lunedì 13 giugno 2011

Povero me

Diciamo la verità: lo scandalo del calcio non sta scandalizzando nessuno. Era appena scoppiato e già mi chiamava un amico, splendida persona e paladino dei valori dell’azionismo piemontese. Per deprecare l’accaduto? No, per sapere se le disgrazie dell’Atalanta avrebbero permesso al nostro Toro di salire in serie A. Il giorno dopo Vittorio Feltri ha scritto un articolo spietato contro i calciatori corrotti, che però si concludeva con l’invito a non punire le squadre per le responsabilità dei singoli. Vittorio Feltri è dell’Atalanta. Ma non c’è conciliabolo da bar in cui i conversatori non regolino le loro opinioni sulla base di un unico metro di giudizio: le convenienze della squadra del cuore.

Ho peccato di ingenuità quando scrissi che i «mercenari dell’anima» stavano corrompendo il sogno bambino dei tifosi. A noi tifosi, dell’integrità dello sport non importa niente. Importa mettere nei guai la contrada nemica, meglio se con l’inganno e la sopraffazione. La partita di calcio non è l’oasi in cui l’adulto ritorna alla passionalità pura delle emozioni infantili, ma un rito di scarico delle schifezze accumulate durante la settimana. Un magma di pulsioni tribali che la retorica del tifo, a cui anch’io ho spesso fornito munizioni, si incarica di nobilitare. Siamo fermi al Colosseo. Un ammasso di spettatori passivi, per lo più di sesso maschile, delega le proprie rivendicazioni a un gruppo di professionisti che fingono di condividerle. Esattamente ciò che accade in politica, altra attività molto dibattuta da noi maschi. Voglio guarire, ma non so come si fa.

di Massimo Gramellini; LA STAMPA

venerdì 3 giugno 2011

Hack-a-Shaq

Il Mostro se ne va. A 39 anni, dopo 19 stagioni Nba. Ha vinto, distrutto, guadagnato. Quattro titoli, Mvp di tre finali, più di 28 mila punti, 12mila rimbalzi, 286 milioni di stipendio. Non solo basket: anche sette film, album da rapper, svariate apparizioni in tv. Shaquille O'Neal si ritira, per tutti è stato Shaq. Un gigante, anche sulla bilancia: 150 kg per 2.16 metri. Tra i cinque migliori centri di tutta la storia Nba. Il post-Jordan e il pre-Bryant. Bravo anche a passare a la palla, a livello di Bill Walton. Un mammuth che spazzava via le difese. Sapeva sgusciare. E se gli girava male, tiè, sbriciolava pure il canestro. Quando prendeva posizione non c'era modo di spostarlo, né di abbatterlo. Diesel il suo soprannome. Perché quando carburava andava lontano. Per stopparlo gli avversari avevano inventato il fallo preventivo, gli andavano addosso a gioco fermo, quando non aveva palla. La manovra si chiamava Hack-a-Shaq, era punita con i tiri liberi: per le squadre nemiche era un sollievo, perché Shaq ai rigori era un disastro. Nella partita Lakers-Supersonics sbagliò 11 tiri dalla lunetta, un record all'incontrario. Forse gli sembrava troppo facile segnare da lì, senza nessuno addosso. Forza, muscoli e fame leggendaria: bistecche condite da altra carne rossa. Sulle porte di casa aveva messo il logo di Superman, tatuato anche sul braccio.

Un clown, un istrione, il suo mito era Magic Johnson, uno che si metteva a Harvard Square fingendo di essere una statua e che ad Halloween si travestiva
da drag queen. Tante stravaganze, molta indolenza. In palestra aveva fatto mettere un divano (era nelle clausole), per poter schiacciare un pisolino. A letto faceva anche le interviste, bofonchiava con il registratore sotto le lenzuola. Non un santo: arrivava tardi agli allenamenti, prendeva a male parole i suoi compagni (appena si trasferiva in un'altra squadra). Gli piaceva trovarsi soprannomi, come Shaqness. Un tiratardi, mai mancato a un party. "Non so come sono riuscito a vincere il titolo nel 2006, a Miami uscivo tutte le sere". Un mammone: aveva convinto sua madre Lucille a scrivere un libro e alla presentazione visto che tutti volevano la sua firma, lui premuroso: "Ma', va bene per te?". Negli ultimi anni aveva provato a mettersi a dieta: "Non capisco, da ragazzo ero scheletrico, mi hanno fatto irrobustire e ora dicono che sono troppo grasso". Sei finali Nba giocate, tre consecutive vinte con Los Angeles, una con Miami. Phil Jackson, coach dei Lakers, lamentava la sua scarsa vena difensiva: "Se solo Shaq si allenasse un po' di più".

Ma Shaq si amava così, elementare e brutale, si faceva bastare. Anche con l'orrore dei 5.000 tiri liberi sbagliati. Otto anni a Los Angeles e l'addio dopo la sconfitta con Detroit nel 2004, per incompatibilità con la stella Bryant, che sentiva il suo regno minacciato. Soprattutto dalla personalità dell'altro, eroe di un'America semplice, che non si prendeva troppo sul serio. Ora tutti a rimpiangerlo e a dire che uno così non ce ne sarà più. Non solo per la generosità della ciccia. Ma anche per la voglia di divertirsi, di ricordare che il canestro ha una circonferenza umana. E che non è male mischiarsi. In quest'ultima stagione a Boston aveva giocato solo 37 partite, mali alle ginocchia, alle caviglie, all'anca. Il mostro incontrollabile e spettacolare saluta. La sua efficacia è al sicuro: una media di 26.2 punti a partita nelle prime 14 stagioni. Anche adesso, sarà difficile spostarlo dalla storia.

di Emanuela Audisio; la Repubblica