Signore e signori ecco a voi l'allenatore del momento: il primo in classifica, il più rivoluzionario e imprevedibile. Non cercate di aggiustare la sintonia: non ci sono interferenze, non è la replica di un vecchio programma, sebbene sia in bianco e nero e il protagonista parli come una telecronaca di Pizzul. È proprio lui: Edoardo Reja, classe 1945, l'uomo venuto dal passato. Quello che era stato scolpito nel marmo di uno schema fisso: 3-5-2. Quello che riscrisse i dieci comandamenti: primo, non retrocedere. E infatti, da primo, declama: "Meno trenta alla salvezza", essendo abituato a guardare avanti e vedere la fila, non lo sportello. A Napoli il fantasioso De Laurentiis l'aveva soprannominato "il mio Clint Eastwood" (anche se poi era lui a sparargli). Come somiglianza vengono in mente piuttosto Burgnich e Bearzot, prodotti della stessa terra. Come percorso fa pensare a un Camilleri del calcio: all'ora della pensione, toh: il successo.
Sono i paradossi dell'Italia gerontocratica: c'è gente in giro da così tanto tempo che s'è annoiata di se stessa e alla fine fa quel che non ha fatto mai, sperimenta. I giovani, pur di vincere, obbediscono; i vecchi, niente da perdere, trasgrediscono.
A 65 anni Reja ha preso in mano la Lazio come fosse il cubo di Rubik, la frulla e a ogni giro la presenta con una faccia diversa: chi stava in tribuna va in campo, chi era esterno va al centro, gli attaccanti si allineano in orizzontale poi in verticale, il centrocampo fa l'asse e fa il rombo. Pare che a un allenamento d'inizio stagione, seduto sul prato con i suoi assistenti, abbia guardato l'orizzonte venirgli addosso e abbia chiesto, più a se stesso che agli altri: "Ma saremo ancora capaci di insegnare qualcosa di diverso da quel che abbiamo sempre fatto?". A occhio sì. Comincia a imparare perfino Zarate, per il quale Reja ha una sana allergia. La ragione risale all'anno 1967, l'immaginazione sognava di prendere il potere, i barbieri di prendere le forbici.
Alla Spal, dove divideva la camera con Capello ("un secchione"), arrivò Ezio Vendrame, un figlio dei tempi quanto Reja ne era, già allora, uno zio. Esibì talento e anarchia. Fece innamorare il pubblico e una giovane prostituta di Genova. Per stare con lei simulò una colite cronica. Qualcuno (pare Capello) fece la spia al presidente. Reja imparò a detestare i brillanti solitari. Da allenatore, non ne avrebbe voluto uno. Se lo trovava in dotazione, lo riponeva nel cassetto. Non è che gliene siano capitati tanti in una carriera di panchine che sembra una classifica di A2: Verona, Bologna (dove organizzò una partitella tecnici-giornalisti e azzoppò un critico), Lecce, Brescia, Pescara (formidabili gli anni in coppia con Galeone), Torino, Vicenza, Genoa, Catania, Cagliari. Specializzato in squadre ascensore, quelle che vanno su e giù. Con lui, per lo più su: quattro promozioni contro due retrocessioni. Una volta arrivato all'attico, di solito faceva come il ragazzo in guanti bianchi nei grandi alberghi: riscendeva.
Ma prima, chiedeva una sigaretta a scrocco. Non lo ritenevano adatto ai piani alti. A Napoli mandava la squadra fuori dallo spogliatoio urlando: "Amma vincere!". A Roma urla: "Dovemo vince!". Quando, nel 2008, l'Università delle terza età gli procurò un Erasmus a Spalato non si sa, ma si può intuire, che cosa urlasse. Si dice che a convincere Lotito a chiamarlo per salvare la Lazio sia stato Gianfranco Fini, benché Reja abbia espresso anni fa una simpatia politica per Rosy Bindi.
Arrivò con il suo bagaglio a mano, si sistemò in albergo con la moglie, chiese una sola indicazione stradale: per Formello. Radunò i senatori e chiese dove stesse il problema: "Mister, dovremmo giocare in undici". Fece, per così dire, rifiatare Zarate, benché amatissimo da presidente e curva. La svolta avvenne in ritiro a Norcia, dopo l'ennesima batosta. Il presidente Lotito spedì a Reja un motivatore. Un po' come mandare a Oscar Luigi Scalfaro il link per un sito pornografico. Indignato, fece firmare ai giocatori un appello contro la psicologia. La riscossa seguì a breve. La conferma fu meno scontata. A questo punto, di solito, Clint Eastwood tornava in garage a lucidare la Gran Torino. Invece, eccolo che sfreccia con la capote abbassata. Sarà che anche Lotito s'è annoiato della propria follia. Gli ha lasciato fare il mercato e al posto del solito ribaltone, ecco il mini rimpasto: un solo prezioso innesto, Hernanes. A Santa Cruz ha rinunciato per non innervosire gli attaccanti, incluso Zarate. Lo schiera più largo sulla fascia per potergli sbraitare nelle orecchie. Ha ripescato dal ripostiglio perfino Foggia che l'anno scorso gli aveva calpestato gli occhiali. Quando gli hanno venduto Kolarov ha detto, imperturbabile come uno scoglio lambito dalla marea del paradosso: "Tanto ho Del Nero". Il cubo di Edy Rubik continua a frullare, le facce a cambiare ("Ma che è? Mò non s'infortuna più nessuno?). A chi l'ha accusato di avere idee confuse ha replicato stizzito: "Non mi è venuta l'arteriosclerosi". Piuttosto, una terminale curiosità di vedere come va a finire se, a forza di giocare, uno comincia a divertirsi.
di Gabriele Romagnoli; la Repubblica
Nessun commento:
Posta un commento