto sia in realtà, forse perché anche il telaio sembrava parte del suo corpo. «Devo ancora rendermi conto di cosa ho fatto - ha ammesso con una voce più flebile di quanto ci si aspetterebbe -. Dopo essere arrivato secondo due volte non so cosa avrei pensato di me se ci fosse stata una terza: ero già stato vicino a vincere il Giro, la Vuelta e il Tour e qualcosa s'era messo di mezzo. Una caduta, un problema intestinale, un guaio meccanico. Non riuscivo a concretizzare ma non ho mai pensato che questa fosse la mia ultima chance».

Il suo Tour non ha avuto cedimenti. Ha vinto in volata su Contador a Mur de Bretagne, ha sfiorato la maglia gialla per 1" già nella seconda giornata, si è difeso in montagna e attaccato in discesa, ha guidato da solo l'inseguimento a Schleck nel tappone del Galibier contenendo i danni (ed è stata la sua impresa decisiva), ha riportato il gruppo su Andy e Contador all'inizio dell'Alpe d'Huez. Un pitbull inschiodabile.

«E' la consacrazione di un campione e il simbolo dell'internazionalizzazione del ciclismo, visto che nessun australiano aveva mai vinto il Tour», ha chiosato Christian Prudhomme, il direttore. Aldo Sassi, il suo preparatore al Centro Mapei di Castellanza, gliel'aveva pronosticato: «Cadel, mi diceva, sei un corridore completo e pronto per vincere il Tour». Sassi è morto di cancro l'anno scorso. Ricordando le sue parole, Evans ha avuto l'unico cedimento in 3 settimane: gli si è rotta la voce, gli sono spuntate le lacrime. Calde e tenere. Ora di perdenti di successo rimane Andy. L'anno scorso per superare la depressione per la sconfitta contro Contador si ritirò a pescare nel suo stagno. Gli hanno riallestito il capanno e controllato le lenze.

di Marco Ansaldo; LA STAMPA

martedì 12 luglio 2011

El Flaco

L'appuntamento è nell'ufficio in centro. Fa freddo. César Luis Menotti si scusa: "S'è rotto il riscaldamento, devo comprare una stufa, sto gelando". Sotto il vetro del tavolo, foto dei figli. Sopra, una pila di libri: Eladia Blázquez, Vázquez Montalbán, Tejeda... Un posacenere pulito ricorda che un po' di tempo fa la chiacchierata si sarebbe riempita di fumo.

Come va dopo aver smesso?
"Male. Mi dissero: "Il primo mese è duro, poi...". I medici insistono per renderci la vita più lunga e meno gradevole. I chirurghi sono i peggiori. Ora hanno una macchinetta, pim pim e ti operano. Non lasciano neppure sangue sul bisturi".

Come andò la sua operazione?
"Dissi al medico: "Faccia lei, io so di calcio, mica di polmoni". Mi impose di non fumare per avere vita normale. Normale per chi? La sigaretta è una compagna. Devo pensare che la compagna è morta. Mi piace quando mi sbuffano il fumo in faccia. Lo cerco alle porte dei ristoranti. Ieri un signore accende e fa: "Esco". Gli ho risposto: "Macché, stia più vicino"".

Anche dal calcio si sta allontanando?
"La Spagna mi ha restituito passione. Vederla giocare con i piccolini mi conforta. Il calcio è tre cose: tempo, spazio e inganno. Però non ci sono tempi, non si cercano gli spazi e non mi ingannano più. Mi annoio tanto che non
mi pare calcio. Il 99,9% degli allenatori invidia il Barcellona. Tutti vogliono essere Guardiola, la maggioranza non sa come si fa".

