mercoledì 29 settembre 2010

La nuova giovinezza di Edy

Signore e signori ecco a voi l'allenatore del momento: il primo in classifica, il più rivoluzionario e imprevedibile. Non cercate di aggiustare la sintonia: non ci sono interferenze, non è la replica di un vecchio programma, sebbene sia in bianco e nero e il protagonista parli come una telecronaca di Pizzul. È proprio lui: Edoardo Reja, classe 1945, l'uomo venuto dal passato. Quello che era stato scolpito nel marmo di uno schema fisso: 3-5-2. Quello che riscrisse i dieci comandamenti: primo, non retrocedere. E infatti, da primo, declama: "Meno trenta alla salvezza", essendo abituato a guardare avanti e vedere la fila, non lo sportello. A Napoli il fantasioso De Laurentiis l'aveva soprannominato "il mio Clint Eastwood" (anche se poi era lui a sparargli). Come somiglianza vengono in mente piuttosto Burgnich e Bearzot, prodotti della stessa terra. Come percorso fa pensare a un Camilleri del calcio: all'ora della pensione, toh: il successo.
Sono i paradossi dell'Italia gerontocratica: c'è gente in giro da così tanto tempo che s'è annoiata di se stessa e alla fine fa quel che non ha fatto mai, sperimenta. I giovani, pur di vincere, obbediscono; i vecchi, niente da perdere, trasgrediscono.
A 65 anni Reja ha preso in mano la Lazio come fosse il cubo di Rubik, la frulla e a ogni giro la presenta con una faccia diversa: chi stava in tribuna va in campo, chi era esterno va al centro, gli attaccanti si allineano in orizzontale poi in verticale, il centrocampo fa l'asse e fa il rombo. Pare che a un allenamento d'inizio stagione, seduto sul prato con i suoi assistenti, abbia guardato l'orizzonte venirgli addosso e abbia chiesto, più a se stesso che agli altri: "Ma saremo ancora capaci di insegnare qualcosa di diverso da quel che abbiamo sempre fatto?". A occhio sì. Comincia a imparare perfino Zarate, per il quale Reja ha una sana allergia. La ragione risale all'anno 1967, l'immaginazione sognava di prendere il potere, i barbieri di prendere le forbici.
Alla Spal, dove divideva la camera con Capello ("un secchione"), arrivò Ezio Vendrame, un figlio dei tempi quanto Reja ne era, già allora, uno zio. Esibì talento e anarchia. Fece innamorare il pubblico e una giovane prostituta di Genova. Per stare con lei simulò una colite cronica. Qualcuno (pare Capello) fece la spia al presidente. Reja imparò a detestare i brillanti solitari. Da allenatore, non ne avrebbe voluto uno. Se lo trovava in dotazione, lo riponeva nel cassetto. Non è che gliene siano capitati tanti in una carriera di panchine che sembra una classifica di A2: Verona, Bologna (dove organizzò una partitella tecnici-giornalisti e azzoppò un critico), Lecce, Brescia, Pescara (formidabili gli anni in coppia con Galeone), Torino, Vicenza, Genoa, Catania, Cagliari. Specializzato in squadre ascensore, quelle che vanno su e giù. Con lui, per lo più su: quattro promozioni contro due retrocessioni. Una volta arrivato all'attico, di solito faceva come il ragazzo in guanti bianchi nei grandi alberghi: riscendeva.
Ma prima, chiedeva una sigaretta a scrocco. Non lo ritenevano adatto ai piani alti. A Napoli mandava la squadra fuori dallo spogliatoio urlando: "Amma vincere!". A Roma urla: "Dovemo vince!". Quando, nel 2008, l'Università delle terza età gli procurò un Erasmus a Spalato non si sa, ma si può intuire, che cosa urlasse. Si dice che a convincere Lotito a chiamarlo per salvare la Lazio sia stato Gianfranco Fini, benché Reja abbia espresso anni fa una simpatia politica per Rosy Bindi.
Arrivò con il suo bagaglio a mano, si sistemò in albergo con la moglie, chiese una sola indicazione stradale: per Formello. Radunò i senatori e chiese dove stesse il problema: "Mister, dovremmo giocare in undici". Fece, per così dire, rifiatare Zarate, benché amatissimo da presidente e curva. La svolta avvenne in ritiro a Norcia, dopo l'ennesima batosta. Il presidente Lotito spedì a Reja un motivatore. Un po' come mandare a Oscar Luigi Scalfaro il link per un sito pornografico. Indignato, fece firmare ai giocatori un appello contro la psicologia. La riscossa seguì a breve. La conferma fu meno scontata. A questo punto, di solito, Clint Eastwood tornava in garage a lucidare la Gran Torino. Invece, eccolo che sfreccia con la capote abbassata. Sarà che anche Lotito s'è annoiato della propria follia. Gli ha lasciato fare il mercato e al posto del solito ribaltone, ecco il mini rimpasto: un solo prezioso innesto, Hernanes. A Santa Cruz ha rinunciato per non innervosire gli attaccanti, incluso Zarate. Lo schiera più largo sulla fascia per potergli sbraitare nelle orecchie. Ha ripescato dal ripostiglio perfino Foggia che l'anno scorso gli aveva calpestato gli occhiali. Quando gli hanno venduto Kolarov ha detto, imperturbabile come uno scoglio lambito dalla marea del paradosso: "Tanto ho Del Nero". Il cubo di Edy Rubik continua a frullare, le facce a cambiare ("Ma che è? Mò non s'infortuna più nessuno?). A chi l'ha accusato di avere idee confuse ha replicato stizzito: "Non mi è venuta l'arteriosclerosi". Piuttosto, una terminale curiosità di vedere come va a finire se, a forza di giocare, uno comincia a divertirsi.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

Roma-INTER 1-0

Lasciamo perdere...

giovedì 23 settembre 2010

INTER-Bari 4-0

Dopo il grande spavento del palo colpito da Almiron dopo appena 20 secondi, l'Inter domina il Bari di Ventura, con un Eto'o magnifico, e con Milito che finalmente torna al gol, realizzando due reti. Una bella partita, giocata alla grande.
Mentre il Milan continua ad arrancare, e la Roma, per sfortuna, e per l'arbitraggio, si fa battere con dal Brescia.

martedì 21 settembre 2010

Palermo-INTER 1-2

Due perle di Samuel Eto'o oscurano il prolungato digiuno di Milito, e ci permette di tornare in testa alla classifica, a pari merito con il sorprendente Cesena.

domenica 19 settembre 2010

Narciso

Così l'ex allenatore del Milan, scaricato immeritatamente da Berlusconi:
"A Narciso tutto quello che non è specchio non piace."

martedì 14 settembre 2010

Questa è la storia di Giaccherinho

A occhio, era meglio se il Milan avesse comprato Giaccherinho. Sabato sera il portatile del Cesena ha fatto vedere cose che voi brasiliani non avreste mai potuto immaginare. È nata una stella, o almeno metà. Venticinque anni, 167 centimetri, 60 chili, maglia numero 23, ingaggio che due anni fa era di 23 mila euro e adesso è decuplicato, Giaccherinho è l'uomo del momento per molti motivi. Nella giornata della "rivolta dei puffi" ne diventa il simbolo, alla vigilia dello sciopero dei milionari racconta un'altra storia, fatta di rifiuti, volontà, improvvisa folgorazione e, all'indomani del requiem per la scomparsa dell'ala, toh, ecco lì uno che dribbla anche la morte.

Per raccontare chi è occorre partire da un pomeriggio estivo di due anni fa. Il Cesena è in ritiro da due giorni, sta per giocarsi il campionato di Prima divisione, sperando, ma non troppo, nella promozione in serie B. Allena Pierpaolo Bisoli, guarda caso un altro dei puffi che sabato sera hanno steso una grande (la Roma, con il Cagliari). Mentre i titolari corrono sul prato di Castrocaro, all'orizzonte, oltre le terme, compare una Ford Fiesta. Il contachilometri segna 300000 (trecentomila). Al volante c'è un uomo solo che ha guidato per anni da Talla, provincia di Arezzo, dove è nato e vive, a tutte le città dove l'hanno mandato a giocare: Bibbiena, Bellaria, Pavia.

Fa il rappresentante di se stesso, ma nessuno lo compra. Il Cesena non crede in lui. È il classico piccoletto, quello che da ragazzino lo fermi solo con il fucile, ma da grande non passa la dogana dei terzini a (altro) livello. L'anno precedente s'è pure infortunato, ha pensato di smettere. A casa sua son tutti operai e un posto in fabbrica glielo possono trovare. Se ha ripreso la Fiesta e investito in un altro pieno è per l'insistenza del suo procuratore, che ha un nome da leggenda: Furio Valcareggi. È il figlio dell'ex ct di Messico '70. Quando arriva in Romagna, con le sue giacche a quadretti e la chioma ribelle a ogni decadenza, si aprono in un soffio le porte delle balere e riparte la musica. Valcareggi jr, nel suo mestiere, è di un'altra epoca. Dice: "Ho preso il patentino nell'ottantacinque. Non ho bisogno di molto: son figlio di Ferruccio". In A ha un solo calciatore. Un po' come Danny De Vito quando, in un film di Woody Allen, faceva l'agente per un solo attore. L'ha preso da ragazzino e non lo lascia. Dice: "Mi aspetti un attimo che le racconto il resto, debbo comprare il pallone a un bambino". Potrebbe essere il nipote, ma anche Giaccherinho, che lui chiama "il bimbo".

Quando scende dalla Fiesta lo guardano con espressioni del tipo: "Che cosa ci fa qui?". Lo mandano nella camera dei "non graditi" insieme con altri due (Lauro e Biasi) che cambieranno il destino del Cesena. Furio insiste: "Il contratto ce l'hai, stai lì finché non ti vendono, fagli vedere chi sei". Ci voleva l'eclissi di sole. Più modestamente, s'infortuna Bracaletti. Bisoli ha bisogno di un altro esterno d'attacco. Dice: "Mandatemi il piccoletto". Quello entra, se li beve tutti, va in porta. Poi lo rifà. Bisoli chiede: "Quanto ci costa?". Controllano, rispondono: "Niente". Gli dà una maglia da titolare ed è come gliela cucisse sulla pelle.

Tre anni, tre serie a crescere, tre debutti con il botto. Dopo il primo anno dicono: "Sì, però non è da B". Dopo il secondo: "Sì però non è da A". L'allenatore Ficcadenti s'è innamorato di lui. Sabato sera ha fatto divertire mezza Italia, quella che non ama il presidente del Milan, i mercenari, i galattici. Partiva da sinistra, faceva lo slalom tra paletti e palettopulos della difesa milanista e andava dentro. Facile così. Roba da ali. Dice Furio: "Non è che noi siam bravi e l'altri bischeri. Non bisogna essere scienziati". Basta guardare. Il calcio è banale fisiognomica: il pennellone lo metti al centro, il piccoletto all'ala. Deve avere lo spunto, la fame, sbocciare tardi e riprendersi il tempo perduto. Conti, Fotia, Filippi. Giaccherinho è la prosecuzione della specie dichiarata estinta per un equivoco: se all'ala ci metti Pepe che ha il fisico da mediano è come pretendere il volo da una gallina.

Ora tocca al 23 bianconero proseguire nella sua corsa. Stava per fermarsi due anni fa, stava per essere ceduto la scorsa estate e magari avrebbe fatto panchina al Parma e nulla più. Invece eccolo lì. Con l'adeguamento del contratto si è comprato un'Audi. L'estate scorsa Fabio Benaglia, giornalista sportivo cesenate, gli ha telefonato invano durante il mercato. Mezz'ora dopo si è sentito richiamare: "Scusa, ero in piscina. Oh, ho nuotato un'ora e avevo dodici chiamate perse. L'anno scorso prima di riceverne una avrei potuto stare in vasca una settimana". Adesso probabilmente gli basterebbe una doccia. Dicono abbia mangiato troppa polvere per fermarsi al primo autogrill e accontentarsi di una rustichella. "Ma il bimbo non si monta", garantisce Furio. Doveva essere un campionato spento e invece guarda: hanno acceso i neon, suona la fisarmonica, c'è gente che balla sulla fascia e noi qui, a battere il tempo.

di Gabriele Romagnoli; la Repubblica

INTER-Udinese 2-1

Un'Inter gradevole per appena un quarto d'ora riesce ad andare in vantaggio con Lucio dopo una corta respinta di Handanovic su un calcio d'angolo. La squadra come spesso capita si accontenta e si rilassa, concedendo campo ai friulani che pareggiano con Floro Flores. Da lì in poi la partita diventa sempre più noiosa, per un'Inter che non convince, per via di un Milito sostanzialmente insistente, per una Cambiasso invisibile, e per un Biabiany che, nonostante un buono inizio, si è via via spento, per colpa di tutta la squadra e per il suo accentrarsi. I Nerazzurri però ringraziano il giovane Angella, che ci ha regalato un fallo di mano in area con conseguente rigore realizzato (non senza patemi) da Samuel Eto'o, ancora una volta il migliore in campo. nsomma, il compitino è andato in porto.
E intanto il Milan di Ibracadabra perde a Cesena, la Roma sprofonda a Cagliari e la Juve ottiene il primo punto stagionale segnando due gol irregolari alla Samp.

lunedì 6 settembre 2010

The show must (not) go on

Giornata tristissima per lo sport: a Misano durante il GP della Moto2, un pilota giapponese di 19 anni correva a 240 all’ora, la sua moto s’è intraversata, lui è balzato in aria, e quand’è caduto i due piloti che lo inseguivano gli sono finiti addosso e l’hanno travolto.