Guardiola dice con i buoni giocatori...
"Non la bevo. Il lavoro di Guardiola è allenamento, idee chiare, farsi capire. Più importante dei giocatori. Andiamo a vedere chi era Piqué prima di Guardiola, chi era Pedro, chi era Busquets. Nemmeno Iniesta era titolare. E dissento su altro. Non fu Cruyff il primo a giocare così, il primo si chiamava Menotti. Mi costò la vita. Ci fischiavano per i troppi passaggi. Giocavo con Maradona alla Messi e Schuster alla Xavi. Ma ogni volta che Schuster la dava ad Alexanco ci fischiavano. Solo sul 3-0 tutti a fare olé".

Perché andò via dal Barcellona?
"Era morta mia madre, tornava la democrazia in Argentina, dovevo stare lì. Núñez mi diede un assegno in bianco, mi chiese quale giocatore volessi. Nessuno. Volevo che buttasse fuori i grandi per far crescere i giovani. Fu dopo la Coppa del re. Una coppetta. Se oggi la vince il Real, pare abbia vinto l'Intercontinentale. Dicevo?".

L'importanza dell'allenatore.
"Qual è l'influenza dei professori? Dipende. Mi sono innamorato della chimica perché il professore arrivò fumando, riempì la lavagna di formule e disse: "Da imparare entro martedì. Però è impossibile". E aggiunse: "Perché sappiate che la vita è come la chimica: va interpretata"".

La figura del professore è un po' svalutata...
"Da 50 anni si produce dis-cultura. Hanno rubato alla gente il sentimento di appartenenza. Mi sento un marxista ormonale, senza più spiegazione ideologica. Ho sperimentato il disastro del capitalismo in ciò che mi circonda, calcio compreso. Hanno rubato il calcio alla gente".

In Argentina potrebbe esistere una figura alla Guardiola?
"Se esistesse, lo assassinerebbero. Qui ci sono i Mourinho. Tipi come lui. Che pensano a vincere e quando perdono non è colpa loro".

Del Bosque ha detto che voleva essere come Busquets. Più alto. E lei?
"Il migliore che ho visto è stato Pelé. Quando andava a colpire di testa, saliva un altro po' e la stoppava di petto. Non sapevi mai cosa avrebbe fatto".

Come Messi...
"Ci sono stati 4 re. Di Stefano, Pelé, Cruyff e Maradona. Stiamo aspettando il quinto, non è ancora apparso. Messi è il più vicino, ma la corona non gliela do ancora. Dovrei vederlo fuori dal Barcellona, e vincere quello che Maradona ha vinto a Napoli. Era una banda e l'ha trasformata in un'orchestra. Sa perché Messi è il migliore?".

No...
"Ogni volta che prendeva la palla, voleva vincere la partita. Ora no, e si nota la mano del maestro. Cosa sarebbe di questi giocatori senza Pep... Nel Barça non esiste la libertà assoluta. Ci sono regole che permettono ai giocatori di essere liberi e felici. Il Madrid potrà comprare giocatori, e altri, e altri, alla fine vincerà, ma quel 5-0 sarà per tutta la vita. Ha ucciso Mourinho per sempre".

Lei disse che dopo quella partita, Mou se l'è fatta addosso.
"Così si dice a casa mia, farsela addosso. La partita dopo ho visto in panchina Higuain, Adebayor, Benzema e Kaká. La più grande codardia vista in un grande. E con il Madrid: inaudito".

Che succede all'Argentina che fa tanto male a Messi?
"Quando parlo di dis-cultura, non mi riferisco a chi leggeva Borges. Il calcio è come la vita. Non ti alzi alle sei del mattino e ti metti a cercare la donna della tua vita. La incontri o no. Ogni volta che toccano la palla, vogliono vincere la partita. È terribile. Un'angoscia. Nel Barcellona ci sono più passaggi che gol. Di questo si tratta. Passarsi la palla. Non è difficile".

Ora a Batista chiedono che giochi come il Barcellona.
"Imbecilli. Credono che sia facile cantare come Serrat?".

di Luis Martin; El Paìs; da Repubblica.it