Ferite multiple, elicottero fino all’ospedale più vicino, Cesena, da qui all’ospedale meglio attrezzato della zona, Riccione. Si temeva l’arresto cardiaco, e infatti il cuore s’è arrestato. Ma non stanno qui gli apici della tragedia. Non è per questo che ne parliamo. Alla tragedia sportiva, sempre possibile nelle gare dove per vincere bisogna oltrepassare i limiti di sicurezza, si aggiungono altre tragedie, che vorrei dire morali. Dopo la visione atrocemente spettacolare del multiplo incidente, con tre moto e tre piloti coinvolti, la gara è proseguita come se non fosse successo niente. Dunque quella tragedia «era» un niente. Per molti minuti il pilota-ragazzino è rimasto sospeso tra la vita e la morte, nel circuito le autorità sapevano tutto, ma nessuno ha pensato che quel tutto valesse qualcosa.

Si trattava di una gara della Moto2, le gare che precedono la MotoGp sono sentite da tutti, organizzatori e spettatori, come una introduzione di scarsa importanza alla vera gara che riempie la giornata, la MotoGp. Qui, in MotoGp, corrono gli assi mondiali del motociclismo, così veloci che sembrano volare rasoterra. Il problema era: si poteva perdere tempo per la morte di un ragazzino, si poteva ritardare la partenza dell’unico vero grande spettacolo sportivo della domenica, il MotoGp? La riposta è stata: no. Non si dica: ma non sapevano ancora che il giovane pilota sarebbe morto, potevano pensare a ferite rimarginabili, concludere la gara di Gp col giovane pilota giapponese fuori pericolo era un bene per tutti, ritardare la gara non serviva a nessuno.

Errore. Non è un ragionamento lecito. Perché la cronaca del Gp è proseguita in costante collegamento con la clinica dove il 19enne giapponese stava morendo, la notizia della sua morte è arrivata in diretta a tutti nel circuito (e a tutti noi, nelle case del mondo), e il coro dei cronisti è stato: «Non c’è niente da dire», «Non c’è niente da fare». E così tutto proseguiva come se niente fosse. Ma neanche questo è il vero acme dell’insensatezza di questa tragedia in diretta: perché quando la gara è finita, e i grandi campioni sfilavano uno alla volta davanti alle telecamere, strizzati nelle tute multicolori, tutti venivano informati, e tutti reagivano con: «Così è lo sport», «Non si poteva fermare la gara», «Sappiamo che la logica è questa» (quest’ultima risposta è del grande Valentino Rossi, il più amato dagli italiani). Sono parole di scarsa sensibilità? Provengono da un fondo morale dove mancano i valori? Ma no. I valori ci sono, e sono enormi. Valgono più della vita. Più della vita di tutti. Perché i grandi campioni che parlano così mettono in conto non solo che la vita dei concorrenti può essere stroncata di colpo, ma anche la propria: partono, e non sanno se arrivano. Se accettano che la loro vita finisca così, accettano anche che la gara non s’interrompa, che il palinsesto delle tv non venga modificato neanche di un minuto.

Nei siti dei giornali, ieri, la tragedia ovviamente c’era, con tanto di filmato, ma prima e dopo c’erano l’ordine d’arrivo e la classifica mondiale, e queste notizie valgono più di quella. Chi vince resta, chi muore svanisce. Oggi tutti parlano della tragedia. Alla prossima gara non ne parlerà nessuno. E la prossima gara non avrà tanti spettatori come ieri, ma di più. Se lo spettacolo che vediamo conta più della vita, non possiamo perderlo.

di Fernando Camon; LA STAMPA

(Slovenia-ITALIA 1-2)

Di gol la Nazionale italiana non ne segna certo a grappoli, se poi ci si mette anche un regista quantomeno avventato che manda in onda uno spot pubblicitario mentre gli azzurri stanno battendo un calcio d'angolo, allora gli appassionati di casa nostra fanno veramente ancora più fatica ad affezionarsi alla formazione di Cesare Prandelli...

Quello che è successo durante la diretta televisiva di Italia-Estonia, primo incontro delle qualificazioni agli Europei 2012 per Pirlo e compagni, non ha uguali nel mondo intero, una vera vergogna. Gli spettatori italiani grazie alla Rai non hanno infatti potuto vedere in diretta il gol del pareggio di Antonio Cassano, siglato al quarto d'oro della ripresa a Tallinn. L'assurdo è che la tv di Stato paga milioni di euro per acquistare i diritti televisivi in esclusiva, che poi da sola svilisce con questi comportamenti. Ma la vera beffa è che con l'abbonamento i soldi li chiede proprio a noi cittadini, contribuenti e teleutenti.
E' proprio vero, come recitava uno slogan di qualche anno fa: Rai, di tutto di più.

di Massimo Mazzitelli; la Repubblica

sabato 4 settembre 2010

Bologna-INTER 0-0

Debutto deludente. Molto. Ma forse va bene così, perché pareggiare la prima porta fortuna. Si poteva e si doveva giocare meglio, soprattutto nel primo tempo, ma è anche vero che con un po' di fortuna avremmo segnato due o tre gol